Хелпикс

Главная

Контакты

Случайная статья





Tana French 27 страница



Il picchiettio si andava estendendo a tutto il bosco, si alzava e si abbassava, si avvicinava da ogni lato. Era nei rami alti sopra la mia testa, nella boscaglia dietro di me, piccolo, rapido e preciso. Mi si drizzarono i capelli sulla nuca. " Pioggia" mi dissi con quello che era rimasto della mia mente, " è solo pioggia", ma non riuscivo a sentirne nemmeno una goccia. Lontano, dall'altra parte del bosco, si levò un urlo, un suono acuto, insensato.

Avanti Adam, sbrigati, sbrigati…

L'oscurità davanti a me si stava muovendo, si addensava. C'era un rumore, come di vento che facesse stormire le foglie, un forte vento che investiva il bosco per cercarsi un sentiero. Pensai alla torcia, ma le dita, già attorno all'impugnatura, erano raggelate. Sentivo che quel filo d'oro si tendeva, tirava. Qualcosa dall'altra parte della radura respirò, qualcosa di grosso.

Giù al fiume. Fermata in scivolata, i rami dei salici che ondeggiavano e l'acqua che sparava schegge di luce come milioni di piccoli specchi, accecanti, stordenti. Occhi dorati dalle ciglia lunghe come quelli dei gufi.

Corsi. Mi liberai a fatica dall'impaccio del sacco a pelo e mi lanciai nel bosco, lontano dalla radura. Rovi mi attanagliavano le gambe, ghermivano i miei capelli, battiti d'ala mi esplodevano nelle orecchie. Urtai violentemente con la spalla contro il tronco di un albero e rimasi senza fiato. Buche e avvallamenti invisibili mi si aprivano improvvisi sotto i piedi così che non riuscivo a correre abbastanza velocemente. Le gambe sparivano fino alle ginocchia nel sottobosco. Era come se stesse realizzandosi il più tipico degli incubi dell'infanzia. Dell'edera rampicante mi finì sulla faccia e urlai, credo. Non sarei mai uscito da quel bosco, questo lo sapevo, avrebbero ritrovato il sacco a pelo e… per un istante visualizzai, come nella realtà, Cassie con la felpa rossa che si inginocchiava nella radura tra le foglie che cadevano dagli alberi e toccava il tessuto con una mano guantata… e poi più nulla, per sempre.

Poi vidi uno spicchio di luna nuova tra le nuvole in movimento e seppi di essere fuori, di essere allo scavo. Il terreno era insidioso, si scivolava e cedeva sotto il peso. Inciampai, agitai le braccia scompostamente per mantenere l'equilibrio e mi scorticai lo stinco contro una sporgenza del vecchio muro, ma rimasi in piedi e continuai a correre. Sentivo nelle orecchie un respiro affannoso ma non avrei saputo dire se era il mio. Come tutti i detective, avevo dato per scontato che fossi io il cacciatore. Non mi aveva neppure lontanamente sfiorato l'idea che potessi essere invece la preda.

La Land Rover, bianca e scintillante, lì nell'oscurità, mi apparve come una meravigliosa chiesa pronta a offrire riparo. Mi ci vollero due o tre tentativi prima di riuscire ad aprire la portiera. Feci anche cadere le chiavi, per cui dovetti cercare freneticamente tra foglie ed erba secca, guardandomi selvaggiamente alle spalle, quasi certo ormai di non riuscire più a trovarle, fino a quando non mi ricordai di avere la torcia ancora stretta in pugno. Alla fine mi arrampicai dentro, sbattei il gomito contro il volante, chiusi tutte le portiere e rimasi lì a sedere, ansimando per un po' d'aria e sudando copiosamente. Tremavo troppo per mettermi alla guida e dubito anche che sarei riuscito ad andarmene di lì in retromarcia senza sbattere contro qualcosa. Trovai le sigarette e me ne accesi una. Sentivo il disperato bisogno di qualcosa da bere, di qualcosa di forte, o anche di una bella canna. Avevo i jeans sporchi di fango all'altezza delle ginocchia ma non ricordavo di essere caduto.

Quando le dita furono sufficientemente salde per premere i numeri chiamai Cassie. Doveva essere già ben oltre mezzanotte, forse molto più tardi, ma rispose al secondo squillo e sembrava sveglia e pimpante. «Ciao, come va? »

Per un orribile momento pensai di non riuscire a tirare fuori la voce. «Dove sei? »

«Sono arrivata a casa da una ventina di minuti. Emma, Susanna e io siamo andate al cinema e poi a cena al Trocadero e, Dio, ci hanno servito un vino rosso sublime, incredibile. C'erano tre tipi che hanno cercato di attaccare bottone ed Emma diceva che erano attori e che ne aveva visto uno in TV in quella serie ospedaliera…»

Era allegrotta ma non proprio ubriaca. «Cassie» la interruppi, «sono a Knocknaree. Allo scavo. »

Una pausa, brevissima, poi, con voce calma e diversa, mi chiese: «Vuoi che venga a prenderti? ».

«Sì, grazie. » Non me ne ero reso conto finché non me l'aveva domandato, ma era proprio quello il motivo per cui l'avevo chiamata.

«Okay, vengo subito. » Riattaccò.

Ci mise un'eternità ad arrivare, tanto perché cominciassi ad andare nel panico e a immaginare scenari da incubo: era stata spiaccicata da un camion sulla tangenziale, aveva bucato e l'avevano rapita dei trafficanti di esseri umani lungo la strada… Trovai la forza di estrarre la pistola e mettermela in grembo, oltre al buonsenso di non togliere la sicura. Accesi una sigaretta dopo l'altra e gli occhi mi lacrimavano per l'abitacolo pieno di fumo. Fuori, delle cose frusciavano e si muovevano nella boscaglia, ramoscelli si spezzavano. Non potevo fare a meno di voltarmi ora da una parte ora dall'altra, con il cuore che batteva all'impazzata e la mano che stringeva la pistola. Ero certo a volte di vedere un viso al finestrino, feroce e ghignante, ma non c'era mai nessuno. Accesi la luce interna ma mi faceva sentire troppo esposto, un uomo primitivo e i predatori attirati dal fuoco e in attesa oltre il cerchio, così la spensi subito.

Alla fine sentii il ronzio della Vespa e vidi il faro spuntare da dietro la collina. Rimisi la pistola nella fondina e aprii la portiera. Non volevo che Cassie mi vedesse trafficarci. Dopo l'oscurità, quella luce era sconvolgente, surreale. Si fermò in strada e appoggiò il piede a terra. Mi chiamò con un " ciao".

«Ciao» dissi, scendendo goffamente dall'auto. Avevo le gambe rigide e contratte: probabilmente ero stato tutto il tempo con i piedi puntati contro il pavimento. «Grazie. »

«Nessun problema. Ero sveglia. » Era arrossata e aveva gli occhi lucidi per il vento. Quando mi avvicinai, percepii il freddo che emanava. Si tolse lo zainetto dalle spalle e ne estrasse un altro casco. «Tieni. »

Con il casco non sentii più nulla, solo il rumore sommesso del sangue che mi pulsava nelle orecchie. L'aria scivolava dietro di me, scura e fresca come acqua. Le luci delle auto e le insegne al neon mi passavano oltre come pigre scie. La cassa toracica di Cassie era sottile e solida tra le mie mani, e si spostava quando lei cambiava marcia o si piegava per curvare. Era come se la Vespa galleggiasse sulla strada. Mi sarebbe piaciuto che ci trovassimo su una di quelle infinite freeway americane dove puoi andare avanti per tutta la notte, per sempre.

 

Stava leggendo quando l'avevo chiamata. Il futon era già stato tirato fuori, con il piumino patchwork e i cuscini bianchi; Cime tempestose e la maglietta di varie taglie più grande erano ai piedi del letto. C'erano pile semiorganizzate di materiale del lavoro: una foto del segno della legatura sul collo di Katy mi saltò agli occhi, rimase nell'aria come un'immagine residua. Il resto era sparso sul tavolino basso e sul divano, coperto dagli abiti che Cassie aveva indossato per uscire: un paio di jeans scuri e stretti, un top di seta rosso con ricami in oro, di quelli che si allacciano al collo e lasciano la schiena nuda. L'abat‑ jour, una cosina tondeggiante con il paralume in carta gialla, dava alla stanza un calore accogliente.

«Da quando non mangi? » chiese Cassie.

Mi ero dimenticato dei sandwich, forse erano da qualche parte nella radura. Così come il sacco a pelo e il thermos. Avrei recuperato il tutto la mattina dopo, insieme all'auto. Al pensiero di tornarci, foss'anche di giorno, un brivido mi corse velocemente lungo il collo. «Non lo so bene» risposi.

Cassie cercò nell'armadio e mi passò una bottiglia di brandy e un bicchiere. «Un goccio mentre ti preparo qualcosa. Uova e toast? »

A nessuno dei due piace il brandy, e infatti la bottiglia era ancora chiusa e polverosa, forse un premio di qualche pesca natalizia o roba del genere. Ma una piccola e più obiettiva parte della mia mente era sicura che Cassie avesse ragione: ero sotto shock. «Sì … fantastico» dissi. Mi sedetti sul bordo del futon – il pensiero di liberare il divano da tutta quella roba sembrava complicato oltre ogni immaginazione – e rimasi a fissare la bottiglia di brandy per un po', finché non mi resi conto che, teoricamente, avrei dovuto aprirla.

Ne buttai giù un po' troppo e tossii (Cassie mi lanciò un'occhiata ma non aggiunse nulla). Ne sentii l'impatto, lente strisce dolci e brucianti di calore che si avventuravano nelle mie vene. La lingua mi pulsava, forse c'era stato un momento in cui me l'ero morsicata. Me ne versai un altro po' e lo sorseggiai con più cautela. Cassie si muoveva con maestria nel cucinotto: una mano agli odori da un mobiletto, l'altra alle uova dal frigo, l'anca per richiudere un cassetto. Aveva lasciato i Cowboy Junkies a volume basso. Di solito mi piacciono, ma quella sera continuavo a sentire cose nascoste sotto la linea di basso, rapidi bisbigli, richiami, un battito della sezione ritmica che non ci sarebbe dovuto essere. «Possiamo spegnere? » domandai, quando non ne potei proprio più. «Eh? »

Lasciò l'osservazione della padella e si girò con un cucchiaio di legno in mano. «Sì, certo» rispose dopo un istante. Spense lo stereo, prese il pane, tostato nel frattempo, e ci mise sopra le uova. «Ecco qua. »

Quel profumo mi fece ricordare che avevo fame. Buttai giù il tutto a grandi morsi, fermandomi a stento per respirare. Era pane da toast ai cereali e le uova erano infarcite di spezie ed erbe aromatiche: non avevo mai mangiato niente di più buono e gustoso. Cassie era seduta a gambe incrociate sul futon e mi osservava alle prese con il toast. «Ancora? » chiese, quando ebbi finito.

«No» risposi. Tanto e troppo in fretta. Lo stomaco protestava con crampi malefici. «Grazie. »

«Cosa è successo? » mi domandò con calma. «Ricordi qualcosa? »

Cominciai a piangere. Piango così raramente – mi sarà capitato una volta o due da quando avevo tredici anni, e credo che entrambe le volte fossi ubriaco, e quindi non contano – che mi ci volle un po' per capire cosa stava accadendo. Mi passai una mano sulla faccia e mi osservai le dita bagnate. «No» risposi. «Nulla che possa essere utile. Ricordo tutto di quel pomeriggio. Ricordo che andammo nel bosco, ricordo le cose di cui parlammo, ricordo che sentimmo qualcosa… non so cosa… e di esserci messi a correre per andare a vedere cosa fosse… E poi il panico. Cazzo, il panico più totale. » Mi si incrinò la voce.

«Ehi» fece Cassie. Si allungò sul futon e mi mise una mano sulla spalla. «È un grosso passo avanti, tesoro. La prossima volta ti ricorderai il resto. »

«No» la contraddissi. «No, non andrà così. » Non sarei mai riuscito a spiegarlo e ancora adesso non so perché ne fossi così sicuro. Era stato il mio asso nella manica, l'ultima pallottola, e l'avevo sprecata. Mi presi il viso tra le mani e piansi come un bambino.

Non mi abbracciò né cercò di consolarmi, e gliene fui grato. Se ne rimase lì composta, a massaggiarmi la spalla con il pollice mentre continuavo a piangere. E non piangevo per quei tre bambini, non posso dire una cosa del genere, ma per la distanza impossibile da colmare che mi divideva da loro, per i milioni di chilometri che separavano quei pianeti. Per tutto quello che avevamo avuto da perdere. Eravamo stati così piccoli, così sconsideratamente certi che insieme avremmo potuto cimentarci contro il buio e le complesse minacce del mondo adulto, buttarci ridendo nella mischia.

«Scusami» dissi alla fine. Mi raddrizzai e mi asciugai la faccia col dorso della mano.

«Per cosa? »

«Per avere fatto la figura dell'idiota. Non era mia intenzione. »

Cassie scrollò le spalle. «Siamo pari. Così adesso sai come mi sento quando faccio quei sogni e tu mi devi svegliare. »

«Sì? » Non mi era mai venuto in mente.

«Sì. » Rotolò sul futon, allungò una mano verso un pacchetto di fazzoletti di carta che stavano nel comodino e me lo passò. «Soffia. »

Feci un sorriso stiracchiato e mi soffiai il naso. «Grazie, Cass. »

«Come va? »

Inspirai profondamente ed ebbi un fremito, poi, senza che potessi trattenermi, sbadigliai. «Sto bene. »

«Sei quasi pronto a crollare? »

La tensione stava lentamente scivolandomi via dalle spalle e mi sentivo più stanco di quanto non fossi mai stato in tutta la mia vita, ma continuavano a esserci piccole ombre che comparivano rapide dietro le palpebre e tutti gli scricchiolii e i rumori della casa, di cui in altri momenti non mi sarei accorto, ora mi facevano sussultare. Sapevo che quando Cassie avesse spento la luce e mi fossi ritrovato solo sul divano, l'aria si sarebbe riempita di cose senza nome che premevano, muovevano la bocca senza emettere suoni e si agitavano. «Credo di sì » risposi. «Ti dispiace se dormo qui? »

«Nessun problema. Ma sappi che se ti metti a russare finisci dritto dritto sul divano. » Si drizzò a sedere, sbattendo le palpebre, e cominciò a togliersi le mollette dei capelli.

«Niente russamenti» promisi. Riuscii a togliermi le scarpe e i calzini, ma svestirmi mi parve impresa impossibile. Mi infilai sotto il piumino con tutti i vestiti addosso.

Cassie si tolse la felpa, scivolò sotto le coperte accanto a me e i suoi riccioli si sparsero, ribelli. Senza neppure pensare a quello che facevo, l'abbracciai e lei si rannicchiò con la schiena contro di me.

«'Notte, piccola» le dissi. «Grazie di nuovo. »

Mi diede una pacca impacciata sul braccio e si allungò per spegnere l'abat‑ jour. «'Notte, scemo. Dormi bene. E svegliami se hai bisogno. »

I suoi capelli sul mio volto avevano un dolce odore di verde, di foglie di tè. Sistemò la testa sul cuscino e sospirò. Era calda, compatta e a me vennero in mente l'avorio lucido, le castagne lucenti: la soddisfazione pura di quando hai nella mano qualcosa che ci sta alla perfezione. Non ricordavo l'ultima volta che avevo tenuto stretto qualcuno in quel modo.

«Sei sveglia? » mormorai, dopo un po'.

«Sì » rispose Cassie.

Restammo immobili. Sentii l'aria intorno a noi cambiare, sbocciare e rabbrividire come su una strada rovente. Il cuore mi batteva all'impazzata, o forse era il suo che batteva contro il mio petto, non ne sono certo. La feci voltare tra le mie braccia e la baciai, e dopo un istante lei ricambiò il bacio.

So di aver detto che scelgo sempre di sdrammatizzare rispetto all'irrevocabile e, sì, quello che intendevo è che sono sempre stato un codardo, ma mentivo: non sempre. Ci fu quella notte. Ci fu quella volta.

 

 

Una volta tanto fui il primo ad alzarmi. Era presto, prestissimo, le strade erano ancora silenziose e il cielo era azzurro e punteggiato d'oro pallido, perfetto come in un fermo immagine cinematografico. Cassie, lassù sui tetti, senza nessuno che potesse guardare dentro attraverso la finestra, non chiudeva quasi mai le tende. Potevo aver dormito non più di un'ora o due. Da qualche parte uno stormo di gabbiani lanciò strida selvagge e lamentose.

In quella luce sobria e discreta l'appartamento aveva un'aria abbandonata e triste: piatti e bicchieri della sera prima sparsi sul tavolino basso, una lieve corrente d'aria che sfogliava le pagine dei miei appunti, il mio maglione abbandonato sul pavimento, macchia scura, e lunghe ombre oblique dappertutto. Sentii una fitta sotto lo sterno, così intensa e fisica che pensai dovesse essere sete. C'era un bicchiere d'acqua sul comodino, lo presi e bevvi, ma il dolore rimase.

Pensai che il mio movimento avesse svegliato Cassie, ma lei non si mosse. Dormiva profondamente nell'incavo del mio braccio, le labbra semiaperte, una mano abbandonata sul cuscino. Le scostai i capelli dalla fronte e la svegliai con un bacio.

 

Non ci alzammo fino alle tre circa. Il cielo era diventato grigio e pesante, un brivido mi trafisse uscendo dal calore delle lenzuola. «Ho una fame da lupo» disse Cassie, abbottonandosi i jeans. Era molto bella quel giorno, con quei capelli arruffati e le labbra piene, lo sguardo sognante e misterioso di bambina assorta in una sua fantasia, e quella nuova radiosità, che stonava con la tristezza del pomeriggio, in qualche modo mi metteva a disagio. «Uno spuntino veloce? »

«No, grazie» dissi. Era la nostra routine del weekend quando mi fermavo a dormire da lei: una colazione irlandese come si deve e una lunga passeggiata sulla spiaggia, ma non potevo sopportare né il pensiero angoscioso di parlare di quello che era accaduto la sera prima né la pesante complicità che implicava evitarlo. L'appartamento mi parve all'improvviso minuscolo e claustrofobico. Avevo graffi e lividi in posti strani: sullo stomaco, sul gomito, e un solco piccolo ma profondo e doloroso su una coscia. «No, è meglio che vada a recuperare la macchina. »

Cassie infilò la testa in una T‑ shirt e, attraverso la stoffa, disse con apparente naturalezza: «Vuoi un passaggio? ». Ma avevo colto il breve lampo di sorpresa nei suoi occhi.

«Credo che prenderò l'autobus» dissi. Trovai le scarpe sotto il tavolino basso. «Cammino volentieri un po'. Ti chiamo dopo, va bene? »

«D'accordo» disse lei allegra, ma sapevo che era successo qualcosa tra noi, qualcosa di estraneo, sottile e pericoloso. Sulla porta, ci abbracciammo brevemente, ma stretti stretti.

Feci un tentativo poco convinto di aspettare l'autobus, ma ero irrequieto e smanioso e dopo dieci, quindici minuti mi dissi che era troppo impegnativo. Due autobus diversi, gli orari della domenica… Rischiavo di metterci tutto il giorno. La verità era che non avevo nessuna voglia di andare a Knocknaree senza essere certo che ci fosse un bel gruppo di archeologi rumorosi e pieni di energia. Pensare a quel posto, deserto e silenzioso sotto un cielo basso e grigio, ora mi faceva venire una leggera nausea. Presi una tazza di cattivo caffè al bar di un distributore di benzina e mi diressi a piedi verso casa. Monkstown è a sette, otto chilometri da Sandymount, ma non avevo nessuna fretta: a casa avrei trovato di sicuro Heather, con della roba verdastra e radioattiva sulla faccia e una puntata di Sex and the City a tutto volume, impaziente di raccontarmi delle sue conquiste allo speed‑ date e di sapere dove fossi stato e come mai i miei jeans erano tutti infangati e dove fosse finita la mia auto. Mi sentivo come se qualcuno mi avesse sganciato sulla testa una serie infinita di bombe di profondità.

Ero certo di aver appena commesso uno degli errori più grandi della mia vita. Mi era già capitato di andare a letto con la persona sbagliata, ma non avevo mai fatto niente di neppure lontanamente accostabile a quel monumentale livello di stupidità. La risposta standard all'accadere di quel genere di cose, lo sapevo, era di iniziare una " relazione" o di tagliare tutti i ponti. Avevo tentato entrambe le strade, in passato, con successi alterni, ma questa volta smettere di rivolgere la parola a una collega non era fattibile, e quanto alla possibilità di impegnarsi in una relazione amorosa… Anche se non fosse stato contrario al regolamento, ero un tipo che non trovava il tempo di farsi da mangiare, di dormire o di andare a comprare la carta igienica, per non dire che intanto brancolavo nel buio per quello che riguardava un'indagine e che c'era stato bisogno che venissero a salvarmi da un sito archeologico nel pieno della notte. Il pensiero di essere il fidanzato di qualcuna, con tutte le responsabilità e le complicazioni che la cosa comportava, mi faceva solo venire voglia di rannicchiarmi in un angolo a mettermi a frignare.

Ero così stanco che non sentivo più i piedi quando toccavano il marciapiede, mi sembrava che appartenessero a qualcun altro. Il vento mi soffiava sul viso una pioggerellina sottile e intanto pensavo, con un malsano e crescente senso di catastrofe, a tutte le cose che non avrei più potuto fare: rimanere alzato tutta la notte a ubriacarmi con Cassie, a parlare con lei delle donne che avevo conosciuto, dormire sul suo divano. Non ci sarebbe più stato modo di vederla come Cassie‑ e‑ solo‑ Cassie, una di noi anche se di aspetto molto più gradevole, non ora che l'avevo vista come l'avevo vista. Ogni luminoso angolo del nostro paesaggio comune si era trasformato in un oscuro terreno minato, carico di sfumature e implicazioni enormi e traditrici. Me la ricordavo, ed era stato solo qualche giorno prima, che pescava l'accendino dalla tasca del mio cappotto, mentre eravamo seduti nei giardini del Castello, senza interrompere quello che stava dicendo, con un gesto che mi era piaciuto per la sicurezza e la naturalezza che ci aveva messo.

So che suonerà incredibile dal momento che tutti, dai miei genitori a quell'idiota di Quigley, sembravano aspettarselo, ma io non avrei mai creduto che sarebbe successo. Dio, quanto fummo presuntuosi, incoscienti, arroganti, sicuri della nostra certezza di rappresentare un'eccezione alla regola più vecchia del mondo. Giuro che mi coricai innocente come un bambino, che Cassie rovesciò la testa per togliersi le mollette e che fece delle smorfie quando s'impigliarono nei capelli, che misi i calzini dentro le scarpe come facevo sempre perché lei non ci inciampasse la mattina dopo. So che direte che la nostra fu ingenuità voluta, ma se vi va di credere a una sola delle cose che vi racconto, credete a questa: nessuno dei due se lo sarebbe mai immaginato.

Quando arrivai a Monkstown, l'idea di tornare a casa mi sembrava ancora peregrina. Mi incamminai verso Dun Laoghaire e mi sedetti sul muretto alla fine del molo, a guardare le coppie di signorotti che facevano la loro passeggiata salutare della domenica pomeriggio, incontravano altre coppie ed emettevano urletti di gioia, fino a quando non fece buio e il vento non cominciò a infilarsi sotto il cappotto e un poliziotto di pattuglia non mi lanciò un'occhiata sospettosa. Non ho idea del perché, ma pensai di chiamare Charlie; non avevo, però, il suo numero sul cellulare e comunque non ero certo di sapere cosa dire.

 

Quella notte dormii come se mi avessero dato una botta in testa. Quando andai al lavoro, la mattina seguente (treno affollato di facce grigie e stanche, un tizio in tuta con la mascella pendula che mi sgranocchiava nelle orecchie patatine al formaggio e alla cipolla, tutto intento e con un'espressione bovina, e che mi veniva addosso ogni volta che il treno ripartiva), ero ancora intontito e con gli occhi gonfi, e la sala operativa mi parve strana, diversa per qualcosa che non riuscivo a identificare con esattezza. Era come se, attraverso una qualche fessura, fossi scivolato in una realtà parallela e ostile. Cassie aveva lasciato i documenti del vecchio caso sparpagliati sulla sua parte di scrivania. Mi sedetti e cercai di mettermi al lavoro, ma non riuscivo a concentrarmi. Quando arrivavo alla fine di una frase ne avevo dimenticato l'inizio e dovevo ricominciare da capo.

Entrò Cassie, con le guance arrossate dal vento e i riccioli scompigliati sotto un cappellino scozzese rosso. «Ciao» disse. «Come va? »

Mi passò dietro e mi arruffò i capelli. Non riuscii a evitarlo: sussultai e sentii la sua mano fermarsi a mezz'aria per una frazione di secondo.

«Bene» risposi.

Appese la borsa alla spalliera della sedia. Con la coda dell'occhio vedevo che mi guardava. Tenni la testa bassa. «Le cartelle cliniche di Rosalind e Jessica stanno arrivando al fax di Bernadette. Dice di andarle a prendere tra qualche minuto, e la prossima volta di dare il numero di fax della sala operativa. E tocca a te occuparti della cena. Ma ho solo del pollo, quindi se tu e Sam volete qualcos'altro…»

Il tono era noncurante, ma sotto sotto c'era un esile abbozzo di domanda. «Veramente» dissi, «non riesco a farcela per cena stasera. Ho un impegno. »

«Ah, okay. » Cassie si tolse il berretto e si passò le dita tra i capelli. «Allora magari una birra, se non finiamo tardi? »

«Stasera non posso proprio. Mi dispiace. »

«Rob» disse lei dopo un attimo, ma non sollevai lo sguardo. Per un attimo pensai che sarebbe andata avanti lo stesso, ma poi la porta si aprì e Sam entrò di slancio, fresco e baldanzoso dopo il suo weekend in campagna, con un paio di nastri registrati in una mano e un fascio di fax nell'altra. Non ero mai stato così felice di vederlo.

«Buongiorno, ragazzi. Questi sono per voi, con tanti saluti da Bernadette. Com'è andato il weekend? »

«Bene» rispondemmo in coro. Cassie si girò e andò ad appendere il giaccone.

Presi i fax da Sam e cercai di dargli un'occhiata veloce. La mia concentrazione era andata a farsi benedire. La calligrafia del medico dei Devlin era così involuta che sicuramente lo faceva apposta. Cassie invece mostrava un'insolita pazienza nell'aspettare che finissi ogni pagina, ma mi esasperava l'attimo di forzata vicinanza di quando si chinava a prenderla. Mi ci volle uno sforzo sovrumano per estrapolare gli elementi salienti.

Sembrava che Margaret fosse stata molto apprensiva quando Rosalind era piccola: visite mediche per ogni raffreddore o mal di gola, anche se Rosalind sembrava la bambina più sana della famiglia: nessuna malattia grave, nessun incidente. Jessica era stata in incubatrice per tre giorni quando lei e Katy erano venute al mondo, a sette anni si era rotta un braccio sulla pertica, a scuola, e dall'età di nove anni era sottopeso. Tutt'e due avevano avuto la varicella. Tutt'e due avevano fatto le vaccinazioni. Rosalind era stata operata per un'unghia incarnita l'anno prima.

«Niente sembra indicare abusi in famiglia o una sindrome di Mü nchhausen per procura» commentò Cassie. Sam aveva acceso il registratore. In sottofondo, Andrews stava sbraitando qualcosa contro un agente immobiliare.

Se non ci fosse stato lui, probabilmente l'avrei ignorata. «Ma niente sembra escluderli» dissi, accorgendomi io stesso di quanto fosse tesa la mia voce.

«Come si fa a escludere con sicurezza un abuso? L'unica cosa che possiamo dire è che sembra non ci siano prove, e infatti non ce ne sono. E comunque mi pare che possiamo escludere una Mü nchhausen. Come dicevo, Margaret non rientra nel profilo. Il punto con la Mü nchhausen è che porta a cure mediche. No, nessuno ha avuto una Mü nchhausen con le due ragazze. »

«E quindi è stato tutto inutile» dissi, spingendo via le cartelle cliniche con fin troppa forza. Metà delle pagine caddero dal tavolo e finirono sul pavimento. «Sorpresa sorpresa, siamo nella merda con questo caso. Lo eravamo fin dall'inizio. Possiamo anche archiviarlo subito e passare ad altro, qualcosa che abbia una qualche possibilità di soluzione, perché così perdiamo solo il nostro tempo, tutti. »

Le telefonate di Andrews erano finite e il registratore si arrestò con un sibilo che continuò, sortile ma insistente, fino a quando Sam non spense. Cassie si chinò a raccogliere le pagine dei fax cadute a terra. Nessuno disse più nulla per un tempo molto lungo.

 

Mi chiesi cosa pensasse Sam. Non aveva detto niente ma doveva aver intuito che qualcosa non andava, non poteva non essersene accorto: d'un tratto, le serate cameratesche a tre erano cessate e l'atmosfera nella sala operativa sembrava uscita da un libro di Sartre. Poteva essere che Cassie a un certo punto gli avesse raccontato tutta la storia e che avesse pianto sulla sua spalla, ma ne dubito, era troppo orgogliosa, sempre. Credo che probabilmente continuava a invitarlo a cena dicendo che io reagivo male al fatto di dovermi occupare dell'omicidio di una ragazzina, cosa tutto sommato vera, e che avevo bisogno di starmene solo la sera, per scaricarmi. Forse lo diceva in modo così naturale e convincente che, se anche non le credeva, Sam capiva che non era il caso di fare domande.

Credo che anche altre persone l'avessero notato. I detective tendono a essere parecchio osservatori, e il fatto che i Gemelli Prodigio non si rivolgessero più la parola era di certo sulla bocca di tutti. Doveva essere diventato di dominio pubblico nel giro di ventiquattr'ore, con tutta una serie di squallide spiegazioni tra le quali non era escluso che qualcuna corrispondesse alla verità.

O forse no. Nonostante tutto, almeno questo rimaneva della vecchia alleanza: l'istinto animale, condiviso, di nascondere la sofferenza. In un certo senso, era la cosa più straziante di tutte: fino alla fine, il vecchio legame c'era sempre quando serviva. Riuscivamo a passare ore e ore snervanti senza rivolgerci parola a meno che non fosse inevitabile. E anche allora, voci inespressive, sguardi fugaci. Ma non appena O'Kelly minacciava di toglierci Sweeney e O'Gorman ci riprendevamo immediatamente, io elencando tutte le buone ragioni per cui avevamo ancora bisogno di agenti di supporto e Cassie sostenendo con me che il capo della polizia sapeva il fatto suo e sperando, con un'alzata di spalle, che la cosa non saltasse fuori con i giornalisti. Mi risucchiava tutta l'energia. Quando la porta si chiudeva e restavamo di nuovo soli, o con Sam, il quale non contava, quella scintilla ben nota evaporava e mi giravo impassibile dall'altra parte per non guardarla in faccia, pallida e sconcertata, voltandole le spalle con il rigido distacco di un gatto offeso.



  

© helpiks.su При использовании или копировании материалов прямая ссылка на сайт обязательна.