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Tana French 39 страница



Quando tornai al lavoro, Cassie non c'era più. Se n'era andata il giorno della condanna di Damien. Alcune fonti dicevano che sarebbe stata promossa a sergente detective se fosse rimasta; altre, al contrario, che era stata obbligata ad andarsene per non essere cacciata a calci dalla squadra. Qualcuno l'aveva vista in un pub in città, mano nella mano con Sam. Altri dissero che era tornata all'università, a studiare archeologia. La morale di gran parte di quelle voci, si intuiva, era che le donne in realtà non fanno mai veramente parte della Omicidi.

Venne fuori in seguito che Cassie non aveva affatto lasciato la polizia. Era passata a Violenza domestica e aveva ottenuto un anno sabbatico per concludere il corso di psicologia – da qui la voce dell'università. Non mi stupivo che corressero tutte quelle voci. Lavorare a Violenza domestica è forse l'incarico più straziante in assoluto all'interno della polizia, visto che vi sono radunati i casi peggiori della Omicidi e di Crimini sessuali (famiglie devastate, bambini violati, moglie picchiate e ridotte in schiavitù ) senza la relativa gloria. L'idea di lasciare una delle squadre d'é lite per quel posto era inconcepibile per molti. Il tamtam diceva che doveva essersi bevuta il cervello.

Personalmente non credo che il trasferimento di Cassie avesse nulla a che vedere con il suo cervello andato in fumo e, anche se potrà sembrare semplicistico ed egoista, dubito anche che avesse a che vedere con me, o almeno non nel modo in cui forse starete pensando. Se l'unico problema fosse stato che non sopportavamo più di stare nella stessa stanza, si sarebbe trovata un nuovo collega e avrebbe puntato i piedi, si sarebbe fatta vedere al lavoro di giorno in giorno più smagrita e spavalda finché non avessimo trovato un modo nuovo per relazionarci oppure finché non avessi chiesto io il trasferimento. Di noi due, lei è sempre stata la più testarda. Credo invece che se ne fosse andata perché aveva mentito a O'Kelly e a Rosalind Devlin, e loro le avevano creduto. E perché, quando mi aveva detto la verità, l'avevo accusata di mentire.

Rimasi in un certo senso deluso quando la storia dell'archeologia non si rivelò vera. Era stato facile immaginarla, e bello: Cassie su una collina verde, con piccozza e pantaloni multitasche, i capelli scostati dal volto, abbronzata, sporca di fango e sorridente.

 

Per un po' tenni d'occhio i giornali, ma non lessi mai di uno scandalo riguardante l'autostrada di Knocknaree. Il nome dello zio Redmond comparve solo in fondo alla tabella di un tabloid che illustrava quanto spendevano i contribuenti per i compensi di vari politici. Il fatto che Sam fosse ancora alla Omicidi mi faceva pensare che alla fine avesse fatto quello che gli aveva detto O'Kelly… anche se è possibile, naturalmente, che avesse portato il nastro a Kiely e che nessun giornale avesse voluto metterci il naso. Non so. Non vendette neanche la casa. Sentii invece che l'aveva data in affitto per una cifra nominale a una giovane vedova il cui marito era deceduto per un aneurisma cerebrale lasciandola con un bambino piccolo, una gravidanza difficile e nessuna assicurazione sulla vita. Suonatrice di violoncello freelance, non poteva neppure chiedere il sussidio di disoccupazione, per cui era rimasta indietro con l'affitto e il precedente padrone di casa l'aveva sfrattata. Così erano finiti, lei e i suoi bambini, nella stanza di un B & B pagata da un'organizzazione caritatevole. Non ho idea di come Sam avesse trovato quella donna: avrei giurato che fosse necessario risalire alla Londra vittoriana per un tanto pittoresco pathos. Forse aveva condotto una ricerca approfondita, com'era tipico da parte sua. Si era trasferito in un appartamento in affitto a Blanchardstown, credo, o in un qualche altro inferno di periferia simile. Le teorie che circolavano erano che stesse per lasciare la polizia per il convento e che avesse una malattia terminale.

 

Mi vidi con Sophie, se non altro perché le dovevo tutta una serie di cene e cocktail. Arrivai perfino a pensare che stessimo bene perché non mi faceva domande difficili. Ma dopo alcuni appuntamenti, prima che la relazione fosse progredita a sufficienza per potersi definire tale, mi scaricò. Mi informò, molto prosaicamente, che era abbastanza adulta da riconoscere la differenza tra " affascinante" e " suonato". «Dovresti frequentare donne più giovani» fu il suo consiglio. «Non sempre se ne accorgono. »

 

Era inevitabile che, di tanto in tanto, durante quegli interminabili mesi, trascorsi a giocare a poker solitario fino a tarda notte nel mio appartamento, a infliggermi dosi quasi letali di Radiohead e di Leonard Cohen, i miei pensieri tornassero a Knocknaree. Mi ero giurato, è ovvio, che quel luogo non avrebbe più avuto posto nella mia mente, ma credo che sia impossibile impedire agli esseri umani di essere curiosi. Solo non dovrebbe implicare un prezzo troppo alto.

Immaginate quindi la mia sorpresa quando non ci trovai niente. A quanto pareva, tutto quello che era accaduto prima del mio arrivo al collegio era stato asportato con precisione chirurgica, e questa volta per sempre. Peter, Jamie, i motociclisti e Sandra, il bosco, ogni singolo brandello di memoria che avevo cercato di recuperare con un'attenzione così laboriosa nel corso dell'Operazione Vestale era sparito. Ricordavo solo com'era stato ricordare quelle scene, tanto tempo prima. Ora avevano assunto quella patina da qualità scadente di vecchie pellicole che avevo visto o di storie che mi avevano raccontato. Le vedevo come da una distanza enorme: tre bambini scottati dal sole e in calzoncini malandati che, appollaiati sui rami, sputavano sulla testa di Willy Little e poi scappavano via ridendo. Col tempo, ne ero certo, anche quegli sfuocati brandelli sarebbero avvizziti e si sarebbero dissolti. Non sembravano più appartenermi e non riuscivo a scuotermi di dosso l'oscura e implacabile sensazione che fosse perché m'ero giocato una volta per tutte il diritto di avere dei ricordi.

Restava una sola immagine. Peter e io distesi sull'erba nel giardino davanti a casa sua, un pomeriggio d'estate. Avevamo tentato, alla nostra maniera, di costruire un periscopio con le istruzioni contenute in un vecchio annuario, ma dovevamo procurarci un tubo di cartone di quelli della carta da cucina. Non potevamo chiederlo alle nostre madri perché in quel periodo non parlavamo con loro. Avevamo arrotolato un giornale, ma continuava a piegarsi, e quindi tutto quello che vedevamo nel nostro periscopio era la pagina sportiva al contrario.

Eravamo entrambi di pessimo umore. Era la prima settimana di vacanze e c'era il sole, quindi sarebbe dovuta essere una giornata fantastica, avremmo potuto dedicarla alla sistemazione della nostra casa sull'albero o a congelarci le chiappe nel fiume o qualcosa del genere. Ma tornando a casa l'ultimo giorno di scuola, il venerdì, Jamie aveva annunciato, rivolta alle scarpe: «Tre mesi e poi andrò in collegio».

«Stai zitta. » Peter l'aveva spinta, ma piano. «No, che non ci andrai. Mollerà. » Era come se la bella patina delle vacanze fosse svanita in un'enorme nuvola di fumo nero che pesava su tutto. Non potevamo rientrare perché i nostri genitori erano arrabbiati con noi per la nostra decisione di non parlare con loro, e non avevamo voglia di andare nel bosco perché tutto quello che ci veniva in mente di fare sembrava stupido. E non potevamo nemmeno andare da Jamie per farla uscire perché si sarebbe limitata a scuotere la testa e a dire: " Che senso ha? " facendo peggiorare le cose. Così ce ne stavamo in giardino, annoiati, nervosi e irritati l'uno con l'altro, e con il periscopio che non funzionava, e anche con il mondo intero perché era una vera scocciatura. Peter strappava fili d'erba, ne mordicchiava le punte e le sputava in aria. Io ero steso sulla pancia, con un occhio aperto sulle formiche che si affaccendavano avanti e indietro, il sole che mi faceva sudare. " Quest'estate… è come se non ci fosse" pensavo. " Quest'estate fa schifo. "

La porta di casa di Jamie si spalancò e lei schizzò fuori come se l'avessero sparata con un cannone. Udimmo il risolino dolente di sua madre, il rumore che fece la porta sbattendo sugli infissi quando si richiuse e, in mezzo, l'esplosione ad alto volume e in tutta la sua isteria dell'orribile Jack Russell dei Carmichael. Peter e io ci tirammo su. Jamie si bloccò al cancelletto di casa, cercandoci furiosamente con lo sguardo a destra e a sinistra. Quando le gridammo qualcosa, partì a razzo lungo il sentiero, saltò il muro del giardino di Peter e atterrò di piatto sull'erba e noi con lei per via del braccio a uncino intorno ai nostri colli. Gridavamo tutti insieme, perciò ci mettemmo qualche secondo per capire quello che stava gridando lei: «Resto qui! Resto qui! Non devo più andarmene! ».

L'estate riprese vita. In un battito di ciglia, passò dal grigio a un possente blu e oro. L'aria risuonava del frinire delle cavallette e dei tagliaerba, turbinava di rami e api e soffioni, era morbida e dolce come panna montata. Dall'altra parte del muro, ecco che il bosco ci chiamava con la più alta e silenziosa delle voci, scuoteva i propri tesori per darci il benvenuto. L'estate faceva nascere viticci d'edera, ci prendeva sotto le braccia, ci tirava. L'estate si riscattava, sbocciava davanti a noi, lunga un milione di anni.

Ci liberammo dal mucchio e ci mettemmo seduti, affannati, ancora incapaci di credere alle nostre orecchie.

«Sul serio? » chiesi. «Per sempre? »

«Sì. Ha detto: " Vedremo, ci penserò ancora e inventeremo qualcosa". Ma quando dice così vuol dire che va bene, solo che non me lo vuole ancora dire. Non vado da nessuna parte! »

Esaurite le parole, Jamie mi diede uno spintone e io le afferrai un braccio, le salii sopra e, sfregandole il polso, le feci venire gli spilli. Ora sorridevo ed ero felice, così felice che non mi sarei più mosso di lì.

Peter disse: «Dobbiamo festeggiare. Picnic al castello. Andate a casa, prendete un po' di cose e ci vediamo là ».

Sfrecciai in casa e andai in cucina. Mia madre stava passando l'aspirapolvere al piano di sopra. «Mami! Jamie non va via, posso prendere delle cose per un picnic? » Acchiappai tre pacchetti di patatine e un mezzo pacchetto di biscotti con la crema dentro, me li infilai sotto la maglietta e, salutando con la mano mia madre che dalla cima del pianerottolo mi guardava con la faccia attonita, fui di nuovo fuori.

Lattine di Coca‑ Cola, la schiuma che ne usciva e noi sul muro del castello. Brindammo. «Abbiamo vinto! » gridò Peter, verso l'alto, verso i rami e i raggi di sole che filtravano, la testa all'indietro e il pugno levato in segno di vittoria. «Ce l'abbiamo fatta! »

Jamie gridò: «Resterò qui per sempre! » e si mise a ballare sul muro come fosse fatta d'aria. «Per sempre, sempre, sempre, sempre! » Quanto a me, mi limitavo a strillare, a emettere grida selvagge senza parole. Il bosco raccoglieva le nostre voci e le rimandava ingigantite, le intesseva nel fruscio delle foglie, nel gorgoglio del fiume, nel richiamo di tutti gli altri abitanti di quel nostro regno in un lungo e alto peana.

Quel ricordo non si dissolse nel fumo e non mi scivolò via tra le dita. Rimase, e rimane tuttora, caldo, nitido e mio, unica, scintillante moneta nella mia mano. Se era stato il bosco a decidere di lasciarmi un solo ricordo, era stato molto gentile a scegliere quello.

 

Per uno di quegli impietosi strascichi che a volte riservano casi come questo, Simone Cameron mi telefonò non molto tempo dopo il mio rientro al lavoro. Il numero del mio cellulare lo aveva preso dal biglietto da visita che le avevo lasciato. Non poteva sapere che nel frattempo mi avevano messo al controllo incrociato delle dichiarazioni di quelli che venivano fermati a bordo di auto rubate e che non avevo più nulla a che fare con il caso di Katy Devlin. «Detective Ryan» disse, «abbiamo trovato una cosa che credo debba vedere. »

Era il diario di Katy, quello che Rosalind ci aveva detto che la sorella, stanca di scriverci, aveva buttato via. L'addetta alle pulizie della Cameron Academy, in un momento di sacro furore per il suo lavoro, lo aveva trovato attaccato con lo scotch dietro un poster incorniciato di Anna Pavlova appeso alla parete dello studio. Quando aveva letto il nome sulla copertina, aveva chiamato Simone, tutta emozionata. Avrei dovuto dare a Simone il numero di Sam e riattaccare, invece abbandonai la mia postazione e partii per Stillorgan.

Erano le undici del mattino e Simone era l'unica persona presente alla scuola di ballo. Lo studio era inondato di luce solare e le foto di Katy erano state staccate dalla bacheca degli annunci, ma un effluvio di quell'odore professionale, di resina, di sudore forte, di cera per i pavimenti, fece riemergere tutto: i ragazzi con gli skateboard che rumoreggiavano in strada al buio, il tramestio di piedi fasciati e le chiacchiere nel corridoio, la voce di Cassie al mio fianco, l'urgenza che avevamo portato con noi in quella stanza.

La cornice con il poster era a faccia in giù sul pavimento. Sul retro erano stati attaccati dei fogli di carta impolverati che formavano una specie di tasca posticcia. Il diario era lì. Era solo un quaderno di quelli che si usano a scuola, pagine a righe e copertina arancio sporco, riciclato. «L'ha trovato Paula, ma doveva andare via, per un altro lavoro» disse Simone. «Se vuole ho il suo numero di telefono. »

Lo raccolsi. «L'ha letto? » chiesi.

Simone annuì. «Un po'. Abbastanza. » Indossava pantaloni neri, stretti, e un morbido pullover in tinta. Sembrava ancora più esotica di quando l'avevo vista con la gonna lunga e il body. I suoi straordinari occhi avevano lo stesso sguardo immobile di quando le avevamo detto di Katy.

Sedetti su una delle sedie di plastica. " Katy Devlin PRIVATISSIMO! STARE ALLA LARGA! EHI, DICO A TE! " c'era scritto sulla copertina, ma lo aprii comunque. Era pieno per quasi tre quarti. La calligrafia era tondeggiante e curata, con qualche accenno di individualità come uno svolazzo sulla " y" e sulle " g", una " s" maiuscola alta e arricciata. Simone si sedette di fronte a me e mi osservò mentre leggevo, le mani una sull'altra, in grembo.

Il diario copriva un periodo di quasi otto mesi. All'inizio, le annotazioni erano regolari, magari una mezza paginetta ma tutti i giorni. Dopo diventavano intermittenti, due alla settimana, poi una. Riguardavano in gran parte il balletto. " Simone dice che il mio arabesque è migliorato ma devo pensare che proviene da tutto il corpo e non solo dalla gamba, soprattutto la linea sinistra deve essere assolutamente dritta. " " Stiamo imparando un pezzo nuovo per il saggio di fine anno, la musica è da Giselle + devo fare le fouetté s. Simone dice: 'Ricorda, questo è il modo di Giselle di dire al suo fidanzato che le ha spezzato il cuore' + quanto le manca + è la sua unica possibilità quindi deve essere lo scopo di tutto quello che faccio. Va così solo un po'. " Seguivano varie righe di un'annotazione misteriosa, una specie di partitura musicale codificata. Il giorno in cui era stata accettata alla Royal Ballet School era tutto una sovreccitata esplosione di maiuscole e punti esclamativi e adesivi a forma di stella: " VADOOO VADOOO VADOOO VADOOO VERAMENTE!!!!! ".

C'erano passaggi su cose fatte con le amiche: " Siamo rimaste a dormire a casa di Christina sua mamma ci ha propinato una pizza strana con le olive + abbiamo giocato al gioco della verità a Beth piace Matthew. A me non piace nessuno le ballerine si sposano quasi tutte solo dopo aver fatto carriera quindi magari quando avrò trentacinque o quarant'anni. Ci siamo truccate Marianne stava benissimo ma Christina si è messa troppo ombretto e sembrava sua madre!! ". La prima volta che lei e le sue amiche avevano avuto il permesso di andare in città da sole: " Preso il bus + shopping da Miss Selfrige con Marianne + ho comprato lo stesso top ma il suo è rosa con la scritta viola mentre il mio è azzurro e rosso. Jess non è potuta venire così le ho preso una spilletta con fiore per i capelli. Poi siamo andate da MacDonald's Christina ha infilato un dito nella mia salsa barbecue così io ne ho messa un po' sul suo gelato abbiamo riso talmente forte che la guardia ha detto che ci mandava fuori se non smettevamo. Christina gli ha chiesto vuoi un po' di gelato alla salsa barbecue? ".

Aveva provato le scarpette a punta di Louise, le faceva schifo il cavolo e si era fatta cacciar fuori dalla lezione di irlandese per avere mandato un SMS a Beth nella fila a fianco alla sua. La si sarebbe potuta definire una bambina felice, ridanciana e troppo frettolosa per usare la punteggiatura. Nulla di speciale che la riguardasse tranne il ballo ed era soddisfatta così. Ma, poco oltre la metà, il terrore emergeva dalle pagine come i fumi della benzina, acri e stordenti. " Jess è triste che vado alla scuola di balletto piangeva. Rosalind dice che se vado Jess si ucciderà + sarà colpa mia non dovrei essere sempre così egoista. Non so cosa fare se chiedo a mamma e papà poi magari non mi fanno andare. Non voglio che Jess muore. "

" Simone ha detto che non posso più permettermi di ammalarmi così stasera ho detto a Rosalind che non voglio berlo. Rosalind dice che devo o non sarò più brava a ballare. Ho avuto paura perché lei si è arrabbiata tanto ma anch'io mi sono arrabbiata e ho detto no che non le credevo credo che mi fa stare solo male. Dice che sarà peggio per me + Non permette a Jess di parlarmi. "

" Christina è arrabbiata con me martedì è venuta da me + Rosalind le ha detto che quando andrò alla scuola di balletto non le vorrò più bene come prima come amica + Christina non ci crede che non l'ho detto. Adesso Christina e Beth non mi parlano ma Marianne invece sì. Odio Rosalind LA ODIO LA ODIO LA ODIO. "

" Ieri il mio diario era sotto il letto come sempre ma poi non riuscivo più a trovarlo. Non ho detto niente ma poi mamma ha portato Rosalind + Jess da zia Vera io sono rimasta a casa + ho cercato dappertutto in camera di Rosalind era dentro scatola da scarpe nel suo armadio. Avevo paura di prenderlo perché adesso se ne accorge e si arrabbierà davvero tanto ma non mi importa. Lo terrò qui da Simone posso scrivere quando mi esercito da sola. "

L'ultima annotazione di Katy risaliva a tre giorni prima della sua morte. " A Rosalind dispiace che si è comportata male con me perché vado via era solo preoccupata per Jess + triste perché io vado lontano e le mancherò. Per scusarsi mi darà portafortuna per il ballo. "

La sua voce risuonava piccola e vivace attraverso le lettere tonde, vergate con la biro; vorticava nella luce del sole insieme alle particelle di polvere. Katy, morta da un anno, le ossa nel cimitero grigio e geometrico di Knocknaree. Avevo pensato pochissimo a lei dalla fine del processo. Anche durante l'indagine, a essere franchi, aveva occupato un posto molto meno importante di quanto sarebbe stato ipotizzabile. La vittima è la persona che non conoscerai mai. Katy era stata solo una somma di immagini trasparenti e in conflitto, riflesse attraverso le parole di altre persone, importante non di per sé ma per la sua morte e per la scia di fuochi d'artificio di conseguenze che si era lasciata dietro. Un solo momento allo scavo di Knocknaree aveva cancellato qualsiasi altra cosa fosse mai stata. Ripensai a lei, distesa su quel pavimento di legno chiaro, le fragili ali delle sue scapole che si muovevano al ritmo della scrittura, con la musica che le si diffondeva intorno.

«Avrebbe fatto qualche differenza se l'avessimo trovato prima? » chiese Simone. La sua voce mi fece sussultare e aumentare il battito cardiaco. Mi ero quasi dimenticato della sua presenza.

«Probabilmente no» risposi. Non sapevo se sarebbe stato effettivamente così, ma era ciò che lei aveva bisogno di sentirsi dire. «Non c'è nulla qui che colleghi direttamente Rosalind a un crimine. C'è scritto che le faceva bere delle cose, ma se la sarebbe cavata comunque, avrebbe sostenuto che si trattava di una bevanda a base di vitamine. Stessa cosa per il portafortuna; non prova nulla. »

«Ma se l'avessimo trovato prima che morisse» insistette con tono pacato Simone, «allora sì. » Non c'era nulla che potessi dire al riguardo, nulla di nulla.

Infilai il diario e la piccola tasca di carta in un sacchetto per le prove e li inviai a Sam, al Castello di Dublino. Sarebbero finiti in una scatola nel seminterrato, da qualche parte vicino ai miei vecchi vestiti. Il caso era chiuso, non potevamo farcene più nulla a meno che, o fino a quando, Rosalind non avesse fatto la stessa cosa a qualcun altro. Mi sarebbe piaciuto mandare il diario a Cassie, come forma di scuse mute quanto inutili, ma non si trattava più nemmeno di un caso suo e comunque non ero più certo che avrebbe capito la mia motivazione.

 

Alcuni mesi dopo mi dissero che Cassie e Sam si erano fidanzati. Bernadette mandò una e‑ mail circolare per raccogliere fondi per un regalo. Quella sera raccontai a Heather che il figlio di non so chi aveva la scarlattina e mi chiusi in camera dove mi scolai vodka, lentamente ma con metodo, fino alle quattro del mattino. Poi chiamai Cassie sul cellulare.

Al terzo squillo rispose, con la voce impastata: «Maddox».

«Cassie» dissi. «Cassie, non sposerai quel noioso campagnolo, vero? »

La sentii prendere fiato, come per prepararsi a dire qualcosa, ma poi lo lasciò uscire di nuovo.

«Mi dispiace» proseguii. «Per tutto. Mi dispiace così tanto. Ti voglio bene, Cass. Ti prego. »

Attesi ancora. Dopo un po', udii un colpo, quindi Sam che in sottofondo chiedeva: «Chi era? ».

«Sbagliato numero» disse Cassie, ancora più lontana. «Un tipo ubriaco. »

«Allora perché sei rimasta tanto al telefono? » Si sentiva che stava scherzando, che la stuzzicava. Fruscio di lenzuola.

«Mi ha anche detto che mi ama, così volevo vedere chi era» rispose Cassie. «In realtà cercava Britney. »

«Come tutti noi, del resto» disse Sam. Poi: «Ahia! » e Cassie che ridacchiava. «Certo che mordi, tu, eh? »

«Ti sta bene» fece Cassie. Risate basse, fruscio, un bacio, un lungo sospiro soddisfatto, Sam che mormorava felice: «Piccola». Poi più nulla se non i loro respiri che scemavano lentamente verso il sonno.

Rimasi seduto a lungo a osservare il cielo che rischiarava fuori dalla finestra, realizzando d'un tratto che sul cellulare di Cassie non era apparso il mio nome. Sentivo la vodka che si faceva strada nel mio sangue, il mal di testa che cominciava a premere alle porte. Sam russava, piano. Non ho mai saputo se Cassie avesse creduto di avere riattaccato o se avesse voluto ferirmi, o se avesse voluto farmi un ultimo regalo, un'ultima notte ad ascoltarla respirare.

 

Com'era da prevedere, l'autostrada andò avanti sul tracciato originario. " Spostiamo l'autostrada" era riuscita a bloccarla abbastanza a lungo con ingiunzioni, appelli costituzionali, ricorsi perfino alla Corte Europea, credo, ma andò avanti. Uno sgangherato gruppo di dimostranti, che con un abile gioco di parole si faceva chiamare Knocknafree (sono pronto a scommettere che fra loro ci fosse anche Mark), piantò un accampamento in mezzo al sito per fermare i bulldozer. Ci riuscì per qualche altra settimana, fino a quando il governo non ottenne un ordine del tribunale. Non c'era mai stata speranza per loro. Mi sarebbe piaciuto chiedere a Jonathan Devlin se credeva sul serio, a dispetto di tutti i ricorsi storici, che questa volta l'opinione pubblica avrebbe fatto la differenza, oppure se aveva sempre saputo come sarebbe andata a finire ma aveva voluto provarci lo stesso. In ogni caso, lo invidiavo.

Il giorno in cui lessi sui giornali che erano iniziati i lavori, mi precipitai. Teoricamente, dovevo essere a Terenure per un porta‑ a‑ porta, alla ricerca di qualcuno che avesse visto un'auto rubata usata per una rapina, ma nessuno avrebbe sentito la mia mancanza per un'ora o due. Non so bene perché ci andai. Non si trattava del drammatico finale di un caso da chiudere, nulla del genere. Era il semplice e ritardato impulso di vedere quel posto un'ultima volta.

M'ero aspettato che ci fosse disordine, ma non uno sconquasso di quelle dimensioni. Sentii il ruggito dei macchinari molto prima di arrivare in cima alla collina. L'intero sito era irriconoscibile, uomini con casacche fosforescenti che sciamavano come formiche e che gridavano ordini inintelligibili per il rumore, mastodontici bulldozer incrostati di fango che spostavano da una parte all'altra grandi quantitativi di terra girando attorno con oscena delicatezza ai resti delle mura.

Parcheggiai sul lato della strada e scesi dall'auto. C'era un piccolo assembramento di scoraggiati dimostranti nella piazzola di sosta. Quella almeno era rimasta intatta, per il momento. Il castagno continuava a lasciar cadere i suoi frutti. La gente che si era radunata aveva cartelli con scritte a mano come " Salviamo il nostro patrimonio" e " La storia non è in vendita" nel caso che si fossero fatti vivi i giornali. La terra che era stata rivoltata e divelta sembrava estendersi all'infinito, occupare un'area che era molto più grande del sito archeologico vero e proprio. Poi capii: l'ultima striscia di bosco era scomparsa quasi del tutto. C'erano tronchi segati, radici esposte che si protendevano follemente verso il cielo grigio. Le motoseghe attaccavano senza posa gli ultimi alberi rimasti.

Il ricordo mi colpì al petto con una tale potenza che rimasi senza fiato: l'arrampicata sul muro del castello, i pacchetti di patatine che crepitavano nella maglietta, il rumore del fiume che gorgogliava più in basso, da qualche parte, la scarpa da ginnastica di Peter che cercava un punto di appoggio poco più in alto di me, i capelli biondi di Jamie che ondeggiavano tra le foglie… Tutto il mio corpo ricordò: la sensazione ruvida e familiare della pietra contro il palmo della mano, lo sforzo del muscolo della coscia quando mi spingevo su, verso il turbinio di verde e di luce… Mi ero così abituato a pensare al bosco come all'invincibile nemico in agguato, all'ombra che ricopriva ogni angolo segreto della mia mente. Mi ero completamente dimenticato che, per gran parte della mia vita, era stato il nostro parco giochi preferito e il nostro adorato e bellissimo rifugio. Me ne ricordavo ora che lo stavano abbattendo.

Ai margini del sito, nei pressi della strada, uno degli operai aveva tirato fuori un pacchetto di sigarette tutto schiacciato da sotto il corpetto arancione e si stava tastando con metodo le tasche alla ricerca dell'accendino. Trovai il mio e andai da lui.

«Grazie, figliolo» disse, con la sigaretta fra i denti e le mani a coppa intorno alla fiamma. Era sulla cinquantina, piccolo e forte, con la faccia da terrier: amichevole, non impegnativa, con sopracciglia cespugliose e grossi baffi a manubrio.

«Come sta andando? » chiesi.

Scrollò le spalle, aspirò il fumo e mi rese l'accendino. «Ah, be', ho visto di peggio. Grosse pietre maledette ovunque, tutto qua. »

«Magari vengono dal castello. Qui c'era un sito archeologico. »

«Come se non lo sapessimo» commentò e fece cenno verso i dimostranti.

Sorrisi. «Trovato nulla di interessante? »

Mi guardò negli occhi e capii che mi stava valutando: dimostrante, archeologo, spia del governo? «Tipo cosa? »

«Non so… pezzi archeologici, magari. Ossa di animali. Ossa umane. »

Aggrottò le sopracciglia. «Cosa sei? Un poliziotto? »

«No» mentii. L'aria aveva l'odore umido della terra smossa e della pioggia in agguato. «Due miei amici scomparvero qui, negli anni Ottanta. »

Annuì pensieroso e senza mostrarsi sorpreso. «Me lo ricordo, sì che me lo ricordo» disse. «Due ragazzini. Sei quello che era con loro? »

«Sì » risposi. «Proprio io. »

Aspirò a lungo e senza fretta dalla sigaretta e mi sbirciò con un leggero interesse. «Mi dispiace per quello che hai passato. »

«Sono trascorsi tanti anni…»

Annuì. «Che io sappia, non abbiamo trovato ossa. Magari qualcosa di conigli o volpi, ma niente di più grande. Se fosse successo avremmo chiamato la polizia. »

«Lo so» dissi. «Era per essere sicuro. »

Rimase pensieroso per un po', scrutando il sito. «Prima, uno dei ragazzi ha trovato questo. » Cercò nelle tasche, a partire da quelle in basso fino a quelle in alto, e da sotto il corpetto estrasse una cosa. «E di questo che ne pensi? »



  

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