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Tana French 28 страница



Cercate di capire, sentivo davvero, anche se non mi è chiaro come la mia mente fosse arrivata a una conclusione del genere, di essere stato tradito in modo subdolo e imperdonabile. Se fosse stata lei a ferirmi, l'avrei perdonata senza neanche pensarci. Non le perdonavo, invece, di essersi lasciata ferire.

 

I risultati delle analisi ematiche – le macchie sulle mie scarpe e la goccia sulla pietra d'altare – sarebbero arrivati nel giro di poco. Nonostante la bruma stupefatta e sottomarina nella quale mi sembrava di navigare, quella era una delle poche cose che avevo chiare in mente. Ogni altro punto di riferimento era crollato, bruciato. Questo era quanto mi restava e mi ci aggrappavo con una sorta di tetra e monomaniacale disperazione. Ero certo, con una sicurezza che andava ben oltre ogni logica, che avevamo bisogno semplicemente di una corrispondenza del DNA. Che se l'avessimo trovata tutti gli altri pezzi sarebbero andati a posto con la soffice e misurata precisione dei fiocchi di neve e il caso, entrambi i casi, si sarebbero dispiegati davanti ai miei occhi, perfetti e abbaglianti.

Mi rendevo vagamente conto del fatto che, se ciò fosse avvenuto, avremmo avuto bisogno del DNA di Adam Ryan per il confronto e che il detective Rob sarebbe con ogni probabilità svanito per sempre in una nuvola di fumo olezzante di scandalo. La cosa, però, non mi sembrava poi così grave. C'erano anzi dei momenti in cui, con una specie di cupo sollievo, non vedevo l'ora che accadesse. Poiché sapevo di non avere né le palle né l'energia per cavarmi fuori da quell'incredibile casino, mi sembrava l'unica via d'uscita o, per lo meno, la più semplice.

Sophie, la quale crede nella multifunzionalità dell'essere umano, mi telefonò dall'auto. «Hanno chiamato quelli del DNA» mi disse. «Cattive notizie. »

«Come sarebbe? » esclamai, raddrizzandomi e facendo ruotare la sedia per dare le spalle agli altri. «Cosa hanno detto? » Cercavo di mantenere un tono normale, ma O'Gorman smise di fischiettare e Cassie mise giù il documento che stava esaminando.

«Quei campioni di sangue sono inutilizzabili. Tutti e due, quello sulle scarpe e quello che ha trovato Helen. » Sentii che suonava il clacson. «Imbecille, ma dove cazzo vai? … Scegli una corsia, per Dio! … In laboratorio hanno provato di tutto, ma i campioni erano troppo degradati per ricavarne il DNA. Mi dispiace, ma non dire che non ti avevo avvertito. »

«Già » risposi, dopo una pausa. «È un caso che va così. Grazie, Sophie. »

Riattaccai e rimasi a guardare il telefono. Cassie, dall'altro lato della scrivania, chiese esitante: «Cos'ha detto? », ma io non risposi.

 

Quella sera, tornando a casa con il treno, chiamai Rosalind. Andava contro ogni mio istinto. Avrei voluto con tutte le mie forze lasciarla in pace fino quando non se la fosse sentita di parlare, lasciarle scegliere il momento invece che metterla con le spalle al muro, ma non avevo alternativa. Mi rimaneva solo lei.

Venne il giovedì mattina e scesi a prenderla alla reception, così come avevo fatto la prima volta, svariate settimane prima. Una parte di me temeva che cambiasse idea all'ultimo momento e non si presentasse. Provai quindi un grande sollievo quando la vidi seduta con aria pensosa, una guancia appoggiata a una mano e una lunga sciarpa rosa. Era bello vedere una persona giovane e graziosa. Non mi ero reso conto, fino a quel momento, di quanto grigi ed esausti fossimo diventati tutti noi. La sua sciarpa mi sembrò la prima nota di colore che mi colpisse da giorni a quella parte.

«Rosalind» chiamai, e il suo viso si illuminò.

«Detective Ryan! »

«Mi è venuto in mente soltanto adesso» dissi, «ma tu non dovresti essere a scuola? »

Mi lanciò uno sguardo cospiratorio. «I miei insegnanti stravedono per me, non mi faranno problemi. » Sapevo che avrei dovuto farle una ramanzina, dirle che era sbagliato saltare la scuola, ma non riuscii a non mettermi a ridere.

La porta dell'atrio si aprì e comparve Cassie. Si stava infilando il pacchetto delle sigarette nella tasca dei jeans. I nostri sguardi s'incrociarono per un attimo, lei lanciò un'occhiata a Rosalind, ci sfiorò e passò oltre, verso le scale.

Rosalind si morse il labbro e mi guardò, con aria preoccupata. «Alla sua collega dà fastidio che sia venuta qui, vero? »

«Be', non sono affari suoi» risposi. «Mi dispiace per il suo comportamento. »

«Oh, non importa» Rosalind sorrise debolmente. «Non le sono mai piaciuta, vero? »

«Il detective Maddox non ha nulla contro di te. »

«Non si preoccupi, detective Ryan, davvero. Ci sono abituata. Non piaccio a molte ragazze. Mia madre dice…» Abbassò la testa, imbarazzata. «Mia madre dice che è perché sono gelose, ma io non capisco come sia possibile. »

«Io invece sì » le dissi, sorridendo. «Ma non credo sia il caso del detective Maddox. Non ha niente a che vedere con te, okay? »

«Avete litigato? » domandò timidamente, dopo un attimo.

«Più o meno» risposi. «È una lunga storia. »

Tenni la porta aperta per farla passare, poi attraversammo l'acciottolato per andare verso i giardini. Rosalind aveva la fronte aggrottata. «Vorrei non starle così antipatica. L'ammiro molto, davvero. Non dev'essere facile per una donna fare il detective. »

«Non è facile in generale» dissi. Non avevo voglia di parlare di Cassie. «Ma ce la caviamo. »

«Sì, ma per una donna è diverso» obiettò, con un leggero tono di rimprovero.

«In che senso? » Era così giovane e diretta. Sapevo che si sarebbe offesa se mi fossi messo a ridere.

«Be', per esempio… il detective Maddox avrà almeno trent'anni, no? Vorrà sposarsi, avere figli, quelle cose lì. Le donne non possono permettersi di aspettare, come gli uomini. E facendo il detective non dev'essere facile avere una relazione seria, no? Credo che senta un po' di pressione. »

Provai una fastidiosa stretta di disagio allo stomaco. «Non credo che il detective Maddox sia un tipo materno» osservai.

Rosalind parve turbata, si mordicchiò il labbro inferiore con i piccoli denti bianchi. «Forse ha ragione» disse, cauta. «Ma sa, detective Ryan… a volte, quando siamo molto vicini a qualcuno, ci sono cose che ci sfuggono. Gli altri le vedono, noi no. »

Lo stomaco mi si contorse ancora di più. Una parte di me avrebbe voluto farla continuare con quel discorso, chiederle cosa aveva visto esattamente in Cassie che io non ero riuscito a vedere. Ma la settimana appena trascorsa mi aveva fatto capire con grande chiarezza che ci sono cose nella vita che è meglio non sapere. «La vita privata del detective Maddox non mi riguarda» dissi. «Rosalind…»

Ma lei era schizzata giù per uno dei vialetti, fin troppo curati per sembrare naturali, che si inoltrano in tante curve attraverso il prato. «Oh, guardi, detective Ryan, guardi! Non è bellissimo? »

I capelli le danzavano nel sole che filtrava dalle foglie e nonostante tutto mi venne da sorridere. La seguii. Ci serviva comunque un posto appartato per la nostra conversazione. La raggiunsi presso una panchina protetta dai rami, circondata da uccelli che cinguettavano nei cespugli lì intorno. «Sì, è bellissimo. Vuoi che parliamo qui? »

Si sedette sulla panchina e sollevò lo sguardo verso gli alberi con un piccolo sospiro di gioia. «Il nostro giardino segreto. »

Era una scena idilliaca e non mi andava di rovinarla. Per un attimo mi trastullai con l'idea di lasciar perdere l'obiettivo dell'incontro e di fare semplicemente una chiacchierata su come stava e su quanto fosse bella quella giornata e rimandarla a casa. Di essere, per qualche minuto, solo un ragazzo seduto al sole a parlare con una bella ragazza.

«Rosalind» cominciai, «devo chiederti una cosa. Non sarà piacevole, e vorrei tanto che ci fosse un altro modo per renderti le cose più semplici, ma temo non ci sia. Ho bisogno del tuo aiuto. Vuoi provarci? »

Il suo volto fu per un attimo attraversato da un'intensa emozione che sparì prima che riuscissi a metterla a fuoco. Strinse con forza le mani, aggrappandosi alla panchina. «Farò quello che potrò. »

«Tuo padre e tua madre» dissi, cercando di mantenere un tono rassicurante e garbato, «hanno mai fatto del male a te, o a tua sorella? »

Rosalind rimase senza fiato. Si portò la mano alla bocca di scatto e mi guardò, con gli occhi sgranati, finché non si rese conto di quello che aveva fatto. Quindi si tolse immediatamente la mano dal viso e strinse di nuovo la panchina. «No» rispose, con una vocina compressa e agitata. «Certo che no. »

«So che hai paura, ma posso proteggerti. Te lo prometto. »

«No. » Scosse la testa e si morse un labbro. Capii che era sull'orlo delle lacrime. «No. »

Mi chinai verso di lei e misi le mani sopra le sue. Aveva un profumo floreale, muschiato, vecchio di decenni per lei. «Rosalind, se qualcosa non va, dobbiamo saperlo. Sei in pericolo. »

«Va tutto bene. »

«Ed è in pericolo anche Jessica. So che ti prendi cura di lei, ma non puoi continuare a farlo da sola per sempre. Lascia che ti aiuti. »

«Lei non capisce» mormorò. La mano le tremava sotto la mia. «Non posso, detective Ryan. Non posso e basta. »

Quasi mi spezzò il cuore. Quella fragile, indomita ragazzina, in una situazione che avrebbe schiacciato persone con il doppio dei suoi anni, si teneva in piedi con le unghie e con i denti, in bilico su una corda di tenacia, orgoglio e rifiuto. Non le restava nient'altro ed ero io, proprio io, quello che stava tentando di spingerla giù.

«Mi dispiace» dissi, vergognandomi improvvisamente di me stesso. «Forse arriverà il momento in cui sarai pronta per parlarne e quando accadrà sarò lì con te. Ma fino ad allora… non avrei dovuto cercare di forzarti, perdonami. »

«Lei è così gentile con me» mormorò. «Non riesco a credere che possa essere così gentile. »

«Vorrei solo poterti aiutare» dissi. «Vorrei tanto conoscerti. »

«Io… io non mi fido facilmente delle persone, detective Ryan. Ma se dovessi fidarmi di qualcuno, mi fiderei di lei. »

Restammo lì seduti, in silenzio. La mano di Rosalind era morbida, sotto la mia, e lei non la ritraeva. Un uccellino, forse uno scricciolo, saltellò sul sentiero a pochi passi da noi. Lo guardammo lottare a lungo, scena assurda, con uno scarabeo di gran lunga troppo grosso per il suo becco. Alla fine rinunciò e volò di nuovo via tra i cespugli.

Rosalind girò la mano, lentamente, e intrecciò le dita con le mie. Mi sorrideva, e quel sorriso aveva un che di intimo e leggero, recava in fondo in fondo una specie di sfida nascosta.

Trattenni il respiro. Fu come una scossa elettrica. Come avrei voluto chinarmi su di lei, metterle una mano sulla nuca e baciarla. Immagini si affollarono nella mia mente – lenzuola d'albergo fragranti, quei riccioli che si scioglievano, bottoni tra le mie dita, il viso teso di Cassie. Desideravo quella ragazza, diversa da ogni altra che avevo conosciuto. La desideravo non a dispetto dei suoi cambi d'umore, delle sue ferite segrete, dei suoi goffi tentativi di nasconderle, ma proprio per tutte quelle cose. Mi vedevo riflesso nei suoi occhi, piccolo e abbagliato e sempre più vicino.

Aveva diciotto anni e poteva ancora darsi che fosse il mio unico testimone. Era nel momento di maggiore vulnerabilità di tutta la sua vita e per lei ero un idolo. Non meritava di scoprire nel modo peggiore il mio talento nel mandare sempre tutto a puttane. Mi morsi con forza l'interno della guancia e districai le dita dalle sue.

«Rosalind…»

Fu come se il suo viso si chiudesse. «Adesso devo proprio andare» disse con freddezza.

«Non voglio ferirti. È l'ultima cosa di cui hai bisogno. »

«Be', invece è proprio quello che ha fatto. » Si mise la borsa sulla spalla, senza guardarmi. La bocca era diventata una linea sottile.

«Rosalind, per favore aspetta…» Cercai di prenderle la mano ma la ritrasse con foga.

«Credevo che le importasse qualcosa di me. Evidentemente mi sbagliavo. Ha lasciato che lo pensassi solo perché voleva vedere se sapevo qualcosa di Katy. Voleva prendersi quello che le serviva, come tutti gli altri. »

«Non è vero» cominciai, ma se n'era già andata a passettini svelti e rabbiosi per il sentiero. Sarebbe stato inutile andarle dietro. Gli uccelli nei cespugli volavano via al suo passaggio con un gran frullio d'ali.

Mi girava la testa. Le detti qualche minuto per calmarsi, poi la chiamai sul cellulare, ma non rispose. Le lasciai un messaggio di balbettanti scuse sulla segreteria telefonica, poi riattaccai e mi lasciai cadere di nuovo sulla panchina.

«Merda» dissi ad alta voce, ai cespugli.

 

Credo sia importante sottolineare di nuovo, nonostante quello che potrei aver già sostenuto, che per la maggior parte dell'Operazione Vestale non fui assolutamente in uno stato d'animo che si potesse definire normale. Non è una scusante, ma di sicuro è un dato di fatto. Quando andai in quel bosco, per esempio, ci andai senza aver dormito, avendo mangiato ancora meno e con sulle spalle molta tensione accumulata e in corpo tanta vodka, e credo di dover precisare anche che è assolutamente possibile che gli eventi successivi siano stati un sogno o una specie di strana allucinazione. Non posso saperlo, non riesco a pensare a una risposta che possa essere rassicurante in un senso o nell'altro.

I ricordi e gli effetti collaterali più bizzarri sparirono, dopo quella notte nel bosco, si spensero definitivamente come una lampadina fulminata. Potreste pensare che fosse un sollievo, e sul momento, effettivamente, lo fu: per me ogni cosa che riguarda Knocknaree è comunque foriera di eventi terribili. Sto molto meglio senza. Avrei dovuto tenerlo ben presente, immagino, e non riesco a credere di essere stato così idiota da ignorarlo e andarmene a spasso spavaldo in quel bosco. Non ce l'ho mai avuta così tanto con me stesso. Fu solo molto tempo dopo, quando il caso fu chiuso e la polvere si fu posata sulle rovine, quando mi risospinsi nuovamente ai limiti della mia memoria senza trovarci nulla, che cominciai a pensare che non fosse stata una liberazione ma una grande occasione perduta, una perdita definitiva e devastante.

Tra l'altro, riuscivo di nuovo a dormire, e raggiungevo un livello di concentrazione talmente intenso da rendermi nervoso. La sera, quando tornavo dal lavoro, ero praticamente un sonnambulo. Crollavo sul letto come attratto da una potente calamita e mi ritrovavo nella stessa posizione, ancora vestito, quando la sveglia mi riportava alla vita reale dodici o tredici ore dopo. Una volta dimenticai di puntarla e mi svegliai alle due del pomeriggio, alla settima telefonata di una furibonda Bernadette.

Sognai una sola volta, quella settimana. Ero a Cnosso, un posto che avevo visto solo nei libri e nei documentari. Cercavo una ragazza, abbronzatura dorata, sacco a pelo, treccia resa ancora più bionda dal sole e lunghe gambe nervose come quelle di un puledro. «Ci siamo distratte solo per un attimo» balbettavano le sue amiche tra le lacrime, «e l'attimo dopo era scomparsa. » Ma adesso erano altrove e il labirinto era vuoto. Il cielo era così azzurro da sembrare quasi bianco. Un rapace si librava pigro su in alto, minuscolo per la distanza. Colonne spezzate nude sotto il sole, pietre che scintillavano nella caligine del cielo cretese, cicale che frinivano, un toro che muggiva tra gli ulivi dalle foglie scure… E tutt'intorno un silenzio ineffabile.

Correvo per vasti cortili e giù per scalinate di pietra fredde e sotterranee, tra giare panciute di terracotta alte come un uomo e pareti incise con asce bifronti. Chiamavo la ragazza ad alta voce, ripetutamente. La mia voce rimbalzava nel silenzio e veniva inghiottita dalle sue profondità senza lasciare traccia. Era una ragazza americana, una di quelle sfrontate ragazzine di provincia che con un lavoretto estivo, dopo il liceo, comprano un biglietto di sola andata e baciano tutti quelli che le dicono " ciao". Avrei voluto che Cassie fosse lì ad aiutarmi e mi chiedevo se per caso non stesse arrivando, ma poi mi ricordavo: era annegata, molto tempo prima, braccio sottile che si protendeva nell'acqua fredda e verde, e quelle perle erano i suoi occhi.

Affreschi pieni di crepe: delfini e rondini, tori dipinti con maestria, colti a metà di un balzo. Ero a piedi scalzi, le piante come cuoio, tanto che sentivo appena il terreno bollente. Dall'ombra di un trono di pietra scura che il tempo aveva reso lucido, qualcuno sussurrava il mio nome.

 

Il venerdì mattina, Sam e io fummo i primi ad arrivare in sala operativa. Avevo preso l'abitudine di arrivare prima che potevo per esaminare le chiamate ricevute e vedere di trovare una scusa per passare la giornata altrove. Pioveva forte. Cassie era probabilmente da qualche parte a imprecare contro la Vespa che non si metteva in moto.

«Notizie fresche» disse Sam, sventolandomi davanti agli occhi un paio di nastri. «Era loquace ieri sera, otto chiamate se Dio vuole…»

Era ormai una settimana che tenevamo sotto controllo il cellulare di Andrews e anche il telefono di casa, con risultati che cominciavano a produrre sinistri brontolii di disapprovazione da parte di O'Kelly. Di giorno, Andrews usava molto il cellulare, con chiamate veloci e cariche di testosterone, ma Sam, che ormai ne sapeva abbastanza di gestione immobiliare da potersi lanciare in un redditizio secondo lavoro, diceva che era tutta roba perfettamente legale. Affari a volte vagamente sordidi ma nulla che non fosse lecito aspettarsi. Di sera, si faceva portare costosi manicaretti da buongustaio dal Restaurant Express. " Rosticceria di lusso" la definiva sprezzante Sam. A volte chiamava la sua segretaria, che aveva una voce acuta e stizzosa, con quell'orribile accento strozzato che in questo paese viene contrabbandato per elegante. La chiamava a casa a ore impossibili e la metteva in croce per qualche documento. Una sera lei aveva reagito, esasperata, e aveva sgridato Andrews come farebbe una professoressa con un alunno: lui aveva fatto marcia indietro in modo quasi ridicolo, balbettando scuse da ubriaco. Una volta aveva anche chiamato una di quelle chat line a luci rosse di cui fanno la pubblicità la sera tardi in TV. Gli piaceva essere sculacciato, a quanto sembrava, e la frase " fammelo tutto rosso, Celestina" era immediatamente diventata un tormentone che aveva fatto il giro di tutta la squadra.

Mi tolsi il cappotto e mi sedetti. «Suonala ancora, Sam» dissi. Il mio senso dell'umorismo era peggiorato nelle ultime settimane, come d'altronde tutto il resto. Sam mi lanciò un'occhiata e mise uno dei nastri nel nostro obsoleto registratore.

Alle 20. 17, ora del computer, Andrews aveva ordinato lasagne con salmone affumicato, pesto e salsa di pomodorini secchi. «Mio Dio» commentai, allibito.

Sam rise. «Solo il meglio per il nostro ragazzo. »

Alle 20. 23 aveva chiamato suo cognato per mettersi d'accordo per una partita di golf la domenica pomeriggio, conversazione punteggiata da diverse battute di spirito. Alle 20. 41, di nuovo il ristorante per sbraitare contro chi aveva preso l'ordinazione perché la sua cena non era ancora arrivata. Aveva chiesto di parlare con il direttore e aveva minacciato di fare licenziare la dipendente per la sua incompetenza. Il tono cominciava a essere quello di un ubriaco. Poi dovevano essere arrivate le lasagne, perché seguiva un periodo di silenzio.

Alle 00. 08 aveva chiamato un numero di Londra, la sua ex moglie, spiegò Sam. Aveva la sbronza triste e voleva parlare con lei di cosa era andato storto tra di loro. «Lasciarti andare, Dolores, è stato il più grande errore della mia vita» le diceva, con la voce soffocata dalle lacrime. «Però forse ho fatto la cosa giusta. Sei una donna meravigliosa, lo sai, vero? Eri troppo perfetta per uno come me, troppo perfetta. Vero, Dolores? Non credi che tutto sommato io abbia fatto la scelta giusta? »

«Non lo so, Terry» rispondeva stancamente Dolores, «dimmelo tu». Si sentiva dai rumori di sottofondo che stava facendo qualcos'altro mentre parlava, sparecchiava o svuotava una lavastoviglie. Si udiva un rumore di piatti. Alla fine, quando Andrews si era proprio messo a piangere, lei aveva riattaccato. Due minuti dopo lui l'aveva richiamata, ringhiando: «Non ti permettere mai più di sbattermi il telefono in faccia, puttana che non sei altro, hai capito? Sono io, semmai, che ti chiudo il telefono in faccia! » e aveva riattaccato lui.

«Proprio un gentiluomo» commentai.

«Un vero coglione» rincarò Sam. Sprofondò nella poltroncina rovesciando la testa all'indietro e mettendosi le mani in faccia. «Un grandissimo coglione. Mi resta solo una settimana, e che cazzo faccio se andiamo avanti così, a pizza, sushi e cuori infranti? »

Il nastro fece un altro bip. «Pronto? » disse una profonda voce maschile, con tono assonnato.

«Chi è che parla? » chiesi.

«Numero di cellulare sconosciuto» disse Sam, senza togliersi le mani dalla faccia. «Un quarto alle due. »

«Piccolo pezzo di merda» disse Andrews, sul nastro. Era molto ubriaco. Sam si raddrizzò sulla sedia.

Ci fu una breve pausa. Poi la voce profonda disse: «Sbaglio o ti avevo detto di non chiamarmi più? »

«Wow» commentai.

Sam fece un verso disarticolato. Allungò la mano come per afferrare il registratore, ma si trattenne e si limitò ad avvicinarlo a noi. Chinammo la testa, per ascoltare meglio. Sam tratteneva il respiro.

«Non me ne frega un beato cazzo di quello che mi hai detto. » La voce di Andrews si alzò di tono. «Mi hai detto un sacco di stronzate. Mi avevi detto che si sarebbe sistemato tutto, te lo ricordi questo? Invece ci sono tutte quelle cazzo di… citazioni…»

«Ti ho già detto di darti una calmata e lasciare che sia io a sistemare tutto, e te lo ripeto: è tutto sotto controllo. »

«Tutto sotto controllo un cazzo! Non ti permettere di parlarmi in questo modo, come se fossi un tuo sca… sca… scagnozzo di merda. Lo scagnozzo sei tu, cazzo. Sono io che ti pago. Migliaia e migliaia di cazzo di… " Oh ci vogliono altri cinque testoni per questo, Terry, e qualche altro testone per il nuovo assessore, Terry…" Tanto valeva che li buttassi nel cesso. Se tu fossi un mio dipendente ti avrei già dato un calcio nel culo, senza tante storie. »

«Hai avuto tutto quello che ti ho promesso, questo è solo un ritardo da niente. E andrà tutto come deve andare. Non cambia nulla. Hai capito bene quello che ti sto dicendo? »

«Andrà tutto come deve andare un cazzo, doppiogiochista di merda. Ti sei fregato i miei soldi e te la sei svignata. Adesso mi ritrovo con un mucchio di terreni che non valgono un cazzo e la polizia alle calcagna. E poi come fanno a… come cazzo fanno a sapere che sono miei quei terreni, eh? E io che mi ero fidato. »

Ci fu una breve pausa. Sam respirò nervosamente, poi trattenne di nuovo il respiro. La voce profonda chiese, improvvisamente: «Da quale telefono mi chiami? »

«Non sono cazzi tuoi» rispose Andrews, stizzito.

«Cosa ti ha chiesto la polizia? »

«Mi hanno chiesto… di quella ragazzina. » Andrews soffocò un rutto. «Quella ragazzina che è stata ammazzata. Suo padre è uno di quelli che mi hanno citato… quel gran figlio di puttana pensa che io c'entri qualcosa. »

«Adesso tu chiudi questo telefono» disse la voce profonda in tono gelido. «Parla con la polizia solo in presenza di un avvocato e non ti preoccupare per le citazioni. E guai a te se mi telefoni di nuovo. » Ci fu un clic e la conversazione finì.

«Be'» dissi dopo un momento. «Questa roba non era né pizza, né sushi e nemmeno cuori infranti. »

Sam non disse nulla. Le ultime due registrazioni si riferivano a chiamate verso lo stesso cellulare sconosciuto che adesso era spento, senza segreteria telefonica. " Il cliente da lei chiamato non è al momento raggiungibile" fu la risposta di una scialba voce femminile alla prima. " La preghiamo di riprovare più tardi. " Alla seconda, si sentì il ruggito strozzato di rabbia di Andrews che sbatteva giù il telefono.

«Be'» dissi, «congratulazioni. » Non era una prova accettabile in tribunale, ma era sufficiente per mettere Andrews sotto pressione. Cercavo di essere generoso, ma il Rob autocommiserativo che era in me era già lì pronto a dire che era sempre la solita storia: mentre la mia parte di indagine naufragava in una serie senza precedenti di false piste e disastri vari, Sam continuava felicemente la serie positiva, un successo dopo l'altro. Se fossi stato io a seguire la pista Andrews, di sicuro quest'ultimo non si sarebbe messo a telefonare a nessuno, tranne che all'anziana madre. «A questo punto O'Kelly smetterà di romperti le palle. »

Sam non aveva ancora aperto bocca. Mi voltai verso di lui. Era così pallido da essere quasi verdastro.

«Cosa c'è? » gli chiesi, allarmato. «Va tutto bene? »

«Mai stato meglio» rispose. «Altroché. » Si chinò e spense il registratore. La mano gli tremava leggermente e vidi una patina lucida e malsana sul suo volto.

«Oh, Cristo» dissi. «No, non stai bene per niente. » L'improvvisa eccitazione per quella vittoria poteva avergli fatto venire un attacco di cuore, un ictus o chissà cosa. Magari aveva una qualche malformazione congenita mai diagnosticata. Nella mitologia delle squadre di polizia circolavano storie del genere, di detective che stavano alle calcagna di un sospetto, superavano difficoltà epiche e poi ci restavano secchi proprio quando scattavano le manette. «Hai bisogno di un dottore? »

«No» disse bruscamente. «No. »

«E allora che diavolo c'è? »

Un istante dopo, capii. Mi stupii, in effetti, di non esserci arrivato prima. Il timbro della voce, l'accento, l'inflessione: li avevo già sentiti, li sentivo ogni giorno, ogni sera. Un po' smussati, senza quel lato abrasivo, ma la somiglianza c'era ed era inequivocabile.

«Ma quello era…» cominciai. «Non era per caso tuo zio? »

Gli occhi di Sam saettarono dai miei alla porta, ma non c'era nessuno. «Sì » rispose, dopo un attimo. «Era lui. » Respirava in fretta, con affanno.

«Ne sei proprio sicuro? »

«Conosco la sua voce. Ne sono certo. »

Per quanto sia spiacevole dirlo, il mio primo istinto fu quello di mettermi a ridere. Era sempre stato così onesto («Quello che ho nel cuore ho sulle labbra, ragazzi»), solenne come un marine al discorso sulla bandiera in uno di quegli orrendi film di guerra americani. All'inizio mi aveva fatto tenerezza – quella fiducia assoluta è una cosa che si può perdere una volta sola, come la verginità, e non avevo mai conosciuto nessuno che fosse riuscito a tenersela oltre i trent'anni – ma adesso avevo l'impressione che Sam fosse andato avanti felice e contento nella vita per pura e semplice fortuna. Mi era difficile raggranellare il necessario senso di umana comprensione per averlo visto scivolare su una buccia di banana e finire gambe all'aria.

«E adesso che cosa farai? » chiesi.

Mosse la testa da una parte all'altra, con gli occhi chiusi, sotto le luci al neon. Doveva averci già pensato: eravamo gli unici due nella stanza, un favore e un dito premuto sul tasto " record" e sarebbero rimaste soltanto le altre telefonate, compresa quella sulla partita di golf di domenica.

«Mi lasci il weekend? » disse lui. «Lunedì porto questa roba da O'Kelly. Adesso… non me la sento. Non riesco a essere lucido. Ho bisogno di un po' di tempo. »

«Certo» risposi. «Parlerai con tuo zio? »

Sam mi guardò. «Farebbe sparire tutte le prove, non credi? Prima che inizi l'indagine. »

«Sì, mi sa di sì. »

«Ma se non gli dico niente e scopre che avrei potuto avvertirlo e non l'ho fatto…»

«Mi dispiace» dissi. Mi chiesi, fugacemente, dove diavolo fosse finita Cassie.

«Sai qual è la cosa pazzesca? » disse Sam, dopo un po'. «Che se tu mi avessi chiesto stamattina da chi sarei andato a chiedere consiglio se mi fosse capitata una storia come questa, avrei risposto Red. »

Non riuscii a pensare a nulla da replicare. Guardai il suo volto dai lineamenti marcati e gradevoli e improvvisamente mi sentii stranamente distante da lui, da tutta la scena. Fu una sensazione come di vertigine, come se, dall'alto, guardassi le cose svolgersi in una scatola, giù, cento metri più in basso. Rimanemmo seduti lì per parecchio tempo, fino a quando non entrò O'Gorman e si mise a berciare qualcosa che aveva a che fare con una partita di hurling. Sam si mise il nastro registrato in tasca, prese le sue cose e se ne andò.



  

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