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L'alba meridionale



 

II

 

Torno, ritrovo il fenomeno della fuga

del capitale, l'epifenomeno (infimo)

dell'avanguardia. La polizia tributaria

(quasi accertamento filosofico

sugli incartamenti di un poeta)

fruga in quel fatto privato che sono i soldi,

contaminati da carità, dolenti

di inspiegabili consunzioni, e pieni

di senso di colpa, come il corpo da ragazzi:

però con mia gongolante leggerezza perché qua,

non c'è da accertare nulla, se non la mia ingenuità.

Torno, e trovo milioni di uomini occupati

soltanto a vivere come barbari discesi

da poco su una terra felice, estranei

ad essa, e suoi possessori. Così nella vigilia

della Preistoria che a tutto ciò darà senso,

riprendo a Roma le mie abitudini

di bestia ferita, che guarda negli occhi,

godendo del morire, i suoi feritori…

 

Le ceneri di Gramsci
  I Non è di maggio questa impura aria che il buio giardino straniero fa ancora più buio, o l'abbaglia   con cieche schiarite... questo cielo di bave sopra gli attici giallini che in semicerchi immensi fanno velo   alle curve del Tevere, ai turchini monti del Lazio... Spande una mortale pace, disamorata come i nostri destini,   tra le vecchie muraglie l'autunnale maggio. In esso c'è il grigiore del mondo, la fine del decennio in cui ci appare   tra le macerie finito il profondo e ingenuo sforzo di rifare la vita; il silenzio, fradicio e infecondo...   Tu giovane, in quel maggio in cui l'errore era ancora vita, in quel maggio italiano che alla vita aggiungeva almeno ardore,   quanto meno sventato e impuramente sano dei nostri padri - non padre, ma umile fratello - già con la tua magra mano   delineavi l'ideale che illumina   (ma non per noi: tu morto, e noi morti ugualmente, con te, nell'umido   giardino) questo silenzio. Non puoi, lo vedi?, che riposare in questo sito estraneo, ancora confinato. Noia   patrizia ti è intorno. E, sbiadito, solo ti giunge qualche colpo d'incudine dalle officine di Testaccio, sopito   nel vespro: tra misere tettoie, nudi mucchi di latta, ferrivecchi, dove cantando vizioso un garzone già chiude   la sua giornata, mentre intorno spiove.
  II Tra i due mondi, la tregua, in cui non siamo. Scelte, dedizioni... altro suono non hanno ormai che questo del giardino gramo   e nobile, in cui caparbio l'inganno che attutiva la vita resta nella morte. Nei cerchi dei sarcofaghi non fanno   che mostrare la superstite sorte di gente laica le laiche iscrizioni in queste grigie pietre, corte   e imponenti. Ancora di passioni sfrenate senza scandalo son arse le ossa dei miliardari di nazioni   più grandi; ronzano, quasi mai scomparse, le ironie dei principi, dei pederasti, i cui corpi sono nell'urne sparse   inceneriti e non ancora casti. Qui il silenzio della morte è fede di un civile silenzio di uomini rimasti   uomini, di un tedio che nel tedio del Parco, discreto muta: e la città che, indifferente, lo confina in mezzo   a tuguri e a chiese, empia nella pietà, vi perde il suo splendore. La sua terra grassa di ortiche e di legumi dà   questi magri cipressi, questa nera umidità che chiazza i muri intorno a smotti ghirigori di bosso, che la sera   rasserenando spegne in disadorni sentori d'alga... quest'erbetta stenta e inodora, dove violetta si sprofonda   l'atmosfera, con un brivido di menta, o fieno marcio, e quieta vi prelude con diurna malinconia, la spenta   trepidazione della notte. Rude di clima, dolcissimo di storia, è tra questi muri il suolo in cui trasuda   altro suolo; questo umido che ricorda altro umido; e risuonano - familiari da latitudini e   orizzonti dove inglesi selve coronano laghi spersi nel cielo, tra praterie verdi come fosforici biliardi o come   smeraldi: " And O ye Fountains... " - le pie invocazioni...
  III Uno straccetto rosso, come quello arrotolato al collo ai partigiani e, presso l'urna, sul terreno cereo,   diversamente rossi, due gerani. Lì tu stai, bandito e con dura eleganza non cattolica, elencato tra estranei   morti: Le ceneri di Gramsci... Tra speranza e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato per caso in questa magra serra, innanzi   alla tua tomba, al tuo spirito restato quaggiù tra questi liberi. (O è qualcosa di diverso, forse, di più estasiato   e anche di più umile, ebbra simbiosi d'adolescente di sesso con morte... ) E, da questo paese in cui non ebbe posa   la tua tensione, sento quale torto - qui nella quiete delle tombe - e insieme quale ragione - nell'inquieta sorte   nostra - tu avessi stilando le supreme pagine nei giorni del tuo assassinio. Ecco qui ad attestare il seme   non ancora disperso dell'antico dominio, questi morti attaccati a un possesso che affonda nei secoli il suo abominio   e la sua grandezza: e insieme, ossesso, quel vibrare d'incudini, in sordina, soffocato e accorante - dal dimesso   rione - ad attestarne la fine. Ed ecco qui me stesso... povero, vestito dei panni che i poveri adocchiano in vetrine   dal rozzo splendore, e che ha smarrito la sporcizia delle più sperdute strade, delle panche dei tram, da cui stranito   è il mio giorno: mentre sempre più rade ho di queste vacanze, nel tormento del mantenermi in vita; e se mi accade   di amare il mondo non è che per violento e ingenuo amore sensuale così come, confuso adolescente, un tempo   l'odiai, se in esso mi feriva il male borghese di me borghese: e ora, scisso - con te - il mondo, oggetto non appare   di rancore e quasi di mistico disprezzo, la parte che ne ha il potere? Eppure senza il tuo rigore, sussisto   perché non scelgo. Vivo nel non volere del tramontato dopoguerra: amando il mondo che odio - nella sua miseria   sprezzante e perso - per un oscuro scandalo della coscienza...
  IV Lo scandalo del contraddirmi, dell'essere con te e contro te; con te nel core, in luce, contro te nelle buie viscere;   del mio paterno stato traditore - nel pensiero, in un'ombra di azione - mi so ad esso attaccato nel calore   degli istinti, dell'estetica passione; attratto da una vita proletaria a te anteriore, è per me religione   la sua allegria, non la millenaria sua lotta: la sua natura, non la sua coscienza: è la forza originaria   dell'uomo, che nell'atto s'è perduta, a darle l'ebbrezza della nostalgia, una luce poetica: ed altro più   io non so dirne, che non sia giusto ma non sincero, astratto amore, non accorante simpatia...   Come i poveri povero, mi attacco come loro a umilianti speranze, come loro per vivere mi batto   ogni giorno. Ma nella desolante mia condizione di diseredato, io possiedo: ed è il più esaltante   dei possessi borghesi, lo stato più assoluto. Ma come io possiedo la storia, essa mi possiede; ne sono illuminato:   ma a che serve la luce?
  V Non dico l'individuo, il fenomeno dell'ardore sensuale e sentimentale... altri vizi esso ha, altro è il nome   e la fatalità del suo peccare... Ma in esso impastati quali comuni, prenatali vizi, e quale   oggettivo peccato! Non sono immuni gli interni e esterni atti, che lo fanno incarnato alla vita, da nessuna   delle religioni che nella vita stanno, ipoteca di morte, istituite a ingannare la luce, a dar luce all'inganno. Destinate a esser seppellite le sue spoglie al Verano, è cattolica la sua lotta con esse: gesuitiche   le manie con cui dispone il cuore; e ancor più dentro: ha bibliche astuzie la sua coscienza... e ironico ardore   liberale... e rozza luce, tra i disgusti di dandy provinciale, di provinciale salute... Fino alle infime minuzie   in cui sfumano, nel fondo animale, Autorità e Anarchia... Ben protetto dall'impura virtù e dall'ebbro peccare,   difendendo una ingenuità di ossesso, e con quale coscienza!, vive l'io: io, vivo, eludendo la vita, con nel petto   il senso di una vita che sia oblio accorante, violento... Ah come capisco, muto nel fradicio brusio   del vento, qui dov'è muta Roma, tra i cipressi stancamente sconvolti, presso te, l'anima il cui graffito suona   Shelley... Come capisco il vortice dei sentimenti, il capriccio (greco nel cuore del patrizio, nordico   villeggiante) che lo inghiottì nel cieco celeste del Tirreno; la carnale gioia dell'avventura, estetica   e puerile: mentre prostrata l'Italia come dentro il ventre di un'enorme cicala, spalanca bianchi litorali,   sparsi nel Lazio di velate torme di pini, barocchi, di giallognole radure di ruchetta, dove dorme   col membro gonfio tra gli stracci un sogno goethiano, il giovincello ciociaro... Nella Maremma, scuri, di stupende fogne   d'erbasaetta in cui si stampa chiaro il nocciolo, pei viottoli che il buttero della sua gioventù ricolma ignaro.   Ciecamente fragranti nelle asciutte curve della Versilia, che sul mare aggrovigliato, cieco, i tersi stucchi,   le tarsie lievi della sua pasquale campagna interamente umana, espone, incupita sul Cinquale,   dipanata sotto le torride Apuane, i blu vitrei sul rosa... Di scogli, frane, sconvolti, come per un panico   di fragranza, nella Riviera, molle, erta, dove il sole lotta con la brezza a dar suprema soavità agli olii   del mare... E intorno ronza di lietezza lo sterminato strumento a percussione del sesso e della luce: così avvezza   ne è l'Italia che non ne trema, come morta nella sua vita: gridano caldi da centinaia di porti il nome   del compagno i giovinetti madidi nel bruno della faccia, tra la gente rivierasca, presso orti di cardi,   in luride spiaggette...   Mi chiederai tu, morto disadorno, d'abbandonare questa disperata passione di essere nel mondo?
  VI   Me ne vado, ti lascio nella sera che, benché triste, così dolce scende per noi viventi, con la luce cerea   che al quartiere in penombra si rapprende. E lo sommuove. Lo fa più grande, vuoto, intorno, e, più lontano, lo riaccende   di una vita smaniosa che del roco rotolio dei tram, dei gridi umani, dialettali, fa un concerto fioco   e assoluto. E senti come in quei lontani esseri che, in vita, gridano, ridono, in quei loro veicoli, in quei grami   caseggiati dove si consuma l'infido ed espansivo dono dell'esistenza - quella vita non è che un brivido;   corporea, collettiva presenza; senti il mancare di ogni religione vera; non vita, ma sopravvivenza   - forse più lieta della vita - come d'un popolo di animali, nel cui arcano orgasmo non ci sia altra passione   che per l'operare quotidiano: umile fervore cui dà un senso di festa l'umile corruzione. Quanto più è vano   - in questo vuoto della storia, in questa ronzante pausa in cui la vita tace - ogni ideale, meglio è manifesta   la stupenda, adusta sensualità quasi alessandrina, che tutto minia e impuramente accende, quando qua   nel mondo, qualcosa crolla, e si trascina il mondo, nella penombra, rientrando in vuote piazze, in scorate officine...   Già si accendono i lumi, costellando Via Zabaglia, Via Franklin, l'intero Testaccio, disadorno tra il suo grande   lurido monte, i lungoteveri, il nero fondale, oltre il fiume, che Monteverde ammassa o sfuma invisibile sul cielo.   Diademi di lumi che si perdono, smaglianti, e freddi di tristezza quasi marina... Manca poco alla cena;   brillano i rari autobus del quartiere, con grappoli d'operai agli sportelli, e gruppi di militari vanno, senza fretta,   verso il monte che cela in mezzo a sterri fradici e mucchi secchi d'immondizia nell'ombra, rintanate zoccolette   che aspettano irose sopra la sporcizia afrodisiaca: e, non lontano, tra casette abusive ai margini del monte, o in mezzo   a palazzi, quasi a mondi, dei ragazzi leggeri come stracci giocano alla brezza non più fredda, primaverile; ardenti   di sventatezza giovanile la romanesca loro sera di maggio scuri adolescenti fischiano pei marciapiedi, nella festa   vespertina; e scrosciano le saracinesche dei garages di schianto, gioiosamente, se il buio ha resa serena la sera,   e in mezzo ai platani di Piazza Testaccio il vento che cade in tremiti di bufera, è ben dolce, benché radendo i capellacci   e i tufi del Macello, vi si imbeva di sangue marcio, e per ogni dove agiti rifiuti e odore di miseria.   È un brusio la vita, e questi persi in essa, la perdono serenamente, se il cuore ne hanno pieno: a godersi   eccoli, miseri, la sera: e potente in essi, inermi, per essi, il mito rinasce... Ma io, con il cuore cosciente   di chi soltanto nella storia ha vita, potrò mai più con pura passione operare, se so che la nostra storia è finita?    
Il pianto della scavatrice
  I   Solo l'amare, solo il conoscere conta, non l'aver amato, non l'aver conosciuto. Dà angoscia   il vivere di un consumato amore. L'anima non cresce più. Ecco nel calore incantato   della notte che piena quaggiù tra le curve del fiume e le sopite visioni della città sparsa di luci,   scheggia ancora di mille vite, disamore, mistero, e miseria dei sensi, mi rendono nemiche le forme del mondo, che fino a ieri erano la mia ragione d'esistere. Annoiato, stanco, rincaso, per neri   piazzali di mercati, tristi strade intorno al porto fluviale, tra le baracche e i magazzini misti   agli ultimi prati. Lì mortale è il silenzio: ma giù, a viale Marconi, alla stazione di Trastevere, appare   ancora dolce la sera. Ai loro rioni, alle loro borgate, tornano su motori leggeri - in tuta o coi calzoni   di lavoro, ma spinti da un festivo ardore i giovani, coi compagni sui sellini, ridenti, sporchi. Gli ultimi avventori   chiacchierano in piedi con voci alte nella notte, qua e là, ai tavolini dei locali ancora lucenti e semivuoti.   Stupenda e misera città, che m'hai insegnato ciò che allegri e feroci gli uomini imparano bambini,   le piccole cose in cui la grandezza della vita in pace si scopre, come andare duri e pronti nella ressa   delle strade, rivolgersi a un altro uomo senza tremare, non vergognarsi di guardare il denaro contato   con pigre dita dal fattorino che suda contro le facciate in corsa in un colore eterno d'estate;   a difendermi, a offendere, ad avere il mondo davanti agli occhi e non soltanto in cuore, a capire   che pochi conoscono le passioni in cui io sono vissuto: che non mi sono fraterni, eppure sono   fratelli proprio nell'avere passioni di uomini che allegri, inconsci, interi   vivono di esperienze ignote a me. Stupenda e misera città che mi hai fatto fare   esperienza di quella vita ignota: fino a farmi scoprire ciò che, in ognun, era il mondo.   Una luna morente nel silenzio, che di lei vive, sbianca tra violenti ardori, che miseramente sulla terra   muta di vita, coi bei viali, le vecchie viuzze, senza dar luce abbagliano e, in tutto il mondo, le riflette   lassù, un po' di calda nuvolaglia. È la notte più bella dell'estate. Trastevere, in un odore di paglia   di vecchie stalle, di svuotate osterie, non dorme ancora. Gli angoli bui, le pareti placide   risuonano d'incantati rumori. Uomini e ragazzi se ne tornano a casa - sotto festoni di luci ormai sole -   verso i loro vicoli, che intasano buio e immondizia, con quel passo blando da cui più l'anima era invasa   quando veramente amavo, quando veramente volevo capire. E, come allora, scompaiono cantando.
  II   Povero come un gatto del Colosseo, vivevo in una borgata tutta calce e polverone, lontano dalla città   e dalla campagna, stretto ogni giorno in un autobus rantolante: e ogni andata, ogni ritorno   era un calvario di sudore e di ansie. Lunghe camminate in una calda caligine, lunghi crepuscoli davanti alle carte   ammucchiate sul tavolo, tra strade di fango, muriccioli, casette bagnate di calce e senza infissi, con tende per porte...   Passano l'olivaio, lo straccivendolo, venendo da qualche altra borgata, con l'impolverata merce che pareva   frutto di furto, e una faccia crudele di giovani invecchiati tra i vizi di chi ha una madre dura e affamata.   Rinnovato dal mondo nuovo, libero - una vampa, un fiato che non so dire, alla realtà   che umile e sporca, confusa e immensa, brulicava nella meridionale periferia, dava un senso di serena pietà.   Un'anima in me, che non era solo mia, una piccola anima in quel mondo sconfinato, cresceva, nutrita dall'allegria   di chi amava, anche se non riamato. E tutto si illuminava, a questo amore. Forse ancora di ragazzo, eroicamente,   e però maturato dall'esperienza che nasceva ai piedi della storia. Ero al centro del mondo, in quel mondo   di borgate tristi, beduine, di gialle praterie sfregate da un vento sempre senza pace,   venisse dal caldo mare di Fiumicino, o dall'agro, dove si perdeva la città fra i tuguri; in quel mondo   che poteva soltanto dominare, quadrato spettro giallognolo nella giallognola foschia,   bucato da mille file uguali di finestre sbarrate, il Penitenziario tra vecchi campi e sopiti casali.   Le cartacce e la polvere che cieco il venticello trascinava qua e là, le povere voci senza eco   di donnette venute dai monti Sabini, dall'Adriatico, e qua accampate, ormai con torme   di deperiti e duri ragazzini stridenti nelle canottiere a pezzi, nei grigi, bruciati calzoncini,   i soli africani, le piogge agitate che rendevano torrenti di fango le strade, gli autobus ai capolinea   affondati nel loro angolo tra un'ultima striscia d'erba bianca e qualche acido, ardente immondezzaio...   era il centro del mondo, com'era al centro della storia il mio amore per esso: e in questa   maturità che per essere nascente era ancora amore, tutto era per divenire chiaro - era,   chiaro! Quel borgo nudo al vento, non romano, non meridionale, non operaio, era la vita   nella sua luce più attuale: vita, e luce della vita, piena nel caos non ancora proletario,   come la vuole il rozzo giornale della cellula, l'ultimo sventolio del rotocalco: osso   dell'esistenza quotidiana, pura, per essere fin troppo prossima, assoluta per essere   fin troppo miseramente umana.
    III   E ora rincaso, ricco di quegli anni così nuovi che non avrei mai pensato di saperli vecchi in un'anima   a essi lontana, come a ogni passato. Salgo i viali del Gianicolo, fermo da un bivio liberty, a un largo alberato,   a un troncone di mura - ormai al termine della città sull'ondulata pianura che si apre sul mare. E mi rigermina   nell'anima - inerte e scura come la notte abbandonata al profumo una semenza ormai troppo matura   per dare ancora frutto, nel cumulo di una vita tornata stanca e acerba... Ecco Villa Pamphili, e nel lume   che tranquillo riverbera sui nuovi muri, la via dove abito. Presso la mia casa, su un'erba   ridotta a un'oscura bava, una traccia sulle voragini scavate di fresco, nel tufo - caduta ogni rabbia   di distruzione - rampa contro radi palazzi e pezzi di cielo, inanimata, una scavatrice...   Che pena m'invade, davanti a questi attrezzi supini, sparsi qua e là nel fango, davanti a questo canovaccio rosso   che pende a un cavalletto, nell'angolo dove la notte sembra più triste? Perché, a questa spenta tinta di sangue,   la mia coscienza così ciecamente resiste, si nasconde, quasi per un ossesso rimorso che tutta, nel fondo, la contrista?   Perché dentro in me è lo stesso senso di giornate per sempre inadempite che è nel morto firmamento   in cui sbianca questa scavatrice?   Mi spoglio in una delle mille stanze dove a via Fonteiana si dorme. Su tutto puoi scavare, tempo: speranze   passioni. Ma non su queste forme pure della vita... Si riduce ad esse l'uomo, quando colme   siano esperienza e fiducia nel mondo... Ah, giorni di Rebibbia, che io credevo persi in una luce   di necessità, e che ora so così liberi!   Insieme al cuore, allora, pei difficili casi che ne avevano sperduto il corso verso un destino umano,   guadagnando in ardore la chiarezza negata, e in ingenuità il negato equilibrio - alla chiarezza   all'equilibrio giungeva anche, in quei giorni, la mente. E il cieco rimpianto, segno di ogni mia   lotta col mondo, respingevano, ecco, adulte benché inesperte ideologie... Si faceva, il mondo, soggetto   non più di mistero ma di storia. Si moltiplicava per mille la gioia del conoscerlo - come   ogni uomo, umilmente, conosce. Marx o Gobetti, Gramsci o Croce, furono vivi nelle vive esperienze.   Mutò la materia di un decennio d'oscura vocazione, se mi spesi a far chiaro ciò che più pareva essere ideale figura   a una ideale generazione; in ogni pagina, in ogni riga che scrivevo, nell'esilio di Rebibbia,   c'era quel fervore, quella presunzione, quella gratitudine. Nuovo nella mia nuova condizione   di vecchio lavoro e di vecchia miseria, i pochi amici che venivano da me, nelle mattine o nelle sere   dimenticate sul Penitenziario, mi videro dentro una luce viva: mite, violento rivoluzionario   nel cuore e nella lingua. Un uomo fioriva
  IV   Mi stringe contro il suo vecchio vello, che profuma di bosco, e mi posa il muso con le sue zanne di verro   o errante orso dal fiato di rosa, sulla bocca: e intorno a me la stanza è una radura, la coltre corrosa   dagli ultimi sudori giovanili, danza come un velame di pollini... E infatti cammino per una strada che avanza   tra i primi prati primaverili, sfatti in una luce di paradiso... Trasportato dall'onda dei passi,   questa che lascio alle spalle, lieve e misero, non è la periferia di Roma: " Viva Mexico! " è scritto a calce o inciso   sui ruderi dei templi, sui muretti ai bivii, decrepiti, leggeri come osso, ai confini di un bruciante cielo senza un brivido.   Ecco, in cima a una collina fra le ondulazioni, miste alle nubi, di una vecchia catena appenninica,   la città, mezza vuota, benché sia l'ora della mattina, quando vanno le donne alla spesa - o del vespro che indora   i bambini che corrono con le mamme fuori dai cortili della scuola. Da un gran silenzio le strade sono invase:   si perdono i selciati un po' sconnessi, vecchi come il tempo, grigi come il tempo, e due lunghi listoni di pietra   corrono lungo le strade, lucidi e spenti. Qualcuno, in quel silenzio, si muove: qualche vecchia, qualche ragazzetto   perduto nei suoi giuochi, dove i portali di un dolce Cinquecento s'aprano sereni, o un pozzetto   con bestioline intarsiate sui bordi posi sopra la povera erba, in qualche bivio o canto dimenticato.   Si apre sulla cima del colle l'erma piazza del comune, e fra casa e casa, oltre un muretto, e il verde   d'un grande castagno, si vede lo spazio della valle: ma non la valle. Uno spazio che tremola celeste   o appena cereo... Ma il Corso continua, oltre quella familiare piazzetta sospesa nel cielo appenninico:   s'interna fra case più strette, scende un po' a mezza costa: e più in basso - quando le barocche casette diradano   ecco apparire la valle - e il deserto. Ancora solo qualche passo verso la svolta, dove la strada   è già tra nudi praticelli erti e ricciuti. A manca, contro il pendio, quasi fosse crollata la chiesa,   si alza gremita di affreschi, azzurri, rossi, un'abside, pesta di volute lungo le cancellate cicatrici   del crollo - da cui soltanto essa, l'immensa conchiglia, sia rimasta a spalancarsi contro il cielo.   È lì, da oltre la valle, dal deserto, che prende a soffiare un'aria, lieve, disperata, che incendia la pelle di dolcezza...   È come quegli odori che, dai campi bagnati di fresco, o dalle rive di un fiume, soffiano sulla città nei primi   giorni di bel tempo: e tu non li riconosci, ma impazzito quasi di rimpianto, cerchi di capire   se siano di un fuoco acceso sulla brina, oppure di uve o nespole perdute in qualche granaio intiepidito   dal sole della stupenda mattina. Io grido di gioia, così ferito in fondo ai polmoni da quell'aria   che come un tepore o una luce respiro guardando la vallata
  V   Un po' di pace basta a rivelare dentro il cuore l'angoscia, limpida, come il fondo del mare   in un giorno di sole. Ne riconosci, senza provarlo, il male lì, nel tuo letto, petto, cosce   e piedi abbandonati, quale un crocifisso - o quale Noè ubriaco, che sogna, ingenuamente ignaro   dell'allegria dei figli, che su lui, i forti, i puri, si divertono... il giorno è ormai su di te,   nella stanza come un leone dormente.   Per quali strade il cuore si trova pieno, perfetto anche in questa mescolanza di beatitudine e dolore?   Un po' di pace... E in te ridesta è la guerra, è Dio. Si distendono appena le passioni, si chiude la fresca   ferita appena, che già tu spendi l'anima, che pareva tutta spesa, in azioni di sogno che non rendono   niente... Ecco, se acceso alla speranza - che, vecchio leone puzzolente di vodka, dall'offesa   sua Russia giura Krusciov al mondo - ecco che tu ti accorgi che sogni. Sembra bruciare nel felice agosto   di pace, ogni tua passione, ogni tuo interiore tormento, ogni tua ingenua vergogna   di non essere - nel sentimento - al punto in cui il mondo si rinnova. Anzi, quel nuovo soffio di vento   ti ricaccia indietro, dove ogni vento cade: e lì, tumore che si ricrea, ritrovi   il vecchio crogiolo d'amore, il senso, lo spavento, la gioia. E proprio in quel sopore   è la luce... in quella incoscienza d'infante, d'animale o ingenuo libertino è la purezza... i più eroici   furori in quella fuga, il più divino sentimento in quel basso atto umano consumato nel sonno mattutino.
  VI   Nella vampa abbandonata del sole mattutino - che riarde, ormai, radendo i cantieri, sugli infissi   riscaldati - disperate vibrazioni raschiano il silenzio che perdutamente sa di vecchio latte,   di piazzette vuote, d'innocenza. Già almeno dalle sette, quel vibrare cresce col sole. Povera presenza   d'una dozzina d'anziani operai, con gli stracci e le canottiere arsi dal sudore, le cui voci rare,   le cui lotte contro gli sparsi blocchi di fango, le colate di terra, sembrano in quel tremito disfarsi.   Ma tra gli scoppi testardi della benna, che cieca sembra, cieca sgretola, cieca afferra,   quasi non avesse meta, un urlo improvviso, umano, nasce, e a tratti si ripete,   così pazzo di dolore, che, umano, subito non sembra più, e ridiventa morto stridore. Poi, piano,   rinasce, nella luce violenta, tra i palazzi accecati, nuovo, uguale, urlo che solo chi è morente,   nell'ultimo istante, può gettare in questo sole che crudele ancora splende già addolcito da un po' d'aria di mare...   A gridare è, straziata da mesi e anni di mattutini sudori - accompagnata   dal muto stuolo dei suoi scalpellini, la vecchia scavatrice: ma, insieme, il fresco sterro sconvolto, o, nel breve confine   dell'orizzonte novecentesco, tutto il quartiere... È la città, sprofondata in un chiarore di festa,   - è il mondo. Piange ciò che ha fine e ricomincia. Ciò che era area erbosa, aperto spiazzo, e si fa   cortile, bianco come cera, chiuso in un decoro ch'è rancore; ciò che era quasi una vecchia fiera   di freschi intonachi sghembi al sole, e si fa nuovo isolato, brulicante in un ordine ch'è spento dolore.   Piange ciò che muta, anche per farsi migliore. La luce del futuro non cessa un solo istante   di ferirci: è qui, che brucia in ogni nostro atto quotidiano, angoscia anche nella fiducia   che ci dà vita, nell'impeto gobettiano verso questi operai, che muti innalzano, nel rione dell'altro fronte umano,   il loro rosso straccio di speranza.  

 

 

 

 



  

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