Pier Paolo Pasolini. Poesie. Adulto? Mai – mai, come l’esistenza. io non posso che restare fedele. alla stupenda monotonia del mistero.. non mi sono abbandonato – ecco. perché nell’ansia delle mie colpe. non ho mai toccato un rimorso vero.. all’ori
Pier Paolo Pasolini
Poesie
Adulto? Mai – mai, come l’esistenza
che non matura – resta sempre acerba,
di splendido giorno in splendido giorno –
io non posso che restare fedele
alla stupenda monotonia del mistero.
Ecco perché, nella felicità,
non mi sono abbandonato – ecco
perché nell’ansia delle mie colpe
non ho mai toccato un rimorso vero.
Pari, sempre pari con l’inespresso,
all’origine di quello che io sono.
1950
Supplica a mia madre
È difficile dire con parole di figlio ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore, ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.
Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere: è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
Sei insostituibile. Per questo è dannata alla solitudine la vita che mi hai data.
E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame d’amore, dell’amore di corpi senza anima.
Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
ho passato l’infanzia schiavo di questo senso alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
Era l’unico modo per sentire la vita, l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.
Sopravviviamo: ed è la confusione di una vita rinata fuori dalla ragione.
Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire. Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…
Poesia in forma di rosa
La Guinea
Alle volte è dentro di noi qualcosa (che tu sai bene, perché è la poesia) qualcosa di buio in cui si fa luminosa
la vita: un pianto interno, una nostalgia gonfia di asciutte, pure lacrime. Camminando per questa poverissima via
di Casarola, destinata al buio, agli acri crepuscoli dei cristiani inverni, ecco farsi, in quel pianto, sacri
i più comuni, i più inutili, i più inermi aspetti della vita: quattro case di pietra di montagna, con gli interni
neri di sterile miseria – una frase sola sospesa nella triste aria, secco odore di stalla, sulla base
del gelo mai estinto – e, onoraria, timida, l’estate: l’estate, con i corpi sublimi dei castagni, qui fitti, là rari,
disposti sulle chine – come storpi o giganti – dalla sola Bellezza. Ah bosco, deterso dentro, sotto i forti
profili del fogliame, che si spezzano, riprendono il motivo d’una pittura rustica ma raffinata – il Garutti? il Collezza?
Non Correggio, forse: ma di certo il gusto del dolce e grande manierismo che tocca col suo capriccio dolcemente robusto
le radici della vita vivente: ed è realismo… Sotto i caldi castagni, poi, nel vuoto che vi si scava in mezzo, come un crisma,
odora una pioggia cotta al sole, poco: un ricordo della disorientata infanzia. E, lì in fondo, il muricciolo remoto
del cimitero. So che per te speranza è non volerne, speranza: avere solo questa cuccia per le mille sere che avanzano
allontanando quella sera, che a loro, per fortuna, così dolcemente somiglia. Una cuccia nel tuo Appennino d’oro.
La Guinea… polvere pugliese o poltiglia padana, riconoscibile a una fantasia così attaccata alla terra, alla famiglia,
com’è la tua, e com’è anche la mia: li ho visti, nel Kenia, quei colori senza mezza tinta, senza ironia,
viola, verdi, verdazzurri, azzurri, ori, ma non profusi, anzi, scarsi, avari, accesi qua e là, tra vuoti e odori
inesplicabili, sopra polveri d’alveari roventi… Il viola è una piccola sottana, il verde è una striscia sui dorsali
neri d’una vecchia, il verdazzurro una strana forma di frutto, sopra una cassetta, l’azzurro, qualche foglia di savana
intrecciata, l’oro una maglietta di un ragazzo nero dal grembo potente. Altro colpo di pollice ha la Bellezza;
modella altri zigomi, si risente in altre fronti, disegna altre nuche. Ma la Bellezza è Bellezza, e non mente:
qui è rinata tra anime ricciute e camuse, tra pelli dolci come seta, e membra stupendamente cresciute.
Il mare è fermo e colorato come creta; con case bianche, e palme: «tinte forti da tavolozza cubista», come dice un poeta
africano. E la notte! Sensi distorti da ogni nostro dolce costume, occorrono, per cogliere i folli decorsi
che accadono, come pestilenze, a queste lune. Perduti dietro metropoli di capanne in uno spiazzo tra palme nere come piume,
alberi di garofano, di cannella – e canne uguali alle nostrane, quelle sparse intorno a ogni umano abitato – come tre zanne,
tre strumenti suonati quasi dal fuoco di un forno inestinguibile, da gote nere sotto le falde dei cappelli flosci presenti a ogni sbornia –
urlavano sempre le stesse note di leopardi feriti, una melodia che non so dire: araba? o americana? o arcaici e bastardi
resti di una musica, il cui lento morire è il veloce morire dell’Africa? Questo terzetto era al centro, scurrile
e religioso: neri-fetenti come capri i tre suonatori, schiena contro schiena, stretti, perché, intorno, in due sacri
cerchi di pochi metri, rigirava una piena di migliaia di corpi. Nel cerchio interno erano donne, a girare, addossate, appena
sussultanti nella loro danza. All’esterno i maschi, tutti giovani, coi calzoni di tela leggera, che, intorno a quel perno
di trombe, stranamente calmi, buoni, giravano scuotendo appena spalle e anche: ma ogni tanto, con fame di leoni,
le gambe larghe, il grembo in avanti, si agitavano come in un atto di coito con gli occhi al cielo. Al fianco
le donne, vesti celesti sopra i neri cuoi delle pelli sudate, gli occhi bassi, giravano covando millenaria gioia..,
Ah, non potrò più resistere ai ricatti dell’operazione che non ha uguale, credo, a fare dei miei pensieri, dei miei atti,
altro da ciò che sono: a trasformare alle radici la mia povera persona: è, caro Attilio, il patto industriale.
Nulla gli può resistere: non vedi come suona debole la difesa degli amici laici o comunisti contro la più vile cronaca?
L’intelligenza non avrà mai peso, mai, nel giudizio di questa pubblica opinione. Neppure sul sangue dei lager, tu otterrai
da una dei milioni d’anime della nostra nazione, un giudizio netto, interamente indignato: irreale è ogni idea, irreale ogni passione,
di questo popolo ormai dissociato da secoli, la cui soave saggezza gli serve a vivere, non l’ha mai liberato.
Mostrare la mia faccia, la mia magrezza – alzare la mia sola, puerile voce – non ha più senso: la viltà avvezza
a vedere morire nel modo più atroce gli altri, con la più strana indifferenza. Io muoio, ed anche questo mi nuoce.
Nulla è insignificante alla potenza industriale! La debolezza dell’agnello viene calcolata ormai più senza
fatica nei suoi pretesti da un cervello che distrugge ciò che deve distruggere: nulla da fare, mio incerto fratello…
Mi si richiede un coraggio che sfugge del tutto al reale, appartiene ad altra storia; mi si vuole spelacchiato leone che rugge
contro i servi o contro le astrazioni della potenza sfruttatrice: ah, ma non sono sport le mie passioni,
la mia ingenua rabbia non è competitrice. Non c’è proporzione tra una nuova massa predestinata e un vecchio io che dice
le sue ragioni a rischio della sua carcassa. Non è il dovere che mi trattiene a cercare un mondo che fu nostro nella classica
forza dell’elegia! nell’allusione a un fatale essere uomini in proporzioni umane! La Grecia, Roma, i piccoli centri immortali…
Un’ansia romantica che pareva esanime sopravvivenza, mostruosamente s’ingrandisce, occupa continenti, isole immani…
annette Dei di milioni di guadi, percepisce l’odore dell’umidità dei quaranta gradi sopra zero immobili nelle coste, Mogadiscio
e le buganvillee di Nairobi, gli odori bradi delle bestiacce scomposte in un selvatico galoppo, per gli sventrati, i radi
orizzonti pervasi d’un funebre stallatico; la quantità, l’immensità che pesa inutilmente nel mondo, i cui prati bruciati
o marci d’acqua, sono una distesa priva di possibile poesia, rozza cosa restata lì, ai primordi, senza attesa,
sotto un sole meccanico che, annosa e appena nata, essa subisce come infinità. Ne nasce un bestiale colore rosa
dove il sesso paesano che ognuno ha disegnato in calzoni di allegro cotone, in gonne comprate negli stores indiani,
con soli occhiuti e cerchi di pavone, come un’isola galleggia in un oceano ronzante ancora per un’esplosione
recente e sprofondata dentro le maree… Fiori tutti d’un colore, di cotone, occhiuti e cerchiati popolano le Guinee
galleggiando nel tanfo d’uccisione, nella carne delle estati sempre feroce a divorare cibi cui la notte impone
le tinte equatoriali della morte precoce, il blu e il viola e la polvere orrenda, la libertà, che partorisce il popolo con voce
famigliare, e, in realtà, tremenda, il nero dei villaggi, il nero dei porti coloniali, il nero degli hotels, il nero delle tende…
E… alba pratalia, alba pratalia, alba pratalia… I prati bianchi! Così mi risveglio, il mattino, in Italia,
con questa idea dei millenni stanchi bollata nel cervello: i bianchi prati del Comune… della Diocesi… dei Banchi
toscani o cisalpini… quelli rievocati nel latino del duro, dolce Salimbene… Il mondo che sta in un testo, gli Stati
racchiusi in un muro di cinta – le vene dei fiumi che sono poco più che rogge, specchianti tra gaggì e supreme
– i ruderi, consumati da rustiche piogge e liturgici soli, alla cui luce l’Europa è così piccola, non poggia
che sulla ragione dell’uomo, e conduce una vita fatta per sé, per l’abitudine, per le sue classicità sparute.
Non si sfugge, lo so. La Negritudine è in questi prati bianchi, tra i covoni dei mezzadri, nella solitudine
delle piazzette, nel patrimonio dei grandi stili – della nostra storia. La Negritudine, dico, che sarà ragione.
Ma qui a Casarola splende un sole che morendo ritira la sua luce, certa allusione ad un finito amore.
Poesia in forma di rosa
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