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Il canto popolare



 

Improvviso il mille novecento

cinquanta due passa sull'Italia:

solo il popolo ne ha un sentimento

vero: mai tolto al tempo, non l'abbaglia

la modernità, benché sempre il più

moderno sia esso, il popolo, spanto

in borghi, in rioni, con gioventù

sempre nuove - nuove al vecchio canto -

a ripetere ingenuo quello che fu.

 

Scotta il primo sole dolce dell'anno

sopra i portici delle cittadine

di provincia, sui paesi che sanno

ancora di nevi, sulle appenniniche

greggi: nelle vetrine dei capoluoghi

i nuovi colori delle tele, i nuovi

vestiti come in limpidi roghi

dicono quanto oggi si rinnovi

il mondo, che diverse gioie sfoghi...

 

Ah, noi che viviamo in una sola

generazione ogni generazione

vissuta qui, in queste terre ora

umiliate, non abbiamo nozione

vera di chi è partecipe alla storia

solo per orale, magica esperienza;

e vive puro, non oltre la memoria

della generazione in cui presenza

della vita è la sua vita perentoria.

 

Nella vita che è vita perché assunta

nella nostra ragione e costruita

per il nostro passaggio - e ora giunta

a essere altra, oltre il nostro accanito

difenderla - aspetta - cantando supino,

accampato nei nostri quartieri

a lui sconosciuti, e pronto fino

dalle più fresche e inanimate è re -

il popolo: muta in lui l'uomo il destino.

 

E se ci rivolgiamo a quel passato

ch'è nostro privilegio, altre fiumane

di popolo ecco cantare: recuperato

è il nostro moto fin dalle cristiane

origini, ma resta indietro, immobile,

quel canto. Si ripete uguale.

Nelle sere non più torce ma globi

di luce, e la periferia non pare

altra, non altri i ragazzi nuovi...

 

Tra gli orti cupi, al pigro solicello

Adalbertos komis kurtis!, i ragazzini

d'Ivrea gridano, e pei valloncelli

di Toscana, con strilli di rondinini:

Hor atorno fratt Helya! La santa

violenza sui rozzi cuori il clero

calca, rozzo, e li asserva a un'infanzia

feroce nel feudo provinciale l'Impero

da Iddio imposto: e il popolo canta.

 

Un grande concerto di scalpelli

sul Campidoglio, sul nuovo Appennino,

sui Comuni sbiancati dalle Alpi,

suona, giganteggiando il travertino

nel nuovo spazio in cui s'affranca

l'Uomo: e il manovale Dov'andastà

jersera... ripete con l'anima spanta

nel suo gotico mondo. Il mondo schiavitù

resta nel popolo. E il popolo canta.

 

Apprende il borghese nascente lo Ç a ira,

e trepidi nel vento napoleonico,

all'Inno dell'Albero della Libertà,

tremano i nuovi colori delle nazioni.

Ma, cane affamato, difende il bracciante

i suoi padroni, ne canta la ferocia,

Guagliune 'e mala vita! in branchi

feroci. La libertà non ha voce

per il popolo cane. E il popolo canta.

 

Ragazzo del popolo che canti,

qui a Rebibbia sulla misera riva

dell'Aniene la nuova canzonetta, vanti

è vero, cantando, l'antica, la festiva

leggerezza dei semplici. Ma quale

dura certezza tu sollevi insieme

d'imminente riscossa, in mezzo a ignari

tuguri e grattacieli, allegro seme

in cuore al triste mondo popolare.

 

Nella tua incoscienza è la coscienza

che in te la storia vuole, questa storia

il cui Uomo non ha più che la violenza

delle memorie, non la libera memoria...

E ormai, forse, altra scelta non ha

che dare alla sua ansia di giustizia

la forza della tua felicità,

e alla luce di un tempo che inizia

la luce di chi è ciò che non sa.

Padre nostro che sei nei Cieli Padre nostro che sei nei Cieli, io non sono mai stato ridicolo in tutta la vita. Ho sempre avuto negli occhi un velo d’ironia. Padre nostro che sei nei Cieli: ecco un tuo figlio che, in terra, è padre…È a terra, non si difende più …Se tu lo interroghi, egli è pronto a risponderti. È loquace. Come quelli che hanno appena avutouna disgrazia e sono abituati alle disgrazie. Anzi, ha bisogno, lui, di parlare: tanto che ti parla anche se tu non lo interroghi. Quanta inutile buona educazione! Non sono mai stato maleducato una volta nella mia vita. Avevo il tratto staccato dalle cose, e sapevo tacere. Per difendermi, dopo l’ironia, avevo il silenzio. Padre nostro che sei nei Cieli: sono diventato padre, e il grigio degli alberisfioriti, e ormai senza frutti, il grigio delle eclissi, per mano tua mi ha sempre difeso. Mi ha difeso dallo scandalo, dal dare in pastoagli altri il mio potere perduto. Infatti, Dio, io non ho mai dato l’ombra di uno scandalo. Ero protetto dal mio possedere e dall'esperienzadel possedere, che mi rendeva, appunto, ironico, silenzioso e infine inattaccabile come mio padre. Ora tu mi hai lasciato. Ah, ah, lo so ben io cosa ho sognatoquel maledetto pomeriggio! Ho sognato Te. Ecco perché è cambiata la mia vita. E allora, poiché Ti ho, che me ne faccio della paura del ridicolo? I miei occhi sono divenuti due buffi e nudilampioni del mio deserto e della mia miseria. Padre nostro che sei nei Cieli! Che me ne faccio della mia buona educazione? Chiacchiererò con Te come una vecchia, o un poverooperaio che viene dalla campagna, reso quasi nudodalla coscienza dei quattro soldi che guadagnae che dà subito alla moglie – restando, lui, squattrinato, come un ragazzo, malgrado le sue tempie grigiee i calzoni larghi e grigi delle persone anziane… Chiacchiererò con la mancanza di pudoredella gente inferiore, che Ti è tanto cara. Sei contento? Ti confido il mio dolore; e sto qui a aspettare la tua rispostacome un miserabile e buon gatto aspettagli avanzi, sotto il tavolo: Ti guardo, Ti guardo fisso, come un bambino imbambolato e senza dignità. La buona reputazione, ah, ah! Padre nostro che sei nei Cieli, cosa me ne faccio della buona reputazione, e del destino– che sembrava tutt'uno col mio corpo e il mio tratto –di non fare per nessuna ragione al mondo parlare di me? Che me ne faccio di questa personacosi ben difesa contro gli imprevisti?

 

 

Vanno verso le Terme di Caracalla… Vanno verso le Terme di Caracallagiovani amici, a cavalcionidi Rumi o Ducati, con maschilepudore e maschile impudicizia, nelle pieghe calde dei calzoninascondendo indifferenti, o scoprendo, il segreto delle loro erezioni... Con la testa ondulata, il giovanilecolore dei maglioni, essi fendonola notte, in un carosellosconclusionato, invadono la notte, splendidi padroni della notte... Va verso le Terme di Caracalla, eretto il busto, come sulle natiechine appenniniche, fra tratturiche sanno di bestia secolare e pieceneri di berberi paesi - già impurosotto il gaglioffo basco impolverato, e le mani in saccoccia - il pastoremigratoundicenne, e ora qui, malandrino egiulivonel romano riso, caldo ancoradi salvia rossa, di fico e d'ulivo... Va verso le Terme di Caracalla, il vecchio padre di famiglia, disoccupato, che il feroce Frascati ha ridottoa una bestia cretina, a un beato, con nello chassì i ferrivecchidel suo corpo scassato, a pezzi, rantolanti: i panni, un sacco, che contiene una schiena un po' gobba, due cosce certo piene di croste, i calzonacci che gli svolazzano sottole saccocce della giacca pesedi lordi cartocci. La facciaride: sotto le ganasce, gli ossimasticano parole, scrocchiando: parla da solo, poi si ferma, e arrotola il vecchio mozzicone, carcassa dove tutta la giovinezza, resta, in fiore, come un focaracciodentro una cò fana o un catino: non muore chi non è mai nato. Vanno verso le Terme di Caracalla Non è Amore … Non è Amore. Ma in che misura è miacolpa il non fare dei miei affettiAmore? Molta colpa, siapure, se potrei d'una pazza purezza, d'una cieca pietà vivere giornoper giorno... Dare scandalo di mitezza. Ma la violenza in cui mi frastorno, dei sensi, dell'intelletto, da anni, era la sola strada. Intornoa me alle origini c'era, degli inganniistituiti, delle dovute illusioni, solo la Lingua: che i primi affannidi un bambino, le preumane passioni, già impure, non esprimeva. E poiquando adolescente nella nazioneconobbi altro che non fosse la gioiadel vivere infantile - in una patriaprovinciale, ma per me assoluta, eroica -fu l'anarchia. Nella nuova e già gramaborghesia d'una provincia senza purezza, il primo apparire dell'Europafu per me apprendistato all'uso più puro dell'espressione, che la scarsezzadella fede d'una classe morenterisarcisse con la follia ed i tò poidell'eleganza: fosse l'indecentechiarezza d'una lingua che evidenziala volontà a non essere, incosciente, e la cosciente volontà a sussisterenel privilegio e nella libertà che per Grazia appartengono allo stile. Senza di te tornavo… Senza di te tornavo, come ebbro, non più capace d'esser solo, a seraquando le stanche nuvole dileguanonel buio incerto. Mille volte son stato così solodacché son vivo, e mille uguali serem'hanno oscurato agli occhi l'erba, i montile campagne, le nuvole. Solo nel giorno, e poi dentro il silenziodella fatale sera. Ed ora, ebbro, torno senza di te, e al mio fiancoc'è solo l'ombra. E mi sarai lontano mille volte, e poi, per sempre. Io non so frenarequest'angoscia che monta dentro al seno; essere solo. Marilyn Del mondo antico e del mondo futuroera rimasta solo la bellezza, e tu, povera sorellina minore, quella che corre dietro i fratelli più grandi, e ride e piange con loro per imitarli, tu sorellina più piccola, quella bellezza l’avevi addosso umilmente, e la tua anima di figlia di piccola gente, non ha mai saputo di averla, perché altrimenti non sarebbe stata bellezza. Il mondo te l’ha insegnata, così la tua bellezza divenne sua. Del pauroso mondo antico e del pauroso mondo futuroera rimasta sola la bellezza, e tute la sei portata dietro come un sorriso obbediente. L’obbedienza richiede troppe lacrime inghiottite, il darsi agli altri troppi allegri sguardiche chiedono la loro pietà! Così ti sei portata via la tua bellezza. Sparì come un pulviscolo d’oro. Dello stupido mondo antico e del feroce mondo futuroera rimasta una bellezza che non si vergognavadi alludere ai piccoli seni di sorellina, al piccolo ventre così facilmente nudo. E per questo era bellezza, la stessa che hanno le dolci ragazze del tuo mondo…le figlie dei commerciantivincitrici ai concorsi a Miami o a Londra. Sparì come una colombella d’oro. Il mondo te l’ha insegnata, e così la tua bellezza non fu più bellezza. Ma tu continuavi a essere bambina, sciocca come l’antichità, crudele come il futuro, e fra te e la tua bellezza posseduta dal Poteresi mise tutta la stupidità e la crudeltà del presente. La portavi sempre dietro come un sorriso tra le lacrime, impudica per passività, indecente per obbedienza. Sparì come una bianca colomba d’oro. La tua bellezza sopravvissuta dal mondo antico, richiesta dal mondo futuro, posseduta dal mondo presente, divenne un male mortale. Ora i fratelli maggiori, finalmente, si voltano, smettono per un momento i loro maledetti giochi, escono dalla loro inesorabile distrazione, e si chiedono: “È possibile che Marilyn, la piccola Marilyn, ci abbia indicato la strada? ” Ora sei tu, quella che non conta nulla, poverina, col suo sorriso, sei tu la prima oltre le porte del mondoabbandonato al suo destino di morte.

 



  

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