Хелпикс

Главная

Контакты

Случайная статья





Tana French 23 страница



«Di cosa si tratta? » domandò Cathal. Fu un errore e se ne rese conto non appena ebbe pronunciato le parole. Se fossimo stati noi a parlare per primi, lì davanti ai cloni, sarebbe stato per notificargli una denuncia per molestie, e sembrava il tipo da querelarti. Invece no, era lui a domandare.

«Stiamo indagando sull'omicidio di una bambina» rispose Cassie, soave. «C'è la possibilità che il delitto sia collegato al presunto stupro di una ragazza e abbiamo ragione di credere che lei potrebbe essere utile alle indagini. »

Gli ci volle solo un mezzo secondo per riprendersi. «Non riesco a immaginare come» disse, serio. «Ma se si tratta di una bambina assassinata allora farò tutto quello che è in mio potere fare, naturalmente… Ragazzi» continuò, rivolto ai clienti, «mi scuso di questa interruzione, ma purtroppo il dovere chiama. Fiona vi accompagnerà a visitare l'edificio. Riprenderemo qui tra qualche minuto. »

«Ottimista» commentò Cassie con tono d'approvazione. «Mi piace l'ottimismo. »

Cathal la guardò malissimo e premette un pulsante su di un oggetto che si rivelò un interfono. «Fiona, potresti venire in sala riunioni e accompagnare questi signori a fare un tour del palazzo? »

Tenni la porta aperta per i cloni, i quali uscirono in fila con facce impassibili. «È stato un piacere» dissi congedandomi da loro.

«Erano della CIA? » fece Cassie, a bassa voce ma non troppo.

Cathal aveva già estratto il cellulare. Chiamò il suo avvocato, in maniera ostentata, credo per intimidirci, poi richiuse il telefono con uno scatto e, appoggiandosi allo schienale della poltrona, aprì bene le gambe e osservò lungamente Cassie con un lento e deliberato godimento. Per un folle istante fui tentato di dirgli qualcosa del tipo: " Mi hai dato tu la mia prima sigaretta, te lo ricordi? ", solo per vedergli cascare le sopracciglia, per fargli sparire dalla faccia quel ghigno untuoso. Cassie sbatté le palpebre e gli rivolse un finto sorriso civettuolo. Perse la calma e diede una manata al bracciolo della poltrona, distendendo contemporaneamente il braccio per dare un'occhiata al Rolex.

«Ha fretta? » si informò Cassie.

«Il mio avvocato sarà qui tra venti minuti» rispose Cathal. «Ma per risparmiare il vostro e il mio tempo, oltre al disturbo, vi annuncio che non avrò nulla da dirvi nemmeno quando arriverà. »

«Oooh» disse Cassie, appollaiandosi sulla scrivania, su una pila di documenti. Cathal la squadrò, ma decise di non abboccare alla provocazione. «Stiamo sprecando ben venti minuti del preziosissimo tempo di Cathal. In fin dei conti, ha solo partecipato allo stupro di gruppo di una ragazzina. La vita è così ingiusta. »

«Maddox» intervenni.

«Non ho mai violentato una ragazza in vita mia» controbatté Cathal, con un sorrisetto disgustoso. «Non ne ho mai avuto bisogno. »

«Vedi, Cathal, è qui che la faccenda si fa interessante» proseguì Cassie in tono confidenziale. «Mi sembri un tipo che è stato un bel ragazzo. Così non posso fare a meno di chiedermi: hai delle difficoltà di carattere sessuale? È una cosa comune tra gli stupratori, sai? È per questo che hai bisogno di violentare le donne: cerchi disperatamente di provare a te stesso che sei come gli uomini veri, nonostante il tuo problemino. »

«Maddox…»

«Meglio per lei che stia zitta» disse Cathal.

«Che c'è, Cathal? Non riesci a fartelo venire duro? Sei ipodotato? »

«Mi faccia vedere il suo distintivo» scattò Cathal. «Presenterò denuncia. La cacceranno a calci nel culo prima ancora che possa capire cosa è stato. »

«Maddox» ripetei con durezza, imitando O'Kelly. «Devo dirti una parola. Adesso. »

«Sai, Cathal» concluse Cassie in tono di solidarietà, «oggi la scienza medica può aiutare molto in situazioni di quel tipo. » L'afferrai per un braccio e la spinsi fuori dalla porta.

In corridoio, a voce bassa ma udibile, la strapazzai un po': stupida stronza, un po' di rispetto, non è neanche un sospetto, bla bla bla. (Che non fosse " neanche un sospetto" era vero perché avevamo scoperto, con un po' di delusione, che Cathal aveva trascorso le prime tre settimane di agosto in cerca di nuovi clienti negli Usa e che c'erano le carte di credito con le quali aveva pagato i notevoli conti a provarlo. ) Cassie sfoderò un sorriso e fece il segno dell'OK.

«Mi dispiace moltissimo, signor Mills» dissi, rientrando in sala riunioni.

«Non invidio il suo lavoro, amico» disse Cathal. Era furibondo, con macchie rosse sugli zigomi. Mi chiesi se Cassie non l'avesse in realtà punto sul vivo con qualche affermazione, e se Sandra non le avesse rivelato particolari che lei non aveva condiviso con me.

«Senta una cosa» ricominciai, sedendomi di fronte a lui e passandomi una mano esausta sulla faccia. «È con noi solo per una questione di quote. Non perderei tempo con una querela. Non la rimproverebbero nemmeno per paura che si rivolga alla Commissione per le pari opportunità. Ma i ragazzi e io la sistemeremo, mi creda. Ci dia solo un po' di tempo. »

«Lei sa di cosa ha bisogno quella troia, vero? » disse Cathal.

«Sì, lo sappiamo tutti di cosa ha bisogno» risposi, «ma lei ce l'avrebbe il coraggio di avvicinarsi per darglielo? »

Ci facemmo una risatina, tra uomini. «Ascolti» proseguii, «devo dirle che non c'è alcuna possibilità che qualcuno venga arrestato per quel presunto stupro. Anche se si tratta di una storia vera, è un reato ormai caduto in prescrizione. Io sto lavorando a un caso di omicidio. Non me ne frega un cazzo di quell'altra storia. »

Cathal estrasse dalla tasca un pacchetto di gomme da masticare sbiancanti, se ne infilò una in bocca e mi lanciò il pacchetto. A me fanno schifo, ma ne presi una comunque. Si stava calmando, il rossore stava svanendo. «State investigando sulla faccenda della ragazzina dei Devlin? »

«Esatto» risposi. «Lei conosceva il padre, giusto? Ha mai incontrato Katy? »

«Macché. Conoscevo Jonathan quando eravamo ragazzi, ma ci siamo persi di vista. Sua moglie è un incubo. È come cercare di fare conversazione con la carta da parati. »

«L'ho conosciuta» dissi, con un sorriso sardonico.

«Quindi, cos'è tutta questa faccenda dello stupro? » chiese Cathal. Masticava tranquillamente la gomma, ma aveva uno sguardo circospetto da animale.

«In pratica» spiegai, «stiamo controllando tutto quello che ha a che vedere con la vita dei Devlin e ci è giunto all'orecchio che lei, Jonathan Devlin e Shane Waters, nell'estate dell'84, faceste una cosa non troppo bella a una ragazza. Cosa accadde veramente? » Avrei voluto impiegare qualche altro minuto a creare il canonico legame di solidarietà tra maschi, ma non c'era tempo. Quando fosse arrivato il suo avvocato qualsiasi altra mossa da parte mia sarebbe stata preclusa.

«Shane Waters» ripeté Cathal. «Ecco un nome che non sentivo da un bel po'. »

«Può non dire nulla finché non arriva il suo avvocato» azzardai, «ma lei non è sospettato di questo omicidio. So che non era nemmeno in patria quella settimana. Voglio solo recuperare quante più informazioni posso sui Devlin. »

«Pensa che sia stato Jonathan a far fuori la piccola? » Cathal sembrava divertito.

«Me lo dica lei. Lo conosce meglio di me. »

Cathal appoggiò la testa allo schienale e rise. E fu come se perdesse vent'anni. Per la prima volta, assunse qualcosa di familiare: il bel taglio crudele delle labbra, il luccichio scaltro negli occhi. «Ascolti, amico, lasci che le dica una cosa su Devlin. Quell'uomo è una fottutissima femminuccia. Forse continuerà a fingere di essere un duro, ma non si faccia ingannare: non ha mai corso un rischio in tutta la sua vita senza che ci fossi io a dargli una spinta. Ecco perché oggi lui è quello che è e io» indicò la sala riunioni con un movimento del mento, «sono qui. »

«Quindi lo stupro non fu una sua idea. »

Scosse la testa e fece segno di no con un dito, ghignando, come a dire: " Ci hai provato". «Chi le ha detto che c'è stato uno stupro? »

«Avanti, amico» dissi, ricambiando il ghigno, «sa che non glielo posso rivelare. Testimoni. »

Cathal fece crepitare la gomma che stava masticando e mi fissò. «Okay» acconsentì alla fine. Tracce di sorriso gli aleggiavano ancora agli angoli della bocca. «Mettiamola così. Non c'è stata violenza, ma se, e sottolineo se, ci fosse stata, Jonner non avrebbe mai e poi mai avuto le palle anche solo per pensarci. Avrebbe trascorso le settimane seguenti in un tale stato di paura da farsela nelle mutande, a temere che qualcuno che avesse assistito andasse alla polizia, a blaterare che saremmo finiti tutti in galera, che era meglio costituirsi… Il ragazzo non ha il coraggio di ammazzare un gattino, figuriamoci una bambina. »

«E lei? » chiesi. «Lei non si sarebbe preoccupato che quei testimoni facessero la spia? »

«Io? » Il sorriso gli si allargò di nuovo sul volto. «Neanche per sogno, amico. Se, ipoteticamente, qualcosa del genere fosse successa, sarei stato fottutamente orgoglioso di me stesso e certo di farla franca. »

 

«Voto per arrestarlo» annunciai quella sera, da Cassie. Sam era a Ballsbridge, a un ricevimento con ballo e champagne annessi per il ventunesimo compleanno di suo cugino, così c'eravamo solo noi due, seduti sul divano a bere vino e a decidere come perseguire Jonathan Devlin.

«Per cosa? » domandò Cassie, ragionevole come sempre. «Non possiamo incastrarlo per lo stupro. Potremmo forse avere qualcosa per Peter e Jamie, solo che non abbiamo un testimone che ce li posizioni sulla scena della violenza e viene quindi a mancare il movente. Sandra non vi ha visti e se ti facessi avanti renderesti evidente il tuo coinvolgimento nel caso, a parte che O'Kelly ti taglierebbe le palle e le userebbe come decorazioni natalizie. E non abbiamo un solo elemento che colleghi Jonathan alla morte di Katy, solo disturbi di stomaco che potrebbero e non potrebbero essere dovuti a un abuso, e anche lì, potrebbe e non potrebbe essere stato lui. Tutto quello che possiamo fare è chiedergli di venire da noi per rispondere a qualche domanda. »

«Vorrei solo farlo uscire da quella casa» riflettei lentamente. «Sono preoccupato per Rosalind. » Era la prima volta che davo voce al disagio che sentivo. Era cresciuto in me, gradatamente e solo in parte riconosciuto, fin dalla prima, frettolosa telefonata che mi aveva fatto, ma negli ultimi due giorni aveva raggiunto un picco che non potevo ignorare.

«Rosalind? Perché? »

«Hai detto tu che il nostro uomo non uccide a meno che non si senta minacciato. Ci sta perfettamente con tutto quello che abbiamo sentito. Secondo Cathal, Jonathan era terrorizzato all'idea che raccontassimo della violenza, così sistema la faccenda con noi. Katy decide di smettere di stare male, magari lo minaccia di raccontare tutto, così lui la uccide. Se scopre che Rosalind ha parlato con me…»

«Non credo che tu ti debba preoccupare per lei» disse Cassie. Finì il vino. «Potremmo sbagliarci del tutto su Katy, dopotutto sono solo congetture. E non darei troppo peso a quello che ha detto Cathal Mills. Ha tanto l'aria di uno psicopatico e per gli psicopatici è più facile mentire che dire la verità. »

Inarcai le sopracciglia. «L'hai incontrato solo cinque minuti. Cos'è? Gli fai la diagnosi? A me è sembrato solo un cazzone. »

Lei fece spallucce. «Non sto dicendo che sono certissima su Cathal. Ma se sai dove guardare, sono incredibilmente facili da individuare. »

«Te l'hanno insegnato al Trinity? »

Cassie allungò la mano perché le passassi il mio bicchiere e andasse a riempirlo insieme al suo. «Non esattamente» rispose, dal frigo. «Ho conosciuto uno psicopatico una volta. »

Mi dava la schiena, e se c'era una qualche strana inflessione nella sua voce non la colsi. «In un programma su Discovery Channel dicevano che il cinque per cento della popolazione è costituita da psicopatici» osservai, «ma la maggior parte di loro non infrange la legge e quindi il loro disagio mentale non viene mai diagnosticato. Quanto vuoi scommettere che la metà di quelli al governo…»

«Rob» mi interruppe Cassie. «Stai zitto, per favore. Sto cercando di raccontarti una cosa. »

Questa volta percepii la tensione. Mi si avvicinò e mi passò il bicchiere. Portò il suo alla finestra e si appoggiò al davanzale. «Volevi sapere perché ho lasciato l'università » disse, con molta calma. «Il secondo anno feci amicizia con un tipo con cui andavo a lezione. Era molto conosciuto: belloccio, affascinante, intelligente, insomma interessante. Non era che gli stessi dietro o roba del genere, ma immagino che fossi lusingata dal fatto che mi degnasse di una qualche considerazione. Saltavamo le lezioni e passavamo ore al bar. Mi faceva dei regali, cose da poco, e alcune sembravano anche usate, ma eravamo studenti squattrinati, e poi, è il pensiero che conta, no? Tutti ritenevano che quello che c'era fra noi fosse bellissimo. Che fossimo così amici. »

Bevve un sorso ma lo mandò giù a fatica. «Scoprii molto presto che raccontava un sacco di balle senza un valido motivo. Sapevo che… Be', me l'aveva detto lui che aveva avuto un'infanzia orribile e che a scuola era preso di mira dai suoi compagni, così mi dissi che aveva sviluppato l'abitudine di mentire per proteggersi. Pensavo… Cristo santo, pensavo di poterlo aiutare: se si fosse convinto di avere un'amica su cui poter contare a prescindere da qualsiasi cosa, la sua autostima sarebbe cresciuta e non avrebbe più avuto bisogno di mentire. Avevo solo diciotto, diciannove anni. »

Non osavo muovermi, anche solo per appoggiare il bicchiere. Temevo che anche il più piccolo movimento sarebbe stato quello sbagliato, quello che l'avrebbe fatta scostare dal davanzale e rinunciare ad andare avanti su quell'argomento. La bocca tesa e distorta in una strana smorfia la faceva sembrare molto più vecchia e mi fece capire che quella era una storia che non aveva mai raccontato a nessuno.

«Non mi rendevo nemmeno conto che mi stavo allontanando da tutti gli altri amici che mi ero fatta, ma lui metteva il broncio e si mostrava distante se li frequentavo. A dire il vero, musone e distante lo era spesso, per le ragioni più disparate, e io ci mettevo un tempo infinito a cercare di capire cosa avessi fatto, a chiedere scusa e a metterci una pezza. Quando ci incontravamo non sapevo mai se sarebbe stato tutto abbracci e complimenti o freddezza e sguardi di disapprovazione, non c'era una logica. A volte le cose che faceva… anche piccole cose come prendere in prestito i miei appunti poco prima degli esami, dimenticare di riportarmeli per giorni e sostenere poi di averli persi, salvo indignarsi quando glieli vedevo spuntare dalla borsa… mi mandavano in bestia a tal punto che l'avrei ucciso a mani nude. Ma poi era carino quel tanto che bastava perché non volessi smettere di frequentarlo. » Fece un mezzo sorriso. «Non volevo ferirlo. »

Le occorsero tre tentativi per accendere una sigaretta… La Cassie che mi aveva raccontato di essere stata accoltellata senza sconvolgersi più di tanto… «Comunque» riprese, «la cosa andò avanti per quasi due anni. Nel mese di gennaio del quarto anno ci provò con me, nel mio appartamento. Lo respinsi… Non so perché, a quel punto ero talmente confusa che sapevo a stento quello che facevo, ma grazie a Dio avevo ancora un po' d'istinto a guidarmi. Dissi che volevo restassimo semplicemente amici, lui sembrò d'accordo, parlammo un altro po', poi se ne andò. Il giorno seguente, a lezione, tutti mi guardavano e nessuno voleva parlarmi. Mi ci vollero due settimane per capire cosa era successo. Alla fine bloccai una ragazza con la quale ero stata amica il primo anno, Sarah‑ Jane, e fu lei a dirmi che lo sapevano tutti quello che gli avevo fatto. »

Aspirò una rapida boccata dalla sigaretta. Mi stava guardando, senza vedermi, in realtà, perché aveva le pupille troppo dilatate. Pensai allo sguardo intontito e narcotizzato di Jessica Devlin. «La sera in cui l'avevo respinto, era andato direttamente all'appartamento di altre ragazze che studiavano con noi. In lacrime. Aveva raccontato che da un po' lui e io uscivamo insieme in gran segreto. Poi però lui aveva deciso che non funzionava e io avevo minacciato che se rompeva con me avrei detto a tutti che mi aveva violentata, sarei andata alla polizia, ai giornali, gli avrei rovinato la vita. » Cercò di scrollare la sigaretta nel posacenere, ma lo mancò completamente.

In quel momento non mi venne in mente di chiedermi perché mi stesse raccontando quella storia, perché solo allora. Potrà sembrare strano, ma quel mese tutto era stato insolito, vagamente precario. Nel preciso istante in cui aveva pronunciato le parole " lo prendiamo noi" Cassie aveva dato l'avvio a un movimento tellurico inarrestabile. Cose familiari mi si aprivano e si rivoltavano sotto gli occhi, il mondo diventava bellissimo e pericoloso come una scintillante lama rotante. Quella storia, Cassie che apriva la porta di una delle sue stanze segrete, sembrava una parte naturale e inevitabile di quel cambiamento epocale. E, in un certo senso, immagino che lo fosse. Solo molto tempo dopo mi sarei reso conto che aveva cercato di dirmi una cosa ben specifica, se solo avessi prestato più attenzione.

«Mio Dio» commentai dopo un po'. «Solo perché gli avevi ammaccato l'ego? »

«Non solo» rispose Cassie. Indossava una morbida maglia color ciliegia. Notai che si alzava e si abbassava velocemente sopra i seni. Anche il mio cuore batteva forte. «Perché era annoiato. Perché, respingendolo, avevo espresso chiaramente che quello era il massimo divertimento che avrebbe ottenuto da me, così come era anche il massimo uso che avrei potuto fare di lui. Perché, se ci pensiamo, era solo divertimento. »

«Lo dicesti a Sarah‑ Jane quello che era successo? »

«Oh, certo» rispose Cassie con tono neutro. «Lo dissi a tutti quelli che non avevano smesso di parlarmi. Nessuno mi credette. Credettero a lui… i nostri colleghi, le conoscenze che avevamo in comune, in pratica tutti. Gente che in teoria sarebbe dovuta essere mia amica. »

«Oh, Cassie» dissi. Mi stavo trattenendo dall'andare da lei, abbracciarla, tenerla stretta fino a quando quella terribile rigidità non si fosse sciolta, fosse uscita dal suo corpo e lei fosse tornata dal luogo remoto dov'era finita. Ma quell'immobilità, quelle spalle incurvate come per proteggersi… non capivo se le avrebbe fatto piacere o se sarebbe stata la cosa peggiore che potessi fare. Date la colpa al collegio o, se preferite, a un difetto ben radicato del mio carattere. Il fatto è che non sapevo come comportarmi. Col senno di poi, dubito che avrebbe fatto differenza, ma mi fa desiderare ancora di più che avessi saputo cosa fare.

«Tenni duro per un altro paio di settimane» riprese Cassie. Si accese un'altra sigaretta con il mozzicone di quella precedente, cosa che non le avevo mai visto fare. «Era sempre circondato da persone che lo trattavano in maniera protettiva e mi guardavano male. Venivano da me e mi dicevano che era per colpa di donne come me se i veri stupratori la facevano franca. Una ragazza arrivò a dirmi che meritavo di essere stuprata, così avrei capito che cosa orribile avevo fatto. »

Rise, aspra. «Ironico, vero? Un centinaio di studenti di psicologia e nessuno che avesse riconosciuto il classico psicopatico. Sai la cosa strana? Mi sarebbe piaciuto che avessi fatto tutte le cose che sosteneva lui. Se così fosse stato, avrebbe avuto senso: avrei avuto quello che mi meritavo. Ma non avevo fatto nulla, eppure stava andando come stava andando. Non c'era correlazione di causa‑ effetto. Temetti di perdere la ragione. »

Mi sporsi in avanti, lentamente, come avrei fatto con un animale spaventato, e le presi una mano. Quel poco almeno riuscii a farlo. Rise, piano, mi strinse le dita e poi le lasciò. «Comunque… alla fine un giorno venne da me, in mensa. Tutte le altre ragazze cercarono di fermarlo, ma lui le respinse, venne coraggiosamente da me e disse ad alta voce, perché potessero sentirlo: " Ti prego, smettila di chiamarmi nel bel mezzo della notte. Ma che cosa ti ho fatto? ". Rimasi di stucco. Non riuscivo a capire di cosa stesse parlando. L'unica cosa che mi venne in mente di dire fu: " Ma non ti ho chiamato". Lui sorrise e scosse la testa, come a dire " certo, come no? ", poi si piegò verso di me e, con un tono allegro, da discorso d'affari, mi bisbigliò: " Se mai m'infilassi in casa tua e ti violentassi, non credo che le tue accuse reggerebbero, che ne dici? ". Mi sorrise di nuovo e tornò dalle sue amiche. »

«Piccola» dissi alla fine, con cautela, «magari è meglio se fai installare un allarme qui. Non voglio spaventarti, ma…»

Cassie scosse la testa. «E poi? Non esco più di casa? Non posso permettermi di diventare paranoica. La serratura funziona bene e tengo la pistola vicino al letto. » L'avevo notato, naturalmente, ma non sono pochi i detective che, non sentendosi al sicuro, hanno un revolver a portata di mano. «E comunque sono abbastanza sicura che non lo farebbe mai. So come gira la sua testa, purtroppo. Si diverte di più a pensare che me ne sto qui tutto il tempo a rodermi nell'attesa piuttosto che fare quello che deve fare e finirla lì. »

Fece l'ultimo tiro dalla sigaretta e si sporse per spegnere il mozzicone. Aveva la schiena così rigida che il movimento parve doloroso. «All'epoca, però, l'intera faccenda mi spaventò eccome, tanto che mollai l'università. Andai in Francia, ho dei cugini a Lione. Rimasi da loro per un anno. Lavorai come cameriera in un bar. Un bel periodo. Fu lì che comprai la Vespa. Poi tornai e feci domanda a Templemore. »

«Per causa sua? »

Si strinse nelle spalle. «Forse. Primo, magari qualcosa di buono è venuto fuori da tutta quella faccenda. Secondo, ora ho degli ottimi sensori per gli psicopatici. È come un'allergia: esposto una volta, rimani sensibilizzato per sempre. » Finì di bere con un lungo sorso. «L'anno scorso mi sono imbattuta in Sarah‑ Jane, in un pub in città. L'ho salutata, mi ha detto che lui se la cavava bene " nonostante tutti i tuoi sforzi" e se n'è andata. »

«I tuoi incubi riguardano questa cosa? » chiesi con gentilezza, dopo un po'. L'avevo svegliata io da quei sogni, un paio di volte, mentre lavoravamo a casi di omicidio con stupro, ma non aveva mai voluto rivelarmi i dettagli: agitava le braccia in maniera scomposta verso di me, annaspava pronunciando fiumi di parole incomprensibili e piene di angoscia.

«Esatto, sogno che è lui il tizio che dobbiamo prendere, ma non possiamo provarlo e quando scopre che al caso ci lavoro io… be', fa quello che deve fare. »

Diedi per scontato, all'epoca, che sognasse quell'uomo mentre metteva in atto la sua minaccia. Ora penso che mi sbagliassi, e credo che possa essere stato, anche se ne ho molti tra cui scegliere, il mio più grande errore.

«Come si chiamava? » chiesi. Volevo disperatamente fare qualcosa, risolvere quella situazione in qualche modo, magari fare un controllo generico sul tipo e cercare qualche motivo per arrestarlo. Era l'unica azione che mi veniva in mente. E immagino che una piccola parte di me, per crudeltà o per distaccata curiosità o chissà per cos'altro, avesse notato che Cassie si rifiutava di dirlo e volesse stare a vedere cosa sarebbe successo se l'avesse detto.

Gli occhi di Cassie incontrarono i miei e rimasi scosso dal concentrato di odio, duro come il diamante, che vi scorsi. «Legion» rispose.

 

Il giorno seguente, facemmo venire Jonathan in ufficio. Lo chiamai e, con la voce più professionale che mi riuscì, gli chiesi se non gli dispiaceva fermarsi da noi dopo il lavoro, solo per darci una mano con alcune faccende. La stanza degli interrogatori principale, quella grande con la sala d'osservazione per i confronti all'americana, era occupata da Sam, alle prese con Andrews, ma a noi andava bene così. Volevamo una stanza piccola; più piccola era meglio andava, per noi. «Gesù, Giuseppe e Maria e tutti i sette nani» esclamò O'Kelly, «d'un tratto spuntano sospetti come funghi. Avrei dovuto togliervi prima gli agenti di supporto, farvi sbattere un po' e obbligarvi a tirare su quel culo dalle sedie. »

Preparammo la stanza con la stessa cura di un set teatrale. Foto di Katy da viva e da morta su mezzo muro, e di Peter e Jamie, delle impressionanti scarpe da ginnastica e dei graffi sulle mie ginocchia sull'altra metà. Avevamo anche una foto delle mie unghie spezzate, ma metteva più a disagio me di quanto non avrebbe fatto con Jonathan – ho i pollici dalla forma molto particolare e già a dodici anni le mie mani erano quasi come quelle di un uomo adulto – e Cassie non disse nulla quando la rimisi nel dossier. Ammonticchiati in un angolo c'erano mappe, grafici, un po' di roba esoterica, analisi ematiche, tempistiche, dossier e scatole dalle etichette misteriose.

«Dovrebbe bastare» dissi, osservando il risultato finale. In effetti era notevole, con un che da incubo.

«Già. » L'angolo di una delle foto dell'autopsia si stava staccando dalla parete e Cassie, sovrappensiero, la rimise a posto. La sua mano restò lì per un istante, i polpastrelli lievemente appoggiati sul braccio grigio e nudo di Katy. Sapevo cosa stava pensando: se Devlin era innocente, allora quello che stavamo per fare era una crudeltà gratuita. Io però non avevo spazio per quel genere di preoccupazioni. Più spesso di quanto non vogliamo ammettere, la crudeltà fa parte del nostro mestiere.

Avevamo ancora una mezz'ora prima che Devlin smontasse dal lavoro ed eravamo troppo agitati per intraprendere altre attività. Uscimmo dalla stanza degli interrogatori, che cominciava a mettermi un po' in agitazione con tutti quegli occhi sgranati che guardavano. Mi dissi che era un buon segno e andai nella sala di osservazione a vedere come se la stava cavando Sam.

Aveva fatto la sua brava ricerca e ora Terence Andrews aveva una bella porzione di lavagna bianca tutta per sé. Proveniva da una lunga tradizione di agricoltori di Westmeath. Aveva studiato commercio all'università di Dublino e sebbene si fosse laureato con un voto mediocre aveva apparentemente sviluppato un'ottima padronanza degli elementi di base: a ventitré anni aveva sposato Dolores Lehane, una giovane della Dublino bene conosciuta mentre studiava lettere, e il padre di lei, un immobiliarista, lo aveva avviato nell'ambiente. Dolores lo aveva lasciato quattro anni prima e viveva a Londra con il cugino di lui e un notevole assegno per gli alimenti. Il matrimonio non era stato benedetto dall'arrivo di figli, ma si era rivelato tutt'altro che improduttivo: Andrews disponeva infatti di un piccolo ma attivissimo impero concentrato nell'area metropolitana di Dublino ma con avamposti a Budapest e a Praga, e si diceva che gli avvocati di Dolores e il fisco non ne conoscessero nemmeno la metà.

Secondo Sam, però, si era lasciato trascinare un po' troppo. L'appariscente casa da dirigente d'azienda, la macchina da pappone (una Porsche argento personalizzata, con vetri oscurati e cromature, il set completo insomma) e la tessera del golf club erano solo una facciata. Andrews in realtà non aveva più contante di me, il direttore della sua banca si stava agitando e nel corso degli ultimi sei mesi aveva cominciato a svendere appezzamenti di terreno di sua proprietà, ancora non sfruttati, per saldare le numerose ipoteche. «Se quell'autostrada non attraverserà Knocknaree, e in fretta» riassunse, «il ragazzo è con le pezze al culo. »

Andrews non mi era piaciuto fin da prima di conoscerne il nome, e non vidi nulla che potesse farmi cambiare opinione. Non molto alto, stava perdendo i capelli ed era rubicondo e robusto. Aveva una grossa pancia e si notava un leggero strabismo a un occhio, ma se molti uomini avrebbero cercato di nascondere quei difetti, lui li usava come armi: si portava in giro la pancia prominente come se fosse stata uno status symbol, come se il messaggio da cogliere dovesse essere: " Niente Guinness da poco, qui, bellezza, questa l'ho costruita con ristoranti dove tu non potresti permetterti di andare neanche fra cent'anni", e tutte le volte che Sam si distraeva e si guardava dietro le spalle per scoprire cosa stesse osservando l'occhio strabico del suo ospite, la bocca di Andrews si torceva in un piccolo ghigno di cattiveria e di trionfo.



  

© helpiks.su При использовании или копировании материалов прямая ссылка на сайт обязательна.