Хелпикс

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 Benaresyama 9 страница



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       sera si va in un'apposita sala giochi per una partita a pincanello a sei e Francesca ci fa ridere perchè non è capace ma l'adoro perchè è l'unica ragazza della partita, e perchè è piena di personalità; cazzo, ma dov'eri prima?, mi chiedo mentre la guardo un istante di troppo, tra una pallina e l'altra; nel frattempo Anna passeggia per la sala giochi catturando lo sguardo d'ammirazione dei ragazzi senza compagnia -

       perchè va be' che si dice che gli uomini sono sempre soli, ma c'è qualche diversivo ogni tanto - e quelli che non ce l'hanno, lo si capisce dal modo in cui guardano Anna.

       Finita la partita voliamo a casa facendo la partenza da formula uno a ogni semaforo, zig-zag e curve larghe da ritiro patente; Anna mi pianta le unghie in pancia e sento un brivido che mi percorre tutto il corpo. Inchiodo la macchina poco dopo - c'è il parcheggio di un supermercato - e lì le passo una mano dietro la nuca e la bacio ed è dolcissima e piena di passione; è lì per me - o forse sono io lì per lei -

       comunque sia è tutto assolutamente perfetto. Accarezzo il suo corpo con discreto desiderio e lei si muove come un gatto; mi stacco improvvisamente e mi risbatto dritto sul sedile sospirando:

       - Cristo santo...

       Lei si riavvicina e mi dà un bacio delicato su una guancia ed è tenera come un cucciolo. E io la guardo pieno d'orgoglio e d'amore e poi riaccendo la macchina e vado, tutti ci staranno aspettando, ormai.

       Ancora una volta al parcheggio ridiamo e fumiamo e cantiamo, e accidenti, è strana questa energia, è Domenica sera; mi sanno ancora sorprendere, queste persone...

       Saluto tutti come se ci dovessimo vedere il giorno dopo, e solo quando accompagno Anna mi rendo conto che le mie intenzioni erano di ripartire subito per Bologna. La guardo dubbioso e lei deve aver capito e mi chiede, per colpirmi:

       - Allora domani riparti?

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       Sorrido e accuso il colpo, mi accorgo che non ne avrei per niente voglia... ma qualcosa mi puzza di sconfitta, forse è solo una maledetta questione d'orgoglio.

       - Sì, penso di sì - le rispondo. - Se non parto mi sentirai domani pomeriggio, altrimenti passerà qualche giorno di più. Non ti preoccupare, comunque; devono succedere ancora molte cose.

       - Devo andare - mormora, e la bacio ancora ma solo un attimo, non di più non adesso, non qui, anche se la desidero con ogni fibra del mio corpo. Scendo dalla macchina e ci diamo la mano piano, guardandoci negli occhi con un sorriso leggero senza dire niente. Poi ci abbracciamo, sempre in silenzio, e rimaniamo così per trenta secondi, un minuto, due minuti, stretti a sentire il nostro battito cardiaco e nient'altro, nient'altro. L'essenziale è sempre invisibile agli occhi, accidenti.

       Tornai a casa e rimasi per qualche attimo in strada prima di salire, godendomi l'aria gelida che mi sferzava. Oddio, ecco un altro di quei bivi della vita, quelli che ci fanno camminare in bilico ad occhi chiusi su una corda tesa; ecco un altra di quelle scelte piantate nel cuore come una pugnalata, quando non sai proprio a cosa rinunciare. Ecco due treni veloci che passano e vanno in direzioni opposte e non sai quale scegliere ma devi farlo per arrivare da qualche parte, è così, no?

       Devi saltare su un treno se vuoi arrivare da qualche parte, c'è sempre un treno di mezzo. E non avevo nessun orgoglio da difendere, ora; solo la paura di perdere qualcosa in ogni caso, qualcosa che non avrei mai più trovato.

       Ciò che più mi colpiva era la vitalità dei due giorni appena passati.

       Che grandi giornate, accidenti! Dov'erano finite? Dov'erano quando sono partito pieno di noia e di nausea? Dov'era questa carica, questo entusiasmo che sento scorrere in tutte le persone che ho accanto, che 136

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       riempie la macchina, che rende Brescia una città dei sogni? Possibile -

       ancora una volta, e che diavolo - che alla fine sia tutto dentro me? Già, dev'essere così.

       Sento forte l'istinto di fermarmi qui e buonanotte: ma durerà? E non perdo niente?

       E intanto il freddo alito del diavolo sferza le strade deserte di questo quartiere in un Febbraio di angosciante grandezza; poche luci sono ancora accese nelle alte case intorno e il silenzio è rotto solo dal sibilo del vento; mi gira nella testa una canzone dei Red Hot Chili Peppers che parla di " uscire a fare un passeggiata, solo io e i miei due piedi, là fuori devo incontrare me stesso". Mi gira in testa come solo le canzoni sanno fare, per ore, gli accordi si inseguono e si moltiplicano, ogni singolo giro di note si sdoppia, prolifera, si ripete all'infinito; due, tre, cento voci si sovrappongono e combattono e poi arriva un giro di note più forte a schiacciare tutte le variazioni e a ricominciare la danza, quattro quarti, chitarra batteria voce, per ore e ore e ore e ore... passo un po' di tempo così, mentre ancora attendo un segnale, qualcosa che mi illumini come quel lampione lassù indiscreto e impetuoso... poi l'incanto svanisce ed è di nuovo " solo" notte, la notte fredda e silenziosa della mia vecchia cittadina industriale. Salgo le scale e vado a dormire - o almeno ci provo, tra dubbi e dolci pensieri per Anna.

       Al termine di una notte inquieta mi alzo e faccio i bagagli, per adesso riparto, ci devo pensare: mi precipito in stazione in seguito a uno scatto di adrenalina... ma quando il treno parte non mi sento per niente allegro: mi sto strappando via con la forza, la ragione sta violentando l'istinto. Bene, mi dico, sopravviverò anche a questo viaggio; e poi troverò la risposta a questa scura pesante vena d'incertezza.

       Piove mentre arrivo a Bologna; piove fuori e dentro di me.

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       Arrivo a Bologna ed è un Lunedì pomeriggio strano, non ho voglia di far niente. Mi avvio dalla stazione verso via Indipendenza e poi salgo le scale fino al parco della Montagnola. Appoggio le borse su una panchina e sto lì una mezz'oretta a cullarmi nella mia confusa cupa malinconia, in tempo per vedere le mamme e alcuni nonni che vengono a prendere i loro figli piccoli all'asilo pomeridiano. Penso alle loro vite, quelle delle mamme e dei nonni, intendo. Penso alla mia totale assenza nei loro pensieri. Penso alla loro assenza da quella vita incoerente e straordinaria che io tanto inseguo e che mi fa dannare come avessi il fuoco alle caviglie.

       C'è una giovane mamma, avrà venticinque anni o poco più, che abbraccia il suo piccolo bambino, un trotterellante coso dallo sguardo allegro: lo porta a sè e lo stringe, poi insieme si avviano verso le scale, a casa. Io penso alla loro casa colorata, con un grosso orsacchiotto dagli occhi blu seduto sul divano. Ritorno con la mente ai pomeriggi d'Inverno dopo la scuola, quando ero a casa ad ascoltare musica e c'era il tempo per una tazza di thè verso le quattro o giù di lì; mi ricordo la dolcissima pigrizia che mi spingeva a non fare nient'altro, magari telefonavo a qualche amico e poi tornavo ai miei quaderni di 138

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       matematica scarabocchiati, pieni di esercizi lasciati a metà; ai miei libri di Stephen King, che divoravo isolandomi dal mondo per qualche tempo; allo stereo di papà, ai CD di Sting e dei Simply Red che mi cantavano morbide canzoni. Penso a mia madre che magari era nell'altra stanza con la radio accesa e ascoltava Radio Uno in AM

       mentre faceva un maglione, o stirava; penso alle sei di sera quando tutti tornavano, mio padre che entrava silenzioso e appoggiava giacca, ombrello e borsello, ciabatte e poi sul divano a guardare il telefilm poliziesco delle sei e mezza; mio fratello che arrivava invece correndo su per le scale e lo potevi sentire fin da basso, si tuffava in doccia e poi magari suonava il pianoforte o scriveva una lettera a una qualche amica o faceva i suoi conti: e io stavo lì a vederli arrivare con gioia semplice, ancora li amavo tutti insieme e c'era quella strana cosa che chiamano famiglia. Mi mettevo seduto sul divano appoggiato a mio padre e guardavo con lui il telefilm: e intanto mamma che stava lì con noi a intermittenza, mentre cominciava a preparare la cena. Penso a piccole gioie, come tornare a casa e trovare qualcuno che fa parte di te e della tua vita, qualcuno che ti conosce e vive con te da tanto tempo.

       La mamma e il bambino se ne sono andati. Qualche anziano passeggia solitario nel parco. Fa ancora molto freddo, anche se Febbraio se ne sta ormai andando, e le mie mani si sono intirizzite mentre mi perdevo nei pensieri e nei ricordi. Non vedo come potrei sopportare tutto questo, questo improvviso gelo e questa tristezza... e poi penso a quel che ha detto Rimbaud, che " se c'è qualcosa di davvero insopportabile è che niente è insopportabile".

       Ma per un'impaziente inquieto spirito come il mio questo pomeriggio sta diventando troppo freddo qui in questo silenzioso parco affollato di solitudine: c'è come una grossa ondata di depressione che mi sta arrivando addosso e mi fa paura, e allora mi alzo e prendo la mia borsa e me ne vado a casa, e spero con tutto il cuore che Ramon sia là ad 139

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       aspettarmi. E stasera chiamerò mio padre.

       E' insolitamente priva di entusiasmo la mia camminata per via Indipendenza, trascinata fino in piazza e poi lungo la frenetica sempre splendida via Bassi. Ma stavolta non offro la mia fantasia alle mille promesse che fremono nell'aria; dritto, lento e inarrestabile come un treno passo davanti alle torri e me ne vado a casa senza guardare le facce di quelli che incontro, vedendole, sì, ma senza GUARDARLE.

       Ritrovo le chiavi nello zainetto, salgo, e chiamo - Ramon? - non appena ho messo un piede nell'appartamento. La porta di camera sua si apre, e mio cugino mi risponde: - Sì?

       Lo guardo sorridendo improvvisamente, lascio cadere la borsa e gli dico solo: - Ciao, Ramon - sollevato come se non lo vedessi da secoli.

       - Ciao, Ivan. Com'è andata?

       Lo guardo un attimo e gli rispondo: - Be', a dire la verità... non lo so.

       Lui si avvicina e legge i dubbi stampati sul mio finto sorriso, perchè noi siamo quelli che non piangono e non si lamentano se non quando sono da soli al silenzio nella propria camera, finchè i nostri cuori pesanti stendono un velo opaco sui nostri occhi.

       - Vieni, siediti. E parlami un po' se ti va. Ti faccio un thè, intanto.

       - Caro cugino... che casino che è la vita, a volte. E... è buffo, quando ottieni qualcosa devi sempre perdere qualcos'altro, e poi - insomma, a volte ottieni qualcosa che volevi veramente, intendo dire, realizzi un sogno, e cazzo è lì il bello che comincia la confusione... non so, dico, non hai neanche il tempo di godertelo che già ti riempi di possibilità e ci sono scelte da fare - e questo va benissimo - ma poi hai paura di perdere, che ne so, non sai che scegliere. -

       Pausa. Intanto mi sono seduto al tavolo della cucina, e ascolto il lieve rumore del gas che brucia sotto il pentolino dell'acqua. Ramon è in piedi di fronte a me.

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       - Intendo dire, cazzo, finirà mai questo libro? - esplodo all'improvviso.

       - Cioè? - ride lui, ormai sa di avermi contagiato con i suoi arditi letterari paragoni.

       - Cioè una bella avventura, una bella storia e qualcosa che possa assomigliare a un lieto fine, a un finale decente, non so - poter dire, okay, qualunque cosa succede adesso è un altro libro, quello che ho fatto l'ho fatto bene e ho avuto anche fortuna ma il risultato è fatto, nessuno ti può rubare il ricordo di un'avventura. Ma non riesco a trasformare le cose in ricordi, si consumano o sfumano prima che io ci riesca, e mi sembra di averle semplicemente perse. Come certe persone che negano quello che hanno provato in passato e per farlo cambiano addirittura la loro versione ma senza mentire, intendo dire che si autoconvincono che non è andata così...

       Ramon sorride. Già mi sento meglio, in ogni caso.

       - Insomma, quello che volevo dire... è che vorrei iniziare un altro libro, credo, o comunque era questa l'idea che mi girava in mente quando sono partito per venire qui... e non ci riesco, accidenti.

       Lui spegne il gas, prende il pentolino e versa l'acqua in un tazza. Poi prende la bustina del thè e la mette nell'acqua. E' un rituale che entrambi adoriamo, quei semplici lenti movimenti necessari per preparare una buona tazza di thè caldo.

       - Per come la vedo io - comincia Ramon - il libro finisce quando muori, o forse nemmeno lì. Il resto puoi dividerlo in capitoli, in parti...

       ma è sempre lo stesso libro. Puoi cambiare stile e personaggi, ma il protagonista è sempre lo stesso. E' lì, è sempre lui. E le persone intorno cambiano, vanno e vengono. Ma non puoi congelarle. Non sono quadri, sono persone. Io amo le persone, e molte volte lascio che siano loro a scrivere il mio libro, se hanno qualcosa di interessante da dire. Ecco perchè sono molto felice che tu sia qua con me, adesso. Stai scrivendo nel mio libro, e quello che stai scrivendo mi piace.

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       Silenzio. Non c'è più nemmeno il rumore del gas che brucia.

       - Non so a cosa è dovuto il casino che hai in testa, ma ricordati che questa vita è caotica e difficilmente riesci a inquadrare perfettamente le cose. Non stupirti se non riesci a darti delle risposte. Nel migliore dei casi, le tue risposte cambiano di giorno in giorno, e così dev'essere.

       - Dio bono, ma c'è da impazzire, non trovi? - lo prendo in giro.

       - Sì. Se non fossimo un poco pazzi non ci sarebbe nemmeno l'arte. E

       io di che vivrei?

       Grande Ramon. E' incredibilmente esatto, non tanto quello che dice, quanto il suo modo di vivere, la sua essenza, la sua persona. E'

       limpido. E' la mia perfezione.

       - Hai letto Sherman Alexie, no? - mi chiede.

       - Sì.

       - E allora? Lui e la sua gente sono una contraddizione vivente. Non hanno un senso, a seconda del momento si attaccanno alle tradizioni, oppure cercano di diventare moderni, oppure si ubriacano e basta.

       Eppure questo caos è stabile. Questa confusione è il loro ambiente abituale.

       Mi guarda con un lievissimo sorriso, e con un tono quasi consolatorio dice: - Dovrai abituarti a questa confusione. Dovrai abituarti alla tua mancanza di abitudini.

       Lo ascolto e poi rimango in silenzio di fronte a questa affermazione che ha su di me l'impatto di un ferro infuocato. Mi marchia per sempre. Abituarmi alla confusione.

       - Comunque, è tempo per te di salire sulla torre -, conclude infine Ramon prima di passarmi la tazza di thè.

       Il giorno dopo io e Ramon saliamo sulla torre: è una cosa improvvisa, mio cugino che come un terremoto mi piomba improvviso in camera a 142

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       pomeriggio avanzato in camera e mi grida:

       - Dai, adesso saliamo sulla torre.

       Dunque mi infilo rapidamente un paio di scarpe e mi copro meglio che posso, fa freddino, oggi: usciamo dal palazzo, attraversiamo rapidi le poche arcate che ci separano da piazza Ravegnana, entriamo nel piccolo cupo portoncino e dopo ventimila gradini o una cosa del genere mi ritrovo sul tetto della torre, ansimante, esposto senza pietà al vento freddo di questa tarda mattinata di Febbraio.

       - Perchè mi hai portato qui? - chiedo a Ramon.

       - Non trovi che ci sia una vista splendida? - mi risponde sorridendo, e capisco dal suo sguardo cosa intende dire. Cose semplici. La felicità è fatta di cose semplici.

       La città era tutta là, sotto di me. La grande Bologna.

       Vedevo la grande piazza Maggiore là sorvegliata dalla mole di San Petronio; vedevo via Zamboni che s'infilava sinuosa tra i vecchi tetti e raggiungeva l'Università; il lungo gremito tappeto disteso di via Rizzoli pieno di capannelli di persone in attesa dell'autobus o in contemplazione dinanzi a qualche vetrina; tutto sotto quell'ultima luce calda di poco prima del tramonto, che avvolgeva tutto come fotografare con un filtro. Guardavo giù in strada le formichine studentesche che andavano e venivano dall'università, e le macchine che passavano, e i tetti dei palazzi e le mille torri intorno.

       E là, dalla cima della torre, con tutta la città ferma ai miei piedi, capii perfettamente il potere del movimento che prevale su quello dei monumenti; il potere dello spostamento che vince sul fascino metropolitano; la vittoria della fuga. Là sentii sulla pelle l'importanza dell'evoluzione, del cambiamento, capii finalmente il senso della mia epoca e della mia esistenza, dove le cose non sono fatte per durare ma per bruciare in fretta e liberare energia per affrontare altre pazze avventure sotto i cieli. Non c'era troppo tempo per la contemplazione: 143

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       c'era l'aria fredda di Febbraio, e la luce che sbiadiva con l'arrivo del tramonto; quella vista era solo una splendida lezione, un insegnamento indimenticabile a proposito della ricerca di nuovi orizzonti. Dovevo cambiare il mio modo di vedere, di sentire, di vivere, spostarmi e cercare un altro punto di vista, per vedere cose nuove.

       I tempi stavano cambiando nuovamente, in quella strana confusa corsa senza meta che era, ed è, la mia vita. Un esempio di forza immensa eppure insensata, avrebbe detto il vecchio Jack.

       Sera. Appartamento lievemente avvolto da Saturnino e il suo basso.

       Fumo di sigarette nell'aria. Silenzio quasi assoluto, se non fosse per il rumore dei nostri pensieri.

       - Ramon?

       - Sì?

       - Perchè non scrivi un libro delle tue memorie?

       - Lo farò, Ivan. Lo farò.

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       Non fu più la stessa cosa, lì a Bologna. Forse era solo troppa nostalgia, forse era il fatto che mi stanco in fretta anche delle cose più belle, fatto sta che non riuscivo più a viverla nella stessa maniera gioiosa e vitale.

       E per merito, o forse per colpa, dei vaghi indizi sulla mia natura accennati da Ramon, iniziò - a livello inconscio, ovviamente - un periodo di grandi interrogativi e autoanalisi, una ricerca che sprofondava sempre di più dentro me stesso allontanandomi da quella città, dalla sua vita, così che cominciai a sentirmi sempre più straniero ad ogni giorno in più che passavo là, anzichè il contrario.

       Mi sentivo improvvisamente ammezzato, in prestito; nel bel mezzo di uno di quei contrasti tipo fisico-spirituale, tra dove sei e dove vorresti essere; un altro di quei contrasti che sono al centro della mia vita, e mi rendono così inquieto e inarrestabile. Ero percorso da un incomprensibile confusione come se una diga si fosse rotta e l'acqua avesse sommerso tutto, cambiando improvvisamente tutto il paesaggio e costringendomi a scavare per trovare qualche frammento di verità; ma scavando dapprincipio non riuscivo a fare affiorare altro che una vena di triste, tristissima incertezza. I dubbi mi attraversavano come nuvole rapide e impetuose sull'oceano. Dove accidenti era il mio 145

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       posto?

       Mi colpì un giorno per caso una frase letta per caso non so dove: " Il mare più bello è quello mai navigato". Non potevo non trovarmi d'accordo: tutte le cose più belle sono destinate a consumarsi in fretta ma questo non mi rende triste, anzi, è proprio grazie a questo che esiste l'evoluzione, e l'evoluzione è il succo della vita. Ogni cosa che brucia ci dà energia per il futuro sotto forma di stimoli e di ricordi, e saremo sempre liberi e pieni di energia, mutevoli e continuamente perfetti. Teniamo tutto dentro di noi, ogni cosa che abbiamo vissuto è nei nostri atteggiamenti, nel nostro carattere. Le cose davvero importanti del nostro passato sono quelle che hanno un influenza decisiva sulla nostra vita senza nemmeno bisogno di essere ricordate.

       Sentivo riesplodere intanto dentro di me la voglia di fare e disfare con coraggio la mia vita, di essere l'unico autore di tutte le sue evoluzioni anzichè lasciami trascinare come avevo fatto a lungo nella mia vita prima di sentire l'impulso di libertà bruciarmi nel cuore. Volevo più che mai costruirmi una vita a misura, e di fronte a questo nulla mi faceva paura, nulla mi poteva ingabbiare, condizionare. Niente compromessi, mi dicevo. Questo è quello che sentivo: volevo essere l'unico e solo responsabile della mia vicenda esistenziale, in tutti i suoi minimi particolari. E volevo avere il coraggio di non escludere nessuna possibilità, e di mandare a farsi benedire anche l'orgoglio, se in gioco c'era la mia felicità.

       In poco tempo quella vena di triste incertezza si tramutò in decisa insoddisfazione. Tanto per rafforzare la mia convinzione, mi accorsi che non trovavo più altre persone che mi andassero davvero a genio in quella pur fantastica città, oltre a mio cugino Ramon e ai suoi - e miei, ormai - migliori amici; poche altre persone che avevo conosciuto io - e anche Enrico, sicuramente. Ma per il resto, nient'altro di eccezionale.

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       La maggior parte degli universitari che avevo incontrato si erano rivelati in qualche modo gaudenti spettatori della vita, aristocratici poco avvezzi a emozioni che non fossero di colori pastello e cosparse di zucchero a velo, mentre io mi sono sempre considerato una specie di romantico on the road, uno che si rotola nel fango delle umane passioni alla ricerca della verità, e per nulla interessato al benessere.

       Non trovavo più nessuno che avesse qualcosa da dirmi. Insomma, non c'era motivo di continuare... pensando alle adorabili care persone che mi aspettavano a Brescia.

       Rimasi un altro paio di settimane prima di decidere che non ne potevo più dalla voglia di tornare a casa, un altro paio di settimane di autobus pieni e strade affollate di un traffico confuso, che Bologna è asimmetrica e te ne accorgi già guardando un semplice city pass con due corse da un lato e sei dall'altro, e le strade che sono sempre divise in tre corsie; asimmetrica, già, città di artisti. Ma è la città che fa gli artisti o gli artisti che danno sapore ai luoghi? Questo mi chiedevo vagando sconclusionato nelle viuzze dietro Piazza Maggiore, nel freddo solitario e riflessivo di un vento del Nord. Insomma il viaggio non era ancora finito solo che ora non era più spostamento materiale ma un'invasione delicata del mio spirito, il mio spirito libero che come un amico timido non si svela e si chiude in se stesso se lo aggredisci e ci sta male e nemmeno te lo dice, e se vuoi sentirlo parlare devi semplicemente sederti nella stessa stanza senza dire nulla, ed essere pronto ad ascoltare quando senti la sua flebile voce che si alza appena dal silenzio.

       Non mi sentivo più a mio agio, e sicuramente più straniero; spendevo una fortuna di telefono con Anna e con mille altre persone, e facendo mille progetti per quando sarei tornato a casa, rendendomi conto che non sarebbe dovuto essere nelle mie intenzioni tornare a casa. Nel frattempo non riuscivo a trovare nient'altro che mi coinvolgesse 147

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       davvero tra le migliaia di cose interessanti, in quella magnifica città che non mi mostrò più nulla della sua vera anima, si chiuse in sè come se avesse percepito la mia sfiducia. Vagabondavo in cerca di conoscenze, motivi o semplici distrazioni, e senza trovarne.

       E capivo alla fine cos'è quella muta malinconia che prende chi è nel posto sbagliato, una sensazione che non è nemmeno tristezza ma quasi paura, paura di sentirci così spaesati, così lontani da noi stessi, e vederci depressi e non sapere nemmeno perchè. E' la muta malinconia degli animali in gabbia, una grande confusione con un pizzico di rabbia, con il cuore gonfio e lo sguardo perso all'orizzonte.

       Sentivo persino ostilità a tratti passeggiando sotto i portici e quella massa confusa di gente che tanto aveva amato al mio arrivo ora mi sembrava strana antipatica e invadente, sembrava piena di persone stanche, svogliate, sbagliate, illuse; leggevo su ogni volto una nuova e individuale delusione. Ero partito credendo di conquistare il mondo e ora una sola città bastava a vincermi. Camminavo isolandomi dal resto e trascurando le luci, i rumori, le parole; cercavo una possibilità di salvezza. Non la trovai. Doveva andarla a cercare altrove, ecco l'ultima verità scoperta lì. Dovevo andarla a cercare in mezzo alla tensione e al tumulto di una vita che già conoscevo e che - ora me ne accorgevo - non mi aveva ancora detto tutto quello che aveva da dirmi.

       Era un Venerdì sera quando partii finalmente. Era un Venerdì sera e dopo un pomeriggio rilassato e pigro scoprii la sensazione di essere come alla fine delle vacanze, sì, dentro di me era già tutto deciso.

       Allora preparai in fretta e in furia le borse; doveva esserci un treno credo verso le nove di sera ed ero ancora in tempo; che quando prendo una decisione ho una fretta maledetta di portarla a termine per paura di venire ingoiato dai ripensamenti, e ora correvo per riuscire a partire 148

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       come se partire il giorno dopo avesse significato perdere chissà che cosa, quando solo dieci minuti prima non avevo intenzione di andare da nessuna parte.

       Capitai davanti a Ramon con le borse e il giubbino addosso e gli dissi semplicemente: - Io torno a casa. Grazie di tutto.

       Lui mi guardò per qualche attimo e disse: - Oh, sì, certo... ma figurati, be'... cioè, torni a casa... proprio sul serio?

       - Già.

       - Ah. Be', divertiti, e torna a trovarmi, dai. - Così lo adorai, nessuna frase inutile perchè aveva visto le fiamme nei miei occhi e penso che avesse capito che non c'era da ragionare nè da chiedere motivi, sarei partito e basta, e lui disse semplicemente okay. Fantastico. Aveva fatto tanto per me, mi aveva ospitato e mantenuto per tutto quel tempo in cui ero stato troppo occupato a pensare alla mia vita per dedicarmi a cercare un lavoro - e alla fine era stato pressochè inutile, pensava probabilmente; ma no, il suo sguardo e il suo saluto sorridente dicevano che mi approvava e l'unico dispiacere che aveva era privarsi della mia compagnia; diceva che ero un personaggio davvero interessante oltre che un suo caro parente e mi avrebbe sicuramente messo in uno dei suoi libri.

       Piombai di corsa in stazione e acquistai un sacro dolcissimo biglietto giallognolo per Brescia ed ero scoppiettante di entusiasmo, già; ma non ero nervoso, era così che doveva andare e basta; sul treno lungo il paesaggio notturno già dopo pochi chilometri cominciai a sentirmi come se in fondo non stessi tornando che da una gita di un paio di giorni. Ero partito e il treno aveva cominciato a muoversi e nulla di me era rimasto lì, e stavo tornando a casa.

       Ah, com'è dolce tornare a casa, almeno quanto è emozionante partire!

       Vedo ripassare i luoghi dell'andata è c'è quella sensazione di un 149

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       cerchio che si chiude fuori e dentro di me, un altro cerchio che mi aiuterà a crescere e a sentirmi meglio, penso, comunque non è buttato via questo viaggio; ma sono pensieri di un attimo, subito dopo comincio a pensare a casa e a tutto quel che voglio fare e una strana elettricità mi prende, l'impazienza, la voglia di essere già là. Ho un feroce voglia di girare per le birrerie a basso prezzo di San Polo e del ring; ho voglia di scendere e camminare fino a casa passando sotto il maestoso Crystal Palace (ricordando sempre quella notte in cui salimmo fino in cima, alla piattaforma di atterraggio degli elicotteri, e avevamo Brescia completamente sotto di noi, più in alto non si poteva); ho voglia di vedere i nostri autobus radi e poco affollati, le nostre vie ordinate, i milioni di motorini e le poche motociclette; ho voglia di poter passeggiare per il centro il Sabato pomeriggio e riconoscere duemila persone; ho voglia di far la fila in quei pochi negozi decenti di musica e di libri che ci sono in giro, o nei cinema; ho voglia di andare in discoteche di massa dove ti diverti ballando fino a che la maglietta è fradicia di sudore; ho voglia di scappare al lago a fare il bagno nell'acqua torbida e gustarmi i saliscendi della Valtenesi; ho voglia di andare a giocare a calcio con mio fratello all'unico campo decente nel giro di un chilometro da casa mia e poi di uscire con lui Sabato sera e buttare soldi passando da un locale all'altro perchè non ce n'è uno che ci soddisfa; ho voglia di saltare sulla mia motocicletta e viaggiare per la nostra campagna dormiente e maleodorante; ho voglia di partire presto per andare a un concerto importante a Verona o a Milano, che è più bello se ci aggiungi anche il viaggio; ho voglia di quelle domeniche pomeriggio confuse e intense fatte di duemila persone e quattromila squallidi posti dove andare, tra una partita di pallavolo e un giro in motocicletta, fiammanti di un sole infuocato prima del tramonto e splendenti argentee di luna piena poi; ho voglia di sentire quel nostro accento pesante ma tutto sommato ingenuo, e 150



  

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