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Tana French 20 страница



E non si trattava nemmeno di fare qualcosa fuori dell'ordinario, dopotutto. Alla Omicidi ci si abitua a districarsi fra tre o quattro indagini alla volta. Se ti viene assegnato il caso di un bambino assassinato, o di un poliziotto, o qualcosa di priorità equivalente, puoi passare a un collega gli altri casi aperti, come avevamo fatto con quello del posteggio dei taxi, rifilato a Quigley e McCann, ma ti rimangono le incombenze dei casi chiusi: il lavoro d'ufficio, gli incontri con gli avvocati, i tribunali. Piano piano sviluppi la capacità di archiviare in una zona della tua memoria tutti i particolari principali e di tirarli fuori in qualunque momento, in caso di bisogno. Anche il caso Kavanagh avrebbe dovuto essere lì, ma non c'era, e questo mi mandava nel panico, un panico silenzioso e ferino.

Verso le due del mattino mi convinsi che se fossi riuscito a farmi una bella dormita avrei trovato tutto in ordine il mattino dopo. Mi feci un altro bicchierino di vodka e spensi la luce, ma ogni volta che chiudevo gli occhi le immagini mi sfrecciavano nella mente in una frenetica e inarrestabile processione: il Sacro Cuore, i due criminali sudici, la ferita alla testa, l'orrendo B & B… Verso le quattro, mi arresi all'evidenza: ero stato un cretino a non andare a prendere gli appunti. Accesi la luce e cercai i vestiti, ma mentre mi allacciavo le scarpe mi accorsi che mi tremavano le mani, mi ricordai della vodka (nella condizione in cui mi trovavo, non avrei superato il test del palloncino) e capii che ero troppo intontito dall'alcol perché, anche se li avessi avuti, gli appunti potessero offrire un aiuto.

Tornai a letto e rimasi a guardare per un altro po' il soffitto. Heather e il tipo nell'appartamento a fianco russavano all'unisono. Di tanto in tanto una macchina passava in strada inondando di luce gialla le pareti della stanza. Dopo un po' mi ricordai delle pastiglie per il mal di testa e, basandomi sul fatto che mi mettevano sempre fuori combattimento e senza considerare che forse era lo stesso mal di testa a farmi quell'effetto, ne presi un paio. Alla fine, erano quasi le sette, mi addormentai. Qualche istante prima che squillasse la sveglia.

Quando suonai il clacson davanti a casa di Cassie, lei uscì nella sua unica tenuta elegante: un completo Chanel giacca e pantaloni, molto chic, nero foderato di rosa, e gli orecchini di perle di sua nonna. Saltò in auto con quello che considerai un inutile spreco di energia, anche se probabilmente aveva solo cercato di prendersi la minore quantità possibile di pioggia. «Ciao» mi salutò. Era truccata e questo la faceva sembrare più vecchia e sofisticata, distante. «Non hai dormito? »

«Non molto. Hai gli appunti? »

«Sì. Gli darai un'occhiata mentre… un momento, ma chi entra per primo, io o tu? »

«Non me lo ricordo. Puoi guidare tu? Devo rivedere alcune cose. »

«Non sono assicurata per questo aggeggio» rispose, guardando la Land Rover con sdegno.

«Allora cerca di non investire nessuno. » Con movimenti scoordinati, scesi dalla macchina e le girai intorno per risalire dall'altra parte, con la pioggia che schizzava sulla mia testa, mentre Cassie, con un'alzata di spalle, si spostava al posto di guida. Ha una bella calligrafia, dall'aria un po' straniera, in un certo senso, ma sicura e chiara, e ci sono abituato, ma ero così stanco e con i postumi della sbornia ancora lì che riuscivo a vedere solo degli scarabocchi indecifrabili che si muovevano in continuazione sulla pagina come un bizzarro test di Rorschach. Pochi minuti dopo mi addormentai, con la testa che sussultava contro il finestrino.

 

Ovviamente, toccò a me entrare per primo. Non ho il coraggio di descrivere i mille modi in cui mi resi ridicolo: balbettai, confusi i nomi, sbagliai l'ordine temporale degli eventi e dovetti tornare indietro e correggermi diligentemente fin dall'inizio. L'avvocato dell'accusa, MacSharry, parve dapprima stupito (ci conoscevamo, e di solito vado bene alla sbarra), poi si allarmò e infine, pur mantenendo un'apparenza di cortesia, s'infuriò. Aveva l'ingrandimento di una foto del corpo di Philomena Kavanagh – è un trucchetto che serve a far inorridire la giuria e a farle sentire il bisogno di punire qualcuno; ero un po' sorpreso che il giudice gli avesse permesso di portarla – e in teoria avrei dovuto indicare ogni ferita e metterla in relazione con quanto i presunti assassini avevano ammesso nelle loro confessioni (sembrava che avessero effettivamente confessato), ma per qualche motivo fu la goccia che fece traboccare il vaso e svanire quel minimo di compostezza che mi era rimasto: ogni volta che sollevavo lo sguardo la vedevo, pesante e malmenata, con la gonna sollevata intorno alla vita e la bocca aperta in un impotente grido di rimprovero rivolto a me per averla delusa.

L'aula del tribunale era diventata una sauna, con i vapori dei cappotti umidi che andavano ad annebbiare le finestre. La testa mi prudeva per il caldo e sentivo gocce di sudore che mi scendevano lungo le costole. Quando l'avvocato della difesa ebbe finito il controinterrogatorio, aveva una gioia incredula, quasi indecente, negli occhi; sembrava un ragazzo che fosse riuscito a infilarsi nelle mutandine di una ragazza mentre aveva sperato al massimo di ricevere solo un bacio. Perfino i membri della giuria, che si agitavano e si lanciavano occhiate di nascosto, parvero imbarazzati per me.

Scesi dal banco che tremavo tutto, con le gambe che sembravano di gelatina. Pensai per un secondo di dovermi aggrappare a una balaustra per restare in piedi. Si può rimanere a guardare il processo dopo aver concluso la propria testimonianza, e Cassie si sarebbe sorpresa di non vedermi, ma proprio non ce la facevo. Non aveva bisogno di supporto morale, lei: se la sarebbe cavata benissimo e, potrà sembrare infantile, la cosa mi faceva sentire anche peggio. Sapevo che il caso Devlin la preoccupava e preoccupava anche Sam, ma sembrava che entrambi riuscissero a mantenere il controllo senza neanche troppa fatica. Io ero l'unico che sussultava, farfugliava, si spaventava delle ombre come un personaggio di Qualcuno volò sul nido del cuculo. Non pensavo di poter sopportare di sedere in tribunale a guardare Cassie che, ignara di quanto era successo, risistemava con estrema praticità lo sfacelo in cui avevo trasformato un lavoro di diversi mesi.

Stava ancora piovendo. Trovai un piccolo pub senza molte pretese in una via laterale: c'erano tre tizi a un tavolo d'angolo. Al primo sguardo, mi individuarono come poliziotto e cambiarono immediatamente discorso. Ordinai un whisky caldo e mi sedetti. Il barista mi sbatté il bicchiere davanti e tornò alle pagine dei cavalli senza neanche chiedermi se volevo il resto. Ne bevvi un lungo sorso e, con la bocca che mi bruciava, rovesciai la testa all'indietro e chiusi gli occhi.

I tre individui all'angolo ora stavano parlando della ex ragazza di qualcuno. «Allora le faccio: " Non c'è nel decreto del mantenimento che devi vestirlo come quel cazzo di Diddy. Se vuoi che si metta le Nike, te le compri da sola, stronza". »

«Hai ragione, cazzo» ribadì uno degli altri.

«Ma poi che razza di nome è Diddy… tetta… per un adulto? » chiese il terzo con aria disgustata. «Qualcuno dovrebbe dirglielo. »

«Laggiù non ha lo stesso significato, idiota. » Stavano mangiando sandwich e quell'odore salato, chimico, mi fece venire il voltastomaco. Fuori pioveva a catinelle, e l'acqua sgorgava a fiumi da una grondaia.

Per quanto strano possa apparire, sul banco dei testimoni, sotto lo sguardo atterrito di MacSharry, avevo capito che stavo crollando. Mi ero già accorto che dormivo meno del solito e che bevevo troppo, che ero nervoso e distratto e che forse avevo delle visioni, ma non c'era ancora stato niente che mi fosse sembrato particolarmente inquietante o allarmante di per sé. Ora la cosa era evidente e mi spaventava a morte.

Tutto il mio essere gridava di andarmene il più lontano possibile da quel maledetto caso. Avevo ancora molti giorni di ferie arretrate, perciò chi avrebbe potuto impedirmi di usare un po' dei miei risparmi per prendermi un appartamentino in affitto a Parigi o a Firenze, per qualche settimana, e passeggiare e trascorrere tutto il giorno ad ascoltare tranquillamente una lingua che non capivo e non tornare fino a quando tutta quella storia non fosse finita? Ma sapevo che la cosa era tristemente impossibile. Era troppo tardi per uscire dall'indagine. Come avrei fatto a dire a O'Kelly che, dopo settimane che mi occupavo del caso, avevo capito all'improvviso che in realtà Adam Ryan ero io? Un'altra scusa avrebbe significato che avevo ormai perso l'autocontrollo, e questo avrebbe posto fine alla mia carriera. Sapevo che dovevo assolutamente scuotermi prima che gli altri cominciassero ad accorgersi che stavo crollando e prima che degli omini col camice bianco venissero a portarmi via, ma non riuscivo a pensare a una sola cosa che potesse farmi stare anche solo un po' meglio.

Finii il whisky e ne ordinai un altro. Il barista selezionò un canale TV che stava mandando in onda una partita di biliardo. Il mormorio discreto del commentatore si fondeva in modo confortevole con il rumore della pioggia. I tre tizi se ne andarono sbattendo la porta; continuai a sentire le loro risate anche dalla strada. All'improvviso il barista mi portò via il bicchiere in modo piuttosto sgarbato: evidentemente voleva che me ne andassi.

Raggiunsi il bagno e mi lavai il viso con acqua fredda. Guardai la mia immagine nello specchio verdastro e sporco: sembravo uscito da un film di zombie, con la bocca aperta, grosse borse scure sotto gli occhi, i capelli che mi stavano dritti in ciuffi scomposti. " Tutto questo è ridicolo" pensai, in preda a un vertiginoso e distaccato stupore. " Come è potuto succedere? Come cazzo ci sono finito in una situazione così? "

 

Tornai al parcheggio e mi sedetti in macchina a succhiare caramelle alla menta e a guardare le persone che si affrettavano in strada a testa bassa, stringendosi nei cappotti. Passò una donna con un sacchetto di plastica del supermercato sulla testa. Era buio come se fosse sera: le mezze luci delle auto illuminavano la pioggia che scendeva di traverso, i lampioni in strada erano già accesi. Un SMS di Cassie: " Che è successo? Dove sei? ". Le risposi: " In auto" e mi allungai per lampeggiare con i fari e farmi individuare. Quando mi vide seduto al posto del passeggero, tornò indietro e corse dall'altra parte.

«Accidenti» esclamò, infilandosi dietro il volante e scuotendosi la pioggia dai capelli. Una goccia sulle ciglia le aveva sciolto il mascara e una lacrima nera le stava scendendo lungo la guancia, facendola assomigliare a un piccolo Pierrot. «Avevo dimenticato che teste di cazzo erano quei due piccoli delinquenti. Quando ho raccontato che avevano pisciato sul letto della donna, hanno cominciato a ridacchiare. Il loro avvocato gli ha dovuto dare un calcio negli stinchi, sotto il tavolo, per farli smettere. Cosa ti è successo? Perché devo guidare io? »

«Ho mal di testa» le risposi. Non mi capita molto spesso, e prendendo una pastiglia di solito in un paio d'ore mi passa, ma di tanto in tanto me ne viene uno che mi fa stare a letto per due o tre giorni. Non riesco a muovermi e il mondo si riduce a una capsula di lampi di luce, nausea e dolore pulsante. Cassie stava armeggiando con lo specchietto del frangisole per controllarsi il trucco e i suoi occhi preoccupati incontrarono i miei. La sua mano restò ferma a mezz'aria. «Mi sa che ho fatto un casino, Cass. »

Lo avrebbe scoperto comunque. MacSharry si sarebbe affrettato a chiamare O'Kelly ed entro la fine della giornata tutta la squadra lo avrebbe saputo. Ero così stanco. Per un momento, mi lasciai andare alla speranza che quello fosse soltanto un incubo indotto dalla vodka e che presto mi sarei svegliato per recarmi in tribunale.

«Molto male? » mi chiese.

«Mi sa che ho proprio mandato tutto a puttane. Non riuscivo neanche a vedere bene, figurati se riuscivo a pensare chiaramente. » Dopotutto, stavo dicendo la verità.

Lentamente, orientò lo specchietto, si inumidì un dito e si pulì la scia nera. «Intendevo il mal di testa. Vuoi andare a casa? »

Pensai con bramosia al mio letto, a ore di sonno indisturbato prima che Heather tornasse a casa e volesse sapere della sua candeggina, ma l'attrattiva scemò presto: sarei rimasto a giacere rigido, con le mani strette alle lenzuola, a ripercorrere all'infinito quanto era successo. «No. Ho preso una pastiglia quando sono uscito dal tribunale. Ne ho passate di peggio. »

«Devo cercare una farmacia o ne hai altre, nel caso? »

«Ne ho molte altre, comunque sto già meglio. Andiamo. » Fui tentato di fornirle ulteriori dettagli sul mio mal di testa immaginario, ma l'arte stessa del mentire sta nel sapere quando fermarsi, e io sono sempre stato piuttosto bravo in questo. Non so neppure adesso se Cassie mi credette. Uscì dal parcheggio con una sterzata veloce e improvvisa, con la pioggia che scivolava via dai tergicristalli, e si immise nel traffico.

«Tu come sei andata? » le chiesi a un tratto, mentre avanzavamo a passo di lumaca lungo le banchine.

«Okay. Credo che il loro avvocato stia cercando di provare che sono stati obbligati a confessare, ma la giuria non ci cascherà. »

«Bene» fu il mio laconico commento.

 

Il telefono cominciò a suonare, isterico, quasi nello stesso momento in cui mettemmo piede nella sala operativa. MacSharry non aveva di certo perso tempo, perché era O'Kelly che mi diceva di andare nel suo ufficio. Gli raccontai la storia dell'emicrania. L'unica cosa positiva del mal di testa è che, come scusa, è fantastica: il mal di testa è invalidante, non ti viene per colpa tua, può durare tutto il tempo che vuoi e nessuno può dimostrare che non ce l'hai. E, inoltre, avevo davvero l'aspetto di uno che non stava bene. O'Kelly fece alcuni commenti derisori sulla patologia, sostenendo che erano " stronzate da femminucce", ma recuperai parte del suo rispetto insistendo col voler restare al lavoro.

Tornai in sala operativa. Sam stava rientrando da uno dei suoi giri, fradicio di pioggia, e il suo cappotto di tweed puzzava leggermente di pelo di cane bagnato. «Com'è andata? » chiese. Il tono era casuale, ma mi lanciò un'occhiata da sopra la spalla di Cassie e poi rapidamente distolse lo sguardo: il tamtam si era già fatto sentire.

«Bene. Emicrania» rispose Cassie, indicandomi con un cenno della testa. A quel punto, potere della suggestione, mi parve davvero di avere l'emicrania. Sbattei le palpebre, cercando di mettere a fuoco.

«Il mal di testa è una brutta bestia» commentò Sam. «Mia madre ne soffre, a volte deve stare sdraiata in una stanza buia per giorni, con il ghiaccio sulla fronte. Ce la fai a lavorare? »

«Sto bene» ripetei. «E tu cosa hai fatto? »

Sam guardò verso Cassie. «Sta bene» lo rassicurò lei. «Quel processo farebbe venire il mal di testa a chiunque. Dove sei stato? »

Sam si tolse il cappotto bagnato, lo guardò con aria dubbiosa e lo abbandonò su una sedia. «Sono andato a fare due chiacchiere con i Quattro Grandi. »

«O'Kelly farà i salti di gioia. » Mi sedetti e mi massaggiai le tempie con pollice e indice «Devo avvisarti che già non è di buon umore. »

«No, è tutto a posto. Ai Quattro Grandi ho detto che siccome i dimostranti stavano causando qualche problema a quelli dell'autostrada – non sono entrato nello specifico, ma sono sicuro che hanno pensato a qualche atto di vandalismo – stavo solo controllando che fosse tutto okay. » Sam sorrise e io capii che stava scoppiando per l'eccitazione della sua giornata e che si conteneva solo perché sapeva come era andata la mia. «Si sono innervositi perché si chiedevano come facessi a sapere che erano coinvolti con Knocknaree, ma mi sono comportato come se niente fosse: abbiamo chiacchierato un po', mi sono assicurato che nessuno di loro fosse stato obiettivo dei dimostranti, gli ho detto di stare attenti e me ne sono andato. Nessuno di loro mi ha ringraziato, ci credete? Proprio delle belle personcine, garantito. »

«Quindi? » domandai. «Che ti aspettavi? » Non volevo sembrare petulante, ma se chiudevo gli occhi vedevo il corpo di Philomena Kavanagh e quando li riaprivo vedevo le foto della scena del crimine di Katy su tutta la lavagna dietro la testa di Sam. Non ero dell'umore giusto per lui, i suoi risultati e il suo tatto.

«Quindi» rispose Sam senza scomporsi, «Ken McClintock, quello della Dynamo, era a Singapore in aprile. Ove non lo sapeste, è lì che tutti gli operatori immobiliari più attivi si stanno dando da fare quest'anno. Perciò non era lui a fare le telefonate anonime dalle cabine di Dublino. E rammentate cosa ha detto Devlin della voce di quell'uomo? »

«Niente di particolarmente importante, per quello che ricordo» risposi.

«Non molto profonda» intervenne Cassie, «accento di provincia ma niente di caratteristico. Probabilmente di mezza età. » Era appoggiata allo schienale della sedia, con le gambe accavallate e le braccia mollemente incrociate dietro di sé. Con quel vestito elegante che si era messa per il tribunale appariva fuori posto nella sala operativa, come uscita da una foto scattata a una sfilata d'alta moda.

«Esatto. Quanto a Conor Roche, della Global, lui è di Cork, ha un accento incredibile e Devlin lo avrebbe riconosciuto immediatamente. E il suo socio, Jeff Barnes, è inglese, e fra l'altro ha la voce di un orso. Così rimane solo» Sam cerchiò il nome sulla lavagna con un abile svolazzo «Terence Andrews della Futura, cinquantatré anni, di Westmeath, vocina stridula da tenore. E indovinate dove abita? »

«In città » rispose Cassie, cominciando a sorridere.

«Attico sulle banchine. Beve al Gresham. Gli ho detto di stare attento quando torna a casa, non si sa mai con quei tipi di sinistra… Tutti e tre i telefoni pubblici sono proprio sul suo percorso. Ho trovato il mio uomo, ragazzi. »

 

Non ricordo cosa feci per il resto della giornata, forse rimasi alla scrivania a giocherellare con i fogli. Sam uscì per un altro dei suoi giri misteriosi e Cassie per seguire una pista poco promettente, portando O'Gorman con sé e lasciando il silenzioso Sweeney a occuparsi del telefono dei cittadini, cosa per cui le fui eternamente grato. Dopo il disastro delle ultime settimane, la sala operativa quasi deserta aveva un che di sinistro, come di abbandonato, con le scrivanie degli agenti di supporto che se ne erano andati ancora coperte di documenti e di tazze che avevano dimenticato di riportare alla mensa.

Mandai un SMS a Cassie dicendole che non mi sentivo bene e che quindi non sarei andato a cena da lei. Non sopportavo il pensiero della sollecitudine e del tatto che mi avrebbero riservato. Uscii dal lavoro per arrivare a casa prima di Heather – lei " fa Pilates" il lunedì sera ‑, le scrissi un biglietto dicendole che avevo il mal di testa e mi chiusi in camera. Heather si occupa della sua salute con una cura e un'attenzione minuziose, proprio come fanno alcune donne con le aiuole dei fiori o con le collezioni di porcellana, ma il lato positivo è che ha per i problemi fisici degli altri lo stesso rispetto sacrale che ha per i suoi: per quella sera mi avrebbe lasciato in pace e avrebbe tenuto basso il volume della televisione.

Oltre a tutto il resto, non riuscivo a togliermi di dosso la sensazione di aver bruciato la mia ultima occasione in tribunale: avevo sempre più l'impressione che la foto di Philomena Kavanagh presentata da MacSharry mi ricordasse qualcosa, ma non sapevo cosa. Sembrerà un problema minore, specie dopo una giornata come quella che avevo avuto, e sicuramente per qualcun altro sarebbe stato così. La maggior parte della gente non ha motivo di pensare che la memoria possa fare brutti scherzi, acquisire una forza propria con la quale bisogna fare i conti.

Perdere una fetta dei propri ricordi è una cosa insidiosa, è come un maremoto che provoca sconvolgimenti troppo distanti dall'epicentro per essere prevedibili. Dal quel giorno, ogni minima cosa che la memoria farà riaffiorare brillerà di un'aura ipnotica e terrificante: che si tratti di una sciocchezza, o del Big One che ti scuote la vita e ti apre la mente. Nel corso degli anni ero arrivato a fidarmi dell'equilibrio di quello status quo, proprio come le persone che vivono sulla linea di faglia, e a credere che, se non era ancora accaduto, il Big One non sarebbe mai arrivato. Ma da quando era sorto il caso Katy Devlin, piccoli rombi e tremori avevano cominciato a crescere, minacciosi, e io non potevo più fare affidamento sulle mie certezze. Forse la foto di Philomena Kavanagh mi ricordava la scena di un programma televisivo, oppure qualcosa di così terribile da spazzarmi la mente e lasciarmela vuota per vent'anni. Non avevo modo di saperlo.

Scoprii presto che non si trattava di nessuna delle due cose, e lo scoprii nel bel mezzo della notte, mentre mi dibattevo in un irrequieto dormiveglia. Mi colpì in modo così profondo che mi svegliai all'improvviso, con il cuore impazzito. Cercai l'interruttore dell'abat‑ jour e guardai il muro mentre piccoli ghirigori trasparenti mi passavano davanti agli occhi.

Anche prima di arrivare in prossimità della radura avevamo capito che c'era qualcosa di diverso, qualcosa che non andava. I rumori erano confusi e frastagliati, ce n'erano troppi e stratificati: borbottii, rantoli e strilli soffocati che diventavano piccoli scoppi selvatici, più minacciosi di un ruggito. «State giù » sibilò Peter e ci schiacciammo ancora di più contro il terreno. Radici e ramoscelli caduti dagli alberi ci graffiavano i vestiti e i piedi bollivano nelle scarpe da ginnastica. Una giornata calda, calda e immobile, il cielo che splendeva blu fra i rami. Strisciammo lentamente nel sottobosco: polvere in bocca, squarci di sole, il fastidioso e persistente balletto di una mosca che nell'orecchio produceva lo stesso rumore di una motosega. C'erano api da qualche parte, sulle more selvatiche poco distanti, un rivolo di sudore mi colava lungo la schiena. Peter avanzava con la cautela di un gatto, ne vedevo il gomito con la coda dell'occhio. Jamie, vicino a me, sbatteva le palpebre per gli steli d'erba in fiorescenza che le solleticavano la faccia.

C'era troppa gente nella radura. Megadeth teneva le braccia di Sandra contro il terreno, Occhiali da Sole le fermava le gambe e Anthrax era sopra di lei. La gonna le era salita attorno alla vita e aveva tutte le calze strappate. Oltre la spalla di Anthrax, vedevo che muoveva la bocca, spalancata e nera, parzialmente coperta dai capelli rosso‑ oro. Emetteva suoni strani, era come se tentasse di urlare e invece stava soffocando. Megadeth la colpì una volta, in modo secco, e lei smise.

Corremmo via senza preoccuparci di essere visti, e le grida non le sentimmo subito. «Cristo! » «Cazzo, andiamocene! » Io e Jamie incontrammo Sandra il giorno dopo, al negozio. Indossava un maglione molto grande e aveva macchie scure sotto agli occhi. Sapevamo che ci aveva visti, ma non ci guardammo negli occhi.

 

Era un'ora impossibile della notte, ma chiamai comunque Cassie sul cellulare.

«Stai bene? » mi rispose con voce assonnata.

«Sì, certo. Mi sono ricordato di una cosa, Cass. »

Sbadigliò. «Dio, sarà meglio che sia importante, cazzo. Ma che ore sono? »

«Non lo so. Ascolta. Quell'estate io, Peter e Jamie vedemmo Jonathan Devlin e i suoi amici che stupravano una ragazza. »

Ci fu una pausa. Poi Cassie disse, con voce molto più sveglia: «Ne sei certo? Forse non capiste bene…»

«No, ne sono certo. Lei provò a urlare ma uno di loro la colpì. La tenevano ferma. »

«E loro vi videro? »

«Sì, sì. Scappammo e ci urlarono dietro. »

«Cazzo» fu il suo commento. Sentii che stava lentamente afferrando la situazione: una ragazzina violentata, uno stupratore in famiglia, due testimoni svaniti. Eravamo a pochi passi da un mandato. «Cazzo… ben fatto, Ryan. Conosci il nome della ragazza? »

«Sandra qualcosa. »

«Quella di cui hai già parlato? Cominceremo a cercarla domani. »

«Cassie» dissi, «se questa pista dovesse portarci da qualche parte, come faremo a spiegare che ne eravamo a conoscenza? »

«Ascolta, Rob, non pensare a questo per il momento, okay? Se troviamo Sandra, sarà l'unica testimone di cui avremo bisogno. Altrimenti andiamo da Devlin e lo affrontiamo. Gli scaraventiamo in faccia tutti i particolari e lo mandiamo fuori di testa finché non confessa… il modo lo troviamo. »

Mi colpì che non avesse nemmeno provato a mettere in discussione i dettagli che le avevo fornito. Deglutii per impedire che mi tremasse la voce. «Qual è il termine di prescrizione per la violenza carnale? Possiamo inchiodarlo per quello anche se non abbiamo prove per l'altra faccenda? »

«Non mi ricordo. Lo scopriremo domattina. Adesso ce la fai a rimetterti a dormire o sei troppo su di giri? »

«Sono troppo su di giri» risposi. Ero nervoso fin quasi all'isterismo. Mi sentivo come se qualcuno mi avesse iniettato qualcosa di frizzante nel sangue. «Parliamo un po'? »

«Certo. » Sentii che smuoveva le lenzuola per sistemarsi più comodamente nel letto. Trovai la bottiglia di vodka e tenni il cellulare tra orecchio e spalla mentre me ne versavo un goccio. Non ci misi neppure un po' di tonic.

Mi parlò di quando aveva nove anni e aveva convinto tutti i bambini del vicinato che c'era un lupo magico sulle colline vicino al paese. «Dissi che avevo trovato una sua lettera sotto a un'asse del parquet in cui mi diceva che era lassù da quattrocento anni e che portava una mappa attorno al collo che ci avrebbe portati dritti al tesoro. Organizzai i bambini in una squadra – Dio, ero veramente una stronzetta comandina – e ogni weekend andavamo sulle colline alla ricerca di questo lupo. Ci capitava a volte di imbatterci in un cane da pastore e allora scappavamo via a perdifiato e finivamo nei corsi d'acqua, ridendo a crepapelle e divertendoci un mondo…»

Mi stiravo nel letto sorseggiando il mio drink. L'adrenalina stava dissolvendosi e il ritmo basso della voce di Cassie era confortevole. Mi sentivo caldo e piacevolmente esausto, come un bambino dopo una lunga giornata. «E magari non era neanche un cane da pastore o roba del genere» sono sicuro di averle sentito dire, «era troppo grande e completamente diverso, più selvatico» e subito dopo mi ero già addormentato.

 

Il giorno successivo cominciammo a darci da fare per rintracciare una Sandra o Alexandra vissuta a Knocknaree o dintorni nel 1984. Fu una delle mattinate più frustranti della mia vita. Chiamai l'ufficio anagrafe e parlai con una donna che con voce annoiata e fortemente nasale mi disse subito che non poteva fornirci indicazioni senza un mandato del tribunale. Quando, scaldandomi un po', le feci presente che si trattava dell'omicidio di una bambina, capì che non mi sarei arreso e solo allora mi concesse di parlarne con qualcun altro e mi mise in attesa, con in sottofondo la musichetta Eine Kleine Nachtmusik che sembrava suonata con un dito solo su un vecchio Casio. Ma anche la seconda donna interpellata ripeté che senza autorizzazione non avrei potuto ottenere niente da lei.

Di fronte a me, Cassie stava tentando dal canto suo una ricerca sul registro elettorale del 1988 della zona sudovest di Dublino – partendo dal presupposto che quello era presumibilmente l'anno in cui la nostra Sandra era stata abbastanza grande da votare ma non abbastanza per andarsene di casa ‑, più o meno con i miei stessi risultati. Mi arrivava di tanto in tanto il chiacchiericcio di una voce, forse preregistrata, che le diceva nella cornetta di attendere, che la sua telefonata era importante e sarebbe stata passata al più presto all'interno desiderato. Cassie era annoiata e irrequieta, cambiava posizione ogni trenta secondi, sedeva a gambe incrociate per poi appollaiarsi sul tavolo, infine ruotava la sedia finché non rimaneva impigliata nel filo del telefono. Quanto a me, vedevo un po' appannato a causa del poco sonno, ero tutto sudaticcio – il riscaldamento andava al massimo anche se fuori non faceva molto freddo, perché Bernadette sostiene sempre di essere di salute cagionevole – ed ero sul punto di mettermi a urlare.

«Be', andate affanculo» scoppiai infatti, alla fine, sbattendo giù la cornetta all'ennesima ripetizione di Eine Kleine Nachtmusik. Mi sarebbe rimasta in testa per settimane. «Tutto questo non ha alcun senso. »

«La sua irritazione è importante per noi» mimò Cassie, con la testa rovesciata sul poggiatesta, guardandomi da sotto in su, «e sarà esacerbata al più presto. La ringraziamo per l'attesa. »



  

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