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 Benaresyama 3 страница



       - Io torno a casa. E so che è assurdo e che t'incazzerai ma vorrei tanto che tu tornassi con me.

       Temevo che l'avrebbe detto e non so cosa risponderle. Mi ha deluso, certo, ma è la delusione che si prova quando sfuma un possibile miracolo - era folle sperare che lei potesse davvero proseguire con me

       - tuttavia sento un altro grosso fastidio dentro, ed è il fatto che MI VIENE VOGLIA DI TORNARE e la cosa mi fa diventare matto.

       Proprio adesso, mi dico?

       Mi chiedo soprattutto: perchè io, così smanioso in molte occasioni di andare a conquistare il mondo, così desideroso di allargare i miei confini, al punto di starci male, dicevo perchè devo poi essere bloccato

       - anzi, bloccarmi da solo, autoinchiodarmi - per amore di una ragazza che è nata cresciuta a duecento metri di distanza da me, una cotta che fa parte delle abitudini, di una vita passata monotona che non dovrebbe più interessarmi? E' una ragazza straordinaria, certo, ma PERCHE' l'interesse per una fanciulla con occhi dolci e un bel corpicino deve distruggere così barbaramente i miei progetti, i miei sogni di gloria, fino a ricondurmi docile come un cagnolino alla mia vecchia cuccia, con le orecchie abbassate, la coda tra le gambe, per quel maledetto osso chiamato " amore "? La cosa è strana, e mi fa incazzare, ma più ancora mi incuriosisce, non la capisco, non lo capisco proprio questo eterno mistero che si nasconde nei sentimenti.

       Ma come cazzo siamo fatti? Questo è quello che mi chiedo.

       Ed è vero, gente. L'abbiamo provato tutti.

       Ripenso alle ore precedenti, da quando l'ho vista arrivare correndo alla 38

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       stazione di Brescia fino all'ingresso trionfale in questa, pochi attimi fa: sono successe tante, troppe fantastiche cose. Volevo un tranquillo trasferimento fisico e spirituale di circa 180 minuti-treno, e mi ritrovo che sono già passate più di tre ore e sono ancora a Verona, e questa tipa - questa adorabile maledetta ragazza - che mi prende per il collo e mi vuole riportare a casa stretto a lei, come una madre troppo affettuosa. Ma posso permetterlo, per quanto io ami questa signorina?

       Non credo. Perchè questo viaggio è un dovere, verso me stesso, verso la libertà; io non sto seguendo una balzana idea uscita dal tiro di un dado, io sto seguendo ciò che è scritto a grandi lettere sul libro della mia vita, Libertà, Avventura, Sperimentazione, Evoluzione. " Io non sono pazzo, sono interessato alla verità ", disse o scrisse una volta Jim, il caro Re Lucertola, e io sottoscrivo, timbro e metto in cassaforte, perchè sento che in fondo sto cercando me stesso, la mia verità, ed è una ricerca difficile, che ti rende irrequieto, volubile, lunatico, pazzo, pazzo di vita.

       Questa è la mia vita, e l'amore non è altro che un dolce temporaneo rifugio sul selvaggio cammino verso la verità, più nascosta di qualsiasi tesoro e infinitamente più preziosa e - mi duole dirlo - decisamente irraggiungibile, che poi è questo il bello. Ti dà una direzione da seguire ma non ti fa mai arrivare a destinazione, non ti abbandona mai nella triste staticità quando dici stancamente " Bene, e ora dove vado? "

       perchè la verità è sempre un passo più in là, e puoi solo camminare fino a consumarti le piante dei piedi e poi proseguire sulle mani e poi strisciando; oppure puoi mollare tutto, fermarti al prossimo rifugio, toglierti le scarpe e - Mio Dio - accontentarti. Che poi è un modo carino di dire che hai perso.

       La via della mia verità passa da Bologna, io questo lo so e lo credo, anzi, lo sento battere selvaggiamente dentro di me. E là andrò, non voglio rimanere legato a terra schiacciato dal peso delle mie stesse 39

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       illusioni.

       La guardo senza parlare. Ha già capito la risposta dal modo in cui la guardo.

       - No, non torno a casa. Ho troppa paura che tutto questo finisca subito.

       Ho paura che non avrei più la forza di partire un'altra volta, e io questa cosa la devo fare, mi capisci? E' in gioco la mia vita e se davvero mi vuoi bene dovresti capire che è troppo importante per me e lasciarmi andare ma questo senza smettere di amarci. Io non smetterò di amarti.

       - Va bene. - Occhi più che mai da cerbiatto, in questo malinconico dialogo che suona davvero come l'ultimo addio. Si gira a guardare l'amico tabellone, e io mi giro con lei. Treno per Bologna, binario 6

       ore 13. 56. Treno per Milano, binario 7 ore 13. 58. Abbiamo mezz'ora di tempo.

       - Per mezz'ora ancora sei mio - mi dice allora e io se ho ben capito quello che intende fare mi dico che ci sarà da divertirsi. Allargo il sorriso e socchiudo leggermente gli occhi. Si fa seguire camminando spensierata fino ai giardini tossici che fanno da zerbino alla stazione, oltre le fermate degli autobus. Ci sediamo a cavalcioni di una panchina, l'uno di fronte all'altra, poi lei avanza e mette le sue gambe sopra le mie e così incrociati ci guardiamo per qualche secondo scendendo in profondità l'uno nell'altra come non avevo mai fatto con nessuna persona, vedendo le rispettive emozioni balenare libere negli occhi, non ingabbiate dalle parole pesanti e terrestri; scendiamo attraverso i rispettivi occhi discreti e dolci, giù fin dove brillano le fiamme della vita; siamo una cosa sola. Ci guardiamo così sorridendo appena, con la dolcissima sensazione che tutto questo è bellissimo, il momento più bello cha abbiamo mai vissuto.

       Senza dire niente ci avviciniamo nello stesso istante e ci scambiamo un bacio leggero; ci guardiamo ancora un istante e poi le nostre labbra sono di nuovo unite; cominciamo a baciarci sul serio e questa volta c'è 40

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       proprio passione, gente, pochi attimi e sento i respiri affannosi e le nostre bocche che si cercano avide. Non mi sembra che esista più nessuno, l'intero universo è posato sulla pelle sua morbida delle guance, del collo, e la bacio miliardi di volte mentre lei mi scompiglia i capelli e mi stringe a sè, poi le mie mani sono dentro il suo giubbino, voglio sentire il suo corpo, e mi scappa appena l'occhio su una mamma che passa frettolosa allontanando il figlioletto e poi ci sono di nuovo solo i suoi capelli, il suo viso, il suo respiro, le sue labbra, morbide ciliegie rosse, e fremo di emozione accarezzandole la schiena e i fianchi, mentre lei nel frattempo si avvinghia alle mie braccia e alza la testa per ricevere i miei baci. E' quasi un record di apnea, in questa estasi erotica che ci attanaglia e non andiamo oltre solo perchè siamo in un giardino pubblico ed è pieno giorno perchè se ci fosse solo un attimo di privacy non so dove arriveremmo... la sento mia in una maniera in cui non avrei mai sperato, non è più un'amica e nemmeno la mia ragazza ma diventa una parte di me, e in fondo non stiamo facendo altro che lasciare il segno l'uno nell'altra, un segno profondo che nessuna parola potrebbe mai creare. Ci lasciamo così sapendo che non ci lasceremo mai.

       Vola il tempo intanto inarrestabile e impossibile da misurare con poche parole di tregua tra un bacio e un morso - perchè il tempo vola quando si è felici, non è così che si dice? - e ci separiamo nello stesso momento e ci guardiamo stanchi, arrossati ed estremamente soddisfatti. E' bello essere in sintonia. Mancano dieci minuti alle due.

       - Andiamo - dico e ci catapultiamo in stazione mentre lei fa il biglietto per tornare a casa - e forse è solo una mia impressione ma mi sembra che lo tratti con più cura, adesso, prezioso adorabile cartoncino arancione. Mancavano dieci minuti all'una quando lei si è messa in fila per il biglietto e sono cinque minuti senza parole, perchè ormai tutto quello che c'era da dire è stato detto e trovare altre parole vuol dire 41

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       rovinare tutto. Ci separiamo nel sottopassaggio con un lungo, possente bacio; saliamo sui reciproci scalini e il mio treno sta arrivando.

       Lei è di fronte a me, al di là di due binari; mi urla: - Scrivimi!

       Telefonami! Fatti sentire! - e io: - Sicuro! - e vorrei dirle qualcos'altro, qualcosa di epico come succede nei film ma in realtà non mi viene in mente niente e allora la guardo, la guardo e basta, i suoi dolci occhi nocciola che ricambiano il mio sguardo lì a sei o sette metri da me, e come tutti i nostri sguardi fatti di scoppiettante silenzio anche quest'ultimo, lungo sguardo è carico di significati espressi nel linguaggio delle emozioni, piuttosto che quello delle parole. Mi accorgo ancora una volta che la amo, e non la dimenticherò mai.

       Poi un mostro di metallo si precipita furioso nel mio campo visivo e spezza l'incantesimo. E' ora di andare.

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       E andrò avanti a raccontare quel che successe, perchè il mio viaggio non era affatto finito, oh, per niente, proprio per niente; ma prima voglio fare un salto nel passato, e dire di come tutto era iniziato davanti a un presepio (lo giuro): sì, lì ci eravamo conosciuti, davanti a un presepio in rovina perchè ormai le feste erano passate e lo stavano smontando. Il tutto avveniva circa undici mesi prima, questo presepio in rovina intendo, contando che quando mi ero presentato allo sportello della biglietteria per chiedere un biglietto per Bologna era di nuovo Dicembre. Ma di fronte a quel presepio - un sorriso, qualche battuta e quel terribile desiderio di scoprire, di conoscere che ti prende ogni tanto imponente quando conosci una persona e se poi è una ragazza capisci allora che è potenzialmente destinata ad avere un ruolo piuttosto importante nella tua vita e probabilmente ti regalerà qualche quarto d'ora di batticuore insonne prima di dormire - era iniziata una strana storia che per i mesi a seguire mi avrebbe fatto illudere di aver trovato qualcosa per cui valesse la pena di entusiasmarsi, per cui la vita in quella città poteva risultare perfino emozionante - era una specie di miracolo. Mi buttai a capofitto in alcune piacevoli passeggiate e in ampie discussioni filosofico - musicali che avevano 43

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       contribuito ad accrescere la nostra soddisfazione, mia e di Anna, oltre le reciproche bollette telefoniche, perchè ovviamente era impossibile dirsi tutto solo vedendosi. L'accompagnavo a casa e ci salutavamo e poi andavo a casa e appena arrivato a casa squilava il telefono ed era lei. Oppure ero io stesso che la chiamavo. E al telefono non eravamo mai stanchi. Ecco, un periodo così, uno di quei magici periodi in cui ti sembra di aver trovato la persona che è al mondo apposta per te, quella che hai sempre cercato; quei periodi in cui con soddisfazione non riesci a trattenere la gioia ogni volta che vedi quella particolare persona mentre a tutti gli altri riservi poco più che un saluto; egoisticamente - e anche abbastanza stupidamente, in fondo - pensi

       " sì, ecco che ho trovato chi mi capisce fino in fondo", come se DAVVERO qualcuno potesse capirci fino in fondo. Ma in quei momenti te ne freghi, ti piace che tutto sia così incredibilmente facile, o perlomeno che SEMBRI così. Passai una meravigliosa primavera di speranza, e sembrava esserci un futuro. Non ci eravamo nemmeno mai baciati ma Alex e Aidi ce l'avevano fatta e potevamo farcela anche noi. Era la nostra favola personale.

       Poi, arrivò l'estate e avevamo giusto litigato che era la fine di Maggio, quasi l'avessimo calcolato; un litigio triste e pericoloso a proposito di quello che sarebbe dovuto esserci di più o di meno tra noi due; finì che ci allontanammo improvvisamente, e io dopo qualche giorno di delusione atroce mi ridussi a pensare che era stata solo una storia del cazzo come tante altre, usata e ormai sgualcita da buttare, cazzo.

       Cercai di mettermi il cuore in pace, decisi di sparire e passai un estate come si deve, via da lì, un divertimento esagerato e poi la mazzata terribile tra capo e collo del ritorno a casa dopo le vacanze; una decisione improvvisa che mi avrebbe salvato: via, via di qua. Fu allora che progettai di scappare e di andare a raggiungere mio cugino Ramon a Bologna.

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       Solo che per errore lasciai passare qualche tempo e Anna mi cercò di nuovo, e io non seppi resistere alla sua dolcezza e alla sua realtà, c'era davvero, c'era ancora ed era lì per me, e poteva salvarmi. Non seppi resistere, cosicchè ritornammo ad essere amici e le reciproche ancore di salvezza per il nostro livello di realizzazione che stava ormai toccando il fondo, tra amici lavoro e famiglia non ne potevo davvero più, no... lei era la mia salvezza, angelo castano e morbido dalle dolci parole. Così rimasi incastrato per qualche altro mese. Ma poi lei mi deluse di nuovo: io volevo rifugiarmi totalmente in lei per non vedere più nemmeno il mondo che avevo intorno e lei, quando mi vedeva troppo vicino, s'impauriva e si allontanava. Mi chiesi allora come potevo essere stato tanto fesso da lasciarmi ingannare nuovamente dal morbido abbraccio della nostalgia; come potevo avere dimenticato le cose negative e conservato solo i buoni ricordi, in modo da dar modo alla vita di fottermi nuovamente. Insomma a un certo punto non ne potevo proprio più ed è per questo che mi ero recato in stazione, cara adorabile mia salvezza, e avevo acquistato quel biglietto per Bologna.

       Donami la libertà, ferrovia.

       A quel punto il treno sferragliava non troppo rapido verso l'Emilia, e io mi sentivo un poco turbato, non so perchè; una strana nube interiore stava spegnendo quel sole accecante che c'era lassù in alto, e mi sentivo come nelle tristi solitarie Domeniche pomeriggio di riento in caserma, due anni prima, quando il treno mi era odiato, in quel lungo anno di semi-prigionia in cui il mio spirito aveva imparato ad essere libero. Mi sentivo trascinarmi come se stessi strisciando sulle rotaie invece che essere comodamente (per quanto sia possibile sulla seconda classe F. S. ) seduto di fronte a un paio di signorine chiacchierone dall'accento emiliano che davano l'idea di saperti tirar fuori l'anima, con la bocca, un po' parlando e un po' no.

       Be', certo, mi dispiaceva per Anna, in fondo era forse l'unica persona 45

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       che arrivasse ad essere in sintonia con me, ma la nausea era stata insopportabile, e il piacere che avevo provato nell'andarmene troppo intenso perchè io potessi permettemi dei dubbi. Mi dissi di smetterla di sentirmi triste per quel che avevo perso, chè a Bologna, ne ero sicuro, avrei trovato tutto ciò che volevo. Me lo dissi e cercai di convincermi... non ci riuscii. Mi dispiaceva. Non avrei voluto lasciare Anna. Ma tant'era: " avrei dormito e dimenticato; avevo la mia vita, la mia triste e sconclusionata vita per sempre", diceva il vecchio Jack.

       Diavolo, perchè dovevo essere ancora così impegolato?

       Stavo tentando di fare come Jack Kerouac, correre, scappare, senza nessun orario, senza nessun appuntamento, in balì a di sè stessi, lasciando a casa ogni dubbio e ogni problema e ogni preoccupazione, cercando nell'altrove la libertà; e avevo buone intenzioni, avevo pure trovato dei compagni, ma non ce l'avevo ancora fatta a liberarmi del tutto, quelli erano altri tempi, c'erano altra gente e altre strade, e quando Jack raramente prendeva il treno lo faceva come clandestino, mentre io con la mia mania di pagare il biglietto dimostravo poca stoffa, forse l'avevo offeso o forse avevo offeso il mio spirito libero e in questo la colpa del mio turbamento era solo mia, per quanto, mi dissi, erà già stato a quel punto un viaggio capace di regalarmi momenti davvero straordinari.

       Ecco, ora stavo arrivando a Bologna, e avevo un sogno da inseguire; la pianura era vasta e luminosa, vedevo l'orizzonte da ogni parte, quest'unico ampio tappeto azzurro che copriva il mondo; quando poi arrivammo in stazione tutte le mie preoccupazioni vennero cancellate e orgoglioso e allegro come un militare che torna a casa mi precipitai frenetico alla conquista della città. Con bagagli e occhiali da sole.

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       Quello che feci immediatamente fu precipitarmi in centro città, ero già stato un paio di volte a Bologna e avevo già percepito l'atmosfera di movimento nei lunghi portici che dalla stazione ti conducono fino al pavè di via Rizzoli; quelle larghe vetrine che riflettono il passaggio di mille studenti mille signore mille vagabondi mille stranieri, gente di tutte le città, di tutte le anime e di tutti i ruoli; gente in cerca di qualcosa, come me, o gente ricercata come alcuni professori dell'Ateneo; gente che corre o gente che passeggia, gente che vive, che compra, che guarda, che lavora, che chiacchiera. Ah, Dio, avevo finalmente trovato il mio regno! Sentivo di trovarmi in mezzo a coloro che sanno cos'è il tempo, quelli che hanno la nozione del tempo, quelli che non sprecano la loro esistenza ma anzi si buttano in scivolata su un marciapiede piastrellato pur di raccogliere una goccia di vita, pur di sentire sulla pelle anche solo per un istante quel gran vento freddo che è la vita. Diavolo! Questi sì, che sanno come si fa! Ridevo mentre attraversavo la folla con le mie borse alla mano, nemmeno mi pesavano più, quasi correvo mentre arrivavo da mo cugino, in Strada Maggiore.

       Il mio caro cugino Ramon, più vecchio di me, era anche lui nato a 47

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       Brescia ma si era trasferito molti anni prima lì, deciso, senza dubbi nè ripensamenti, e ora stava ancora lì. Era entusiasta della sua nuova vita e mi scriveva lunghe lettere piene di novità e di magia, e per anni avevo covato nel cuore il desiderio di imitarlo, di partire e raggiungerlo e a mia volta entrare in quella fantastica vita - il mio adorato cugino è uno scrittore e proprio un mese prima che io partissi aveva pubblicato il suo primo libro; il mondo si stava aprendo a lui.

       Ora si sarebbe aperto anche a me.

       Era a casa ovviamente quando lo incontrai; aveva lasciato il suo lavoro quando il primo libro era stato venduto, per dedicarsi completamente al mestiere di scrittore - mio cugino Ramon è nato con le parole giuste già sulle labbra, è un vero artista dell'inchiostro.

       Suonai e lo raggiunsi di sopra e lui mi accolse con un gran sorriso e il suo solito sguardo semi-assorto, la sua tradizionale aria allegra e gioviale ma distaccata, come se nulla potesse realmente toccarlo. Ora io ero il suo parente prediletto per quella vena pseudo-artistica che scorreva dentro di me, per il mio carattere instabile che mi aveva permesso di accettare e di ammirare le sue scelte che a me erano apparse coraggiose e agli altri parenti stupide. Ma la vita gli stava dando ragione, aveva trovato la sua verità nell'arte letteraria, e questo era un evento straordinariamente incoraggiante ed entusiasmante, la vittoria dell'individuo sui fatalisti, dell'artista sui filistei borghesi. Era il mio eroe, Ramon.

       - Ivan! Ti sei deciso, finalmente! Vieni, entra!

       Mi condusse nella sua grande dimora, un appartamento spazioso in un vecchio palazzo del centro, fatto di stanze larghe, e un incredibile adorabile disordine in onore alla legge dell'Entropia, quella strana e -

       chissà perchè - poco conosciuta legge che regola i legami tra Ordine e Kaos, ossia il contrasto più interessante e vitale dell'universo intero.

       Libri erano sparsi un po' ovunque su ogni mensola libera, tavolo, 48

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       sedia, tappeto, e talvolta anche sul pavimento. I tavoli erano pieni pure di fogliame vario o nel migliore dei casi di quaderni e agende. Scarpe e vestiti giacevano abbandonati stanchi come ragazzi dopo una festa, in particolare sugli schienali dei divani e delle poltrone. La cucina era un incomprensibile guazzabuglio di piatti e pentole tutti rigorosamente usati.

       - Sai - mi disse - mi capita raramente di essere in casa a mangiare, e allora mi dimentico anche di pulire - e chiuse la porta della cucina per nascondermi quella imbarazzante manifestazione di incapacità domestica. Ma non poteva fregarmene di meno, ero venuto a trovare un artista e non una massaia.

       - Cosa stavi facendo? . gli chiesi, e lui mi condusse a una grossa vecchia scrivania in legno scuro piena di fogli e di un paio di biro, una rossa e una nera, quest'ultima senza cappuccio. Un poster di " Taxi Driver" sovrastava la scrivania. Sullo schienale della sedia era appeso un golf grigio scuro, Ramon indossava solo una maglietta nera con le maniche lunghe, e un paio di pantaloni di tela verdastri.

       - Sto tentando di scrivere qualcos'altro - mi disse. Interrompendolo lo ringraziai subito per la copia del suo libro che mi aveva spedito, una maestosa storia d'orrore metropolitano piena di sentimento, o almeno così diceva la copertina. In realtà era una entusiasmante esplosione verbale di quel pazzo giocoliere di parole che anni prima, quando era ancora a casa, mi faceva ridere con i suoi interminabili discorsi e i suoi doppi sensi; era una storia scritta e da leggere tutta d'un fiato, senza quasi la possibilità di prendere il respiro, m'aveva avvinto in una notte tempestosa pochi giorni prima di partire. Avevo la copia con me, ovviamente. Era un'opera d'arte, gli dissi.

       Beati coloro che sanno giocare con le parole e volteggiare tra esse come candidi surfisti californiani, coloro che abbattono il muro tra prosa e poesia, tra filosofia e narrativa, tra sentimenti e avventure.

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       - Ma ora devo andare a conquistare la città - conclusi, e gli proposi di accompagnarmi a scoprire tutto quello che c'era da scoprire.

       Acconsentì con gioia - non è uno di quegli artisti difficili che hanno paura di interrompersi per poi non saper riprendere, quelli per cui la creazione è un raro e delicato equilibrio tra tanti fattori, per lui era naturale scrivere come guardare un film, e avrebbe potuto stare fuori ore con me ed ubriacarsi e poi tornare tardi e riprendere da dove si era interrotto e in un attimo essere lì a scrivere come un razzo, come se non avesse mai smesso.

       - Bisogna mantenere la meraviglia di fronte a tutto. Bisogna essere come i bambini, che piangono per cose che a noi nemmeno colpiscono più, non ce ne accorgiamo, come stare a guardare il passaggio di un treno. - Questa era una cosa che mi aveva detto una delle ultime volte che ci eravamo visti, e mi aveva colpito dritto; non me l'ero più dimenticata.

       Frenetico indomabile artista che mi propone di fare viaggi in bicicletta su per via Codivilla a vedere la scritta dedicata ad Aidi - quella di Enrico; e intanto si parla di fumare e di scrivere, e dei libri di Jack e quelli di William Blake, di come essere uno scrittore voglia dire essere capace di esprimere con parole le proprie sensazioni e questo non è davvero facile, gente, oh no per nulla. Ma lui lo era, mio cugino, e non solo perchè avesse pubblicato il suo libro perchè quando sei uno scrittore DENTRO lo sei e basta, capisci che quello è ciò che la vita vuole da te, anche se poi buttassi via le pagine che hai scritto - perchè l'atto dello scrivere è importante nel momento in cui viene compiuto, prima che l'inchiostro si trasformi in qualcosa di statico da leggere.

       Questo è quello di cui si parlava mentre lenti e confusi in mezzo agli studenti ci avviavamo verso le torri, per poi prendere a scorrazzare per le vie del centro.

       Era fantastico; sentivo scorrere sotto la pelle una nuova energì a in 50

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       quelle vie, in quel viavai di gente di ogni età e razza e provenienza e colore di capelli. Mi guardavo intorno fissando ogni persona che vedevo come se volessi imprimerle tutte in mente con una sola occhiata; ogni passante mi sembrava bello e amabile; sorridevo in maniera esagerata - forse sembravo pazzo - ma qualcuno rispose al mio sorriso contagioso, il sorriso di un piccolo spirito inquieto improvvisamente ritrovatosi in un terreno kaotico a lui decisamente congeniale, fertile per evoluzioni e voli liberi di pensiero.

       Avevo trovato il mio Eden. Lo sentivo.

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       La prima magia alla quale mi capitò di assistere a Bologna fu la neve: neve che a Brescia negli ultimi inverni era diventata una rarità, un evento eccezionale da attendere con ansia in genere fino a Febbraio e salutare con grandi salti di gioia come bambini, davanti alla finestra con la bocca spalancata. Era la mattina del giorno di Santa Lucia, che a Brescia voleva dire festa e regali per centinaia di bambini, e lì invece non significava niente. Ero lì da meno di una settimana; mi svegliai sentendo uno strano freddo che si insinuava indiscreto sotto le coperte come un gattino troppo affettuoso o vivace, come un'amante impetuosa ma dolce. Socchiusi appena gli occhi nella penombra della camera, vedendo appena la luce che filtrava nelle fessure delle imposte, poi di colpo decisi che era ora di alzarsi, che non potevo perdere altro tempo sotto le coperte con tutta una nuova vita da scoprire; mi sentivo pieno di ingenuo entusiasmo, come tutte le altre mattine che avevo iniziato lì. Allora buttai subito indietro le coperte, feci alcuni silenziosi rapidi passi a piedi nudi sul parquet ed ero davanti alla finestra: aprii i vetri e le imposte ed eccola, la morbida neve che scendeva in larghi fiocchi volteggianti; eccola, magica dolce neve che scalda i cuori con la sua vista, desiderata come un'amica che 52

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       lascia passare sempre troppo tempo tra una visita e l'altra. Ascoltai per qualche decina di secondi il candido silenzio ovattato della città ammantata di bianco, luminosa tanto da costringermi a stringere gli occhi, ed inspirai a grandi boccate il fresco profumo dell'aria.

       Ora, non era magia questa? Avevo sempre amato la neve fin da quando bambino era un gioco in più da fare all'asilo nell'intervallo e poi ancora quando le palle di neve all'entrata delle scuole superiori erano un ingenuo tuffo nel passato di giovanotti ormai convinti di essere grandi. Amavo la morbida invadenza di questi fiocchi che bloccavano macchine, coprivano cartelli, bagnavano i capelli, lenti silenziosi e inarrestabili, meno rumorosi della pioggia ma più sostanziosi; più efficaci nell'allontanarci dai nostri pensieri quotidiani, nell'avvolgerci di magia e di fantasia, nel tenere lontani i rumori e le disperazioni di tutti i giorni. Non sarebbe mai stata troppa, per me.

       E allora rientrai dalla finestra e in capo a cinque minuti ero già per le strade, divertendomi a scivolare con i miei stivali sui marciapiedi umidi, evitando di proposito i portici per farmi sommergere dai fiocchi, camminando in mezzo alle strade e raccogliendo a mani nude la neve su automobili, biciclette, cassette della posta, davanzali, muretti, e guardandomi in giro con lo sguardo di un invasato. Era magia, pura e semplice magia, e io la interpretai come un segnale, il mio benvenuto a Bologna. Già, sì, prometteva bene.

       Nel pomeriggio Ramon mi propose di uscire e andare a sorprendere i suoi amici fuori dall'università con grosse e gelide palle di neve e io acconsentii anche se erano persone che conoscevo appena - li avevo incontrati di sfuggita un paio di volte mentre passeggiavo con mio cugino e già comunque mi davano l'idea di quel genere di persone che in due minuti ti sono già amici, questi meravigliosi ragazzi ansiosi ricercatori della vita che fremono dal desiderio di conoscere gente nuova, e io ero come loro, in fondo.

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       Così rapidamente scendemmo e ci dirigemmo verso l'Università spolverando la neve da ogni sporgenza e buttandocela reciprocamente addosso mentre arrivavamo in piazza Verdi; poi lui scorse i suoi amici poco fuori dal bar dello studente - due figure diverse e ugualmente buffe come pupazzi mentre camminavano con il capo abbassato sotto la nevicata, che nel frattempo s'era alleggerita; uno più basso coperto da un lanoso pesante montgomery verde con il cappuccio rialzato, l'altro con un giaccone nero sportivo e una folta chioma di capelli ricci imbiancati. Io e Ramon preparammo due palle di neve a testa, una per mano, e corremmo verso di loro. Ramon mi disse: " Rino è tuo, è quello di destra"



  

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