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Tana French 14 страница



La domenica Cassie, Sam e io andammo al funerale di Katy. Il fatto che gli assassini siano attratti dalle tombe è per lo più una leggenda, ma, ci fosse stata anche la minima possibilità, valeva la pena andare, e in ogni caso O'Kelly ci aveva detto di presenziare, perché era positivo mantenere i contarti. La chiesa era stata costruita negli anni Settanta, quando il cemento veniva accettato come espressione artistica e quando sembrava che di lì a poco Knocknaree sarebbe diventata una grande metropoli. Era immensa, fredda e brutta, con rozze stazioni della Via Crucis semiastratte, gli echi che strisciavano tetramente verso il soffitto. Ce ne stavamo sul fondo, con addosso i nostri abiti scuri meno vistosi, e guardavamo la chiesa che si riempiva. Arrivarono contadini con il cappello in mano, vecchie donne col fazzoletto in testa e ragazzine alla moda che cercavano di apparire disincantate. La piccola bara bianca, terribile nei suoi profili dorati, era di fronte all'altare. Rosalind avanzò barcollando, con le spalle che sussultavano, sostenuta da Margaret da una parte e dalla zia Vera dall'altra. Dietro di loro, Jonathan, con gli occhi sbarrati, condusse Jessica verso la panca in prima fila.

Le candele sgocciolavano incessantemente la loro cera. L'aria odorava di bagnato, di incenso e di fiori che stavano avvizzendo. Mi girava la testa – avevo dimenticato di fare colazione – e mi sembrava di vedere l'intera scena come attraverso una lente di ingrandimento. Mi ci volle un po' per capire che in realtà dipendeva da un buon motivo: ero venuto a messa in quella chiesa ogni domenica per dodici anni, forse avevo anche presenziato a una cerimonia di suffragio per Peter e Jamie, seduto su una di quelle panche di legno. Cassie si soffiò furtivamente nella mani a coppa per scaldarsele.

Il giovane prete, con un'aria molto solenne, ce la stava mettendo tutta per adattarsi all'occasione con il suo misero arsenale di cliché da seminario e con le sue storie piene di significato ma chiaramente non vere («E mentre piangevo e urlavo contro mio padre per avermi tolto l'amato cucciolo che avevo trovato e curato, lui mi mise le braccia attorno alle spalle e mi disse: " Figliolo, non era nostro. Ti era stato dato per amarlo per un po' di tempo, ma hai sempre saputo che un giorno sarebbe dovuto tornare al suo vero proprietario, che lo ama ancora più di te…". »). Un coro di pallide ragazzine in uniforme scolastica – le compagne di scuola di Katy; ne avevo riconosciute alcune – era raggruppato spalla a spalla perché più coriste potessero leggere dallo stesso foglio degli inni. Questi erano stati scelti per dare conforto, ma le voci erano esili e incerte e alcune di loro continuavano a interrompersi. «Non temere, sono sempre davanti a te; tu seguimi…»

Mentre tornava dalla comunione, Simone Cameron incrociò il mio sguardo e mi fece un piccolo gesto con la testa; gli occhi dorati erano iniettati di sangue, mostruosi. I componenti della famiglia uscirono dalla panca a uno a uno per andare a deporre ricordi sulla bara: Margaret vi lasciò un libro, Jessica un peluche a forma di gatto rosso, Jonathan il disegno a matita che era stato appeso sopra il letto di Katy. Ultima, Rosalind si inginocchiò e lasciò sul coperchio un paio di scarpette rosa unite dal loro nastro. Le accarezzò delicatamente, poi piegò la testa sulla bara e pianse, i riccioli scuri che si spandevano sul bianco e sull'oro del feretro. Un debole, inumano gemito si levò dalla prima fila.

Fuori il cielo era di un bianco grigiastro e il vento staccava le foglie dagli alberi nel giardino della chiesa. I giornalisti spingevano dietro le transenne, le macchine fotografiche scattavano a raffica. Trovammo un angolo discreto e tenemmo d'occhio l'area e la folla ma, come c'era da aspettarsi, nessun campanello d'allarme risuonò nella nostra mente. «Quanta gente» constatò Sam a voce bassa. Era l'unico di noi che fosse andato a fare la comunione. «Domani facciamoci dare i rullini di questi ragazzi e vediamo se si è presentato qualcuno che non doveva esserci. »

«Non è qui» disse Cassie. Si infilò le mani nelle tasche della giacca. «A meno che non debba esserci per forza. Il nostro tipo non leggerà neanche i giornali. Cambierà argomento se qualcuno comincia a parlare del caso. »

Mentre scendeva lentamente la scalinata della chiesa, con un fazzoletto premuto sulla bocca, Rosalind sollevò la testa e ci vide. Si divincolò dalle braccia che la sostenevano e attraversò il prato di corsa, il lungo abito nero che fluttuava nel vento. «Detective Ryan…» Mi prese la mano tra le sue e sollevò il viso bagnato di lacrime verso di me. «Io non ce la faccio a sopportarlo. Lei deve prendere l'uomo che ha fatto questo a mia sorella. »

«Rosalind! » Il richiamo, giunto da qualche parte, era quello della voce roca di Jonathan, ma lei non spostò lo sguardo. Le sue mani avevano lunghe dita, erano morbide e molto fredde. «Faremo tutto il possibile» le assicurai. «Verrai da me domani? »

«Ci proverò. Mi dispiace per venerdì ma non ce l'ho fatta…» Lanciò una rapida occhiata da sopra la spalla. «Non sono riuscita a venire via. La prego, lo trovi, detective Ryan, la prego…»

Più che udirli, me li sentii addosso i flash delle macchine fotografiche. Una di quelle foto, il profilo rivolto verso l'alto e addolorato di Rosalind e un'immagine poco lusinghiera di me con la bocca aperta, comparve sulla prima pagina di un tabloid il giorno dopo, con LA PREGO, FACCIA GIUSTIZIA PER MIA SORELLA scritto sotto a lettere cubitali. Quigley ne approfittò per darmi il tormento per giorni.

 

In quelle prime settimane facemmo tutto ciò che era concepibile, ma proprio tutto. Fra noi, gli agenti di supporto e la polizia locale, parlammo con chiunque abitasse entro un raggio di quasi sette chilometri da Knocknaree e con tutti quelli che avessero mai conosciuto Katy. C'era una persona, in zona, con una diagnosi di schizofrenia, ma non aveva mai fatto del male a nessuno in vita sua, anche da quando non prendeva più le medicine, cioè da tre anni. Controllammo tutti i mittenti dei bigliettini con l'annuncio di messe in ricordo di Katy che i Devlin ricevettero, rintracciammo ogni singola persona che aveva contribuito alle tasse di Katy e istituimmo un servizio di sorveglianza per scoprire chi portava fiori alla pietra sacrificale.

Interrogammo le migliori amiche di Katy, Christina Murphy, Elisabeth McGinnis, Marianne Casey. Erano ragazzine coraggiose, un po' scosse e con gli occhi rossi, ma coraggiose. Purtroppo, non aggiunsero elementi utili. Le trovai comunque sconcertanti. Non sopporto le persone che si lamentano per come crescono in fretta i loro figli al giorno d'oggi: i miei nonni, dopotutto, lavoravano già a sedici anni e questo di certo ti fa entrare nell'età adulta molto prima di tutti i piercing di questo mondo. Le amiche di Katy, però, avevano un che di saggio, una tranquilla consapevolezza del mondo esterno che strideva con l'animalesca spensieratezza di cui ricordavo di aver goduto a quell'età. «Ci siamo domandate se Jessica non avesse per caso delle difficoltà d'apprendimento» disse Christina con il tono di una trentenne, «ma non volevamo chiederlo. Era… voglio dire, è stato un pedofilo a uccidere Katy? »

La risposta sembrava orientata al no. Nonostante il sospetto di Cassie che non si trattasse di un vero crimine a sfondo sessuale, controllammo tutti quelli che erano stati condannati per quel genere di reati nella zona sud di Dublino, oltre a molti altri che non eravamo mai riusciti a incastrare. Trascorremmo ore con le persone che avevano l'ingrato compito di individuare e intrappolare i pedofili online. La persona con la quale parlammo di più si chiamava Carl. Era un giovane magro, grande esperto di Internet e con un viso bianco e rugoso. Ci disse che dopo otto mesi di quel lavoro stava già pensando di mollare: aveva due figli sotto i sette anni e non riusciva più a guardarli nello stesso modo, si sentiva troppo sporco quando li abbracciava per dare loro la buona notte dopo una giornata passata a fare quello che faceva.

La rete, come la chiamava Carl, ronzava di speculazioni e strane frenesie su Katy Devlin, e ve ne risparmio i dettagli. Leggemmo centinaia di pagine di trascrizioni di chat, messaggi da un mondo alieno, oscuro e aggrovigliato, ma ne uscimmo a mani vuote. Un tipo sembrava simpatizzare un po' troppo con l'assassino di Katy: " Secondo me, lui LA AMAVA TROPPO ma lei non lo ha capito e lo ha fatto ARRABBIARE". Ma era on‑ line e stava enumerando i relativi meriti fisici delle bambine asiatiche rispetto a quelle europee quando Katy era morta. Cassie e io ci andammo giù pesanti col bere, quella sera.

Il gruppo di Sophie si recò a casa dei Devlin, per condurvi un'analisi approfondita, ufficialmente per raccogliere fibre e altro, a scopo eliminatorio, ma al ritorno riferirono di non aver trovato macchie di sangue e niente che somigliasse alla descrizione che ci aveva dato Cooper dell'oggetto usato per lo stupro. Io mi occupai della documentazione finanziaria: i Devlin vivevano modestamente (si erano permessi una vacanza di famiglia, a Creta, quattro anni prima con un prestito della Credit Union; c'erano le lezioni di danza di Katy e quelle di violino per Rosalind; possedevano una Toyota del '99) e non avevano praticamente risparmi, ma neppure debiti, il mutuo era quasi estinto e non c'erano mai stati arretrati con la bolletta del telefono. Non risultavano attività strane sul loro conto corrente, né esisteva un'assicurazione sulla vita di Katy. Nulla di nulla.

La linea telefonica per le informazioni alla polizia ricevette un numero record di chiamate, un'incredibile percentuale delle quali assolutamente inutile: persone con vicini di casa strani che rifiutavano di entrare nell'Associazione dei Residenti, gente che aveva visto loschi individui aggirarsi dall'altra parte del paese; i soliti pazzi assortiti che avevano avuto visioni dell'omicidio; un'altra porzione di matti che spiegavano in modo prolisso che questo era il giudizio di Dio sulla nostra peccaminosa società. Cassie e io trascorremmo un'intera mattinata su un tipo che aveva chiamato per dirci che il Padreterno aveva punito Katy per la sua sfacciataggine nel presentarsi in body a migliaia di lettori dell'" Irish Times". Avevamo riposto grandi speranze in lui: si rifiutò di parlare con Cassie, asserendo che le donne non dovrebbero lavorare e che persino i suoi jeans erano sfacciati. Lo standard di decoro femminile, mi informò con veemenza, era Nostra Signora di Fatima, ma il suo alibi era di ferro: aveva trascorso la serata del lunedì nel minuscolo distretto a luci rosse vicino a Baggot Street, ubriaco fradicio, gridando fuoco e fiamme alle prostitute e annotandosi i numeri di targa dei loro clienti. Era stato poi allontanato a forza dai magnaccia per ricominciare tutto da capo, fino a quando, verso le quattro del mattino, i poliziotti non lo avevano caricato in macchina e messo in cella a smaltire la sbornia. E la cosa pare accadesse almeno una volta al mese; tutti quelli che erano stati coinvolti nella cosa non ebbero difficoltà a confermarlo, aggiungendovi qualche pungente commento sulle sue probabili tendenze sessuali.

Furono settimane strane e assai disarticolate, difficili da spiegare anche dopo tutto questo tempo. In parte perché erano piene di piccole cose che in quel momento sembravano insignificanti e scollegate come il guazzabuglio di oggetti in un bizzarro gioco di società: visi, frasi, salotti e telefonate, il tutto in una visione sfuocata da luce stroboscopica: una telefonata urgente e senza fine, una stanza buia e archetipica con facce tremolanti che pronunciavano parole cruciali e tuttavia indistinguibili. Solo molto tempo dopo, alla fredda luce del senno di poi, le piccole cose avrebbero ripreso il loro posto in uno schema che avremmo dovuto vedere fin dall'inizio.

E in parte, immagino, perché trovo difficile descrivere quelle prime, strazianti settimane dell'Operazione Vestale. Anche se ci rifiutavamo di ammetterlo, il caso non stava andando da nessuna parte. Tutte le piste, dopo un po', ci portavano in un vicolo cieco e O'Kelly continuava a farci fervorini, gesticolando in maniera concitata – non potevamo permetterci di sbagliare su quel caso… quando il gioco diventava duro, i duri iniziavano a giocare ‑ come un allenatore alla squadra che si trova sotto di due a zero alla fine del primo tempo. I giornali invocavano giustizia e stampavano immagini di come Peter e Jamie sarebbero stati in quel momento se avessero avuto le orribili pettinature in voga in quel periodo. Ero più teso di quanto non fossi mai stato in tutta la mia vita.

Ma forse il vero motivo per cui mi è così difficile parlare di quelle settimane è che, nonostante tutto, nonostante sappia che è un compiacimento che non posso permettermi, mi mancano ancora.

 

Le piccole cose. Recuperammo la cartella clinica di Katy, ovviamente. Lei e Jessica erano nate premature di un paio di settimane, ma Katy se l'era cavata bene, e fino agli otto anni e mezzo aveva avuto solo le malattie tipiche dell'infanzia. Poi, di punto in bianco, aveva cominciato ad ammalarsi. Crampi allo stomaco, vomito, diarrea per giorni e giorni; in un mese era finita tre volte al pronto soccorso. Un anno prima, dopo un attacco particolarmente acuto, i medici le avevano praticato una laparotomia esplorativa: l'intervento che Cooper aveva visto, quello che l'aveva tenuta lontana dalla scuola di danza. Le avevano diagnosticato un " disturbo dell'intestino pseudo‑ ostruttivo idiopatico con mancanza di distensione atipica"; leggendo fra le righe, mi feci l'idea che avessero già scartato tutto e che non sapessero cosa avesse quella bambina.

«Sindrome di Mü nchhausen per procura? » chiesi a Cassie, che stava leggendo da sopra la mia spalla, con le braccia appoggiate allo schienale della sedia sulla quale ero seduto. Io, lei e Sam ci eravamo appropriati di un angolo della sala operativa, il più lontano possibile dal telefono delle informazioni alla polizia, dove potevamo avere un minimo di privacy se parlavamo a voce bassa.

Si strinse nelle spalle e fece una smorfia. «Potrebbe essere. Ma c'è qualcosa che non torna. La maggior parte delle madri con la sindrome di Mü nchhausen ha avuto esperienze pregresse che in qualche modo le ha messe a contatto con i farmaci. Lavorare come collaboratrice sanitaria, per esempio, o roba del genere. » Margaret, sulla base dei controlli sul suo passato, aveva lasciato la scuola a quindici anni e aveva lavorato nell'azienda di biscotti Jacobs fino a quando si era sposata. «E guarda i documenti di ricovero… Metà delle volte, Margaret non è nemmeno quella che ha accompagnato Katy in ospedale; sono stati Jonathan, Rosalind, Vera, una volta un insegnante… Per le madri con la sindrome di Mü nchhausen per procura, il punto è proprio l'attenzione e la comprensione da parte di medici e infermiere. Non avrebbe lasciato qualcun altro al centro di tutta quell'attenzione. »

«Quindi eliminiamo Margaret? »

Cassie sospirò. «Non corrisponde al profilo, ma non possiamo escluderla definitivamente; potrebbe essere l'eccezione. Mi piacerebbe dare un'occhiata alle cartelle cliniche delle altre ragazze. Le madri affette da questa sindrome di solito non si focalizzano su un figlio e lasciano stare gli altri. Passano da uno all'altro per evitare sospetti, oppure iniziano con il più grande e poi proseguono con il successivo quando il primo diventa grande abbastanza da protestare. Se è Margaret, ci sarà qualcosa di strano anche nei documenti delle altre due, come ad esempio questa primavera, quando ha smesso di stare male Katy e ha cominciato Jessica… chiediamo ai genitori se possiamo vedere le cartelle delle altre. »

«No. » Sembrava che tutti gli agenti di supporto si fossero messi a parlare nello stesso momento e il rumore era come una nebbia pesante che mi avvolgeva il cervello. Non riuscivo a concentrarmi. «I Devlin non sanno di essere sospettati. Preferirei che rimanesse così, almeno finché non avremo qualcosa di concreto. Se andassimo a chiedere le cartelle di Rosalind e Jessica, potrebbero subodorare qualcosa. »

«Qualcosa di concreto» ripeté Cassie. Guardò il tavolo ingombro di carte (suddivisioni computerizzate di argomenti, appunti a mano, fotocopie macchiate d'inchiostro), poi la lavagna bianca che era già tutto un fiorire multicolore di nomi, numeri di telefono, frecce, punti interrogativi e sottolineature.

«Sì » dissi, «lo so. »

 

Anche le pagelle scolastiche delle figlie dei Devlin avevano un che di ambiguo e beffardo. Katy era brava ma non eccezionale, prendeva dei " buono" e qualche " discreto" in Irlandese e " ottimo" in educazione fisica; nessun problema di condotta al di là della tendenza a chiacchierare in classe, nessuna bandierina rossa a parte le tante assenze. Rosalind sembrava essere più intelligente, ma anche più irregolare: fiumi di " ottimo", interrotti da folti gruppi di " discreto" o " sufficiente" e commenti di insegnanti frustrate dalla mancanza di impegno e dal fatto che saltasse le lezioni. Ovviamente, il fascicolo su Jessica era quello più voluminoso. Era stata inserita nella classe " morbida" fin da quando lei e Katy avevano nove anni, ma Jonathan aveva apparentemente messo in croce quelli della sanità e della scuola a tal punto che l'avevano sottoposta a una lunga serie di test: il suo quoziente di intelligenza era fra 90 e 105 e non c'erano problemi neurologici. Nella cartella si leggeva: " Difficoltà d'apprendimento non specifiche con tratti autistici".

«Cosa ne pensi? » chiesi a Cassie.

«Penso che questa famiglia diventa sempre più strana. Secondo quello che è scritto qui, se c'è una di loro che ha subito abusi quella è sicuramente Jessica. Bambina assolutamente normale fino all'età di sette anni; poi, all'improvviso, bum, andamento scolastico e socialità cominciano a precipitare. È decisamente troppo tardi perché si tratti di autismo, ma è una reazione da manuale a qualche tipo di abuso continuato. E Rosalind? Tutti quegli alti e bassi potrebbero essere normali se si tiene conto dei mutamenti di umore degli adolescenti, ma potrebbero anche essere una sua risposta a qualcosa di poco chiaro che sta accadendo in casa. L'unica che sembra star bene… be', psicologicamente… è Katy. »

Colsi qualcosa di scuro con la coda dell'occhio e mi girai di scatto, facendo volare la penna sul pavimento. «Ehi» fece Sam, stupito. «Sono io. »

«Cristo! » esclamai. Il cuore mi batteva all'impazzata. Gli occhi di Cassie, dall'altra parte del tavolo, non lasciarono trasparire nulla. Recuperai la penna. «Non mi ero accorto che eri lì. Che cos'hai? »

«I tabulati telefonici dei Devlin» rispose Sam, mostrando i fogli che aveva in entrambe le mani. «In uscita e in entrata. » Li depositò sul tavolo, in due mucchi, e li mise a posto con cura. Aveva contrassegnato le pagine con numeri dai colori diversi e aveva effettuato delle sottolineature con l'evidenziatore.

«Che periodo? » domandò Cassie curvandosi sul tavolo per guardare le pagine messe a rovescio.

«Da marzo. »

«Tutto lì? Sei mesi di telefonate? »

Era stata la prima cosa che avevo notato anch'io: quanto fossero sottili quelle pile di fogli. In una famiglia di cinque persone, con tre ragazze adolescenti, di certo il telefono doveva essere stato sempre occupato, con qualcuno che urlava di continuo a qualcun altro di riattaccare. Pensai al silenzio da fondale marino che avevo notato in quella casa il giorno in cui era stato rinvenuto il corpo di Katy, con la zia Vera che si aggirava nell'ingresso. «Sì, lo so» disse Sam. «Forse usano i cellulari. »

«Forse. » Ma anche Cassie, come me, non sembrava convinta. Quasi sempre, quando una famiglia si taglia fuori dal resto del mondo, è perché c'è qualcosa che non va. «Ma costano molto. E ci sono due telefoni in quella casa, uno al pianterreno, vicino al guardaroba, e uno sul pianerottolo al piano superiore, con il filo lungo per portarlo in tutte le camere da letto. Non c'è bisogno di un cellulare per avere un po' di privacy. »

Avevamo già controllato i tabulati telefonici del cellulare di Katy. Le davano una paghetta apposta, dieci euro di traffico ogni due domeniche. L'aveva usato quasi tutto per inviare SMS alle sue amiche e avevamo ricostruito le lunghe conversazioni criptate e piene di abbreviazioni su compiti, pettegolezzi della classe, trasmissioni televisive; nessun numero non identificato, nessuna bandierina rossa.

«Che cosa hai evidenziato? » chiesi.

«Ho creato rimandi con i numeri conosciuti e ho tentato di dividere le chiamate per membro della famiglia. Sembra che Katy fosse quella che usava di più il telefono: i numeri in giallo sono quelli delle sue amiche. » Scorsi i fogli. L'evidenziatore giallo aveva lavorato su almeno la metà di ogni pagina. «Il blu è per le sorelle di Margaret, una sta a Kilkenny e l'altra, Vera, qui, dalla parte opposta dell'abitato. Il verde è per la sorella di Jonathan, ad Athlone, la casa di ricovero in cui stava la loro madre, e per i membri del comitato " Spostiamo l'autostrada". Il viola è per l'amica di Rosalind, Karen Daly, quella da cui era andata quando era scappata di casa. Dopo quell'episodio, le loro telefonate si sono ridotte di numero. Penso che a Karen non abbia fatto molto piacere essere messa in mezzo a un casino di famiglia, anche se per alcune settimane ha continuato a chiamare Rosalind. È Rosalind a non richiamare. »

«Forse non le era permesso» suggerii. Magari era per lo spavento che mi aveva procurato Sam, ma il cuore mi stava ancora battendo troppo forte e sentivo in bocca il sapore del pericolo.

Sam annuì. «Magari i genitori pensavano che Karen potesse avere una cattiva influenza su di lei. Comunque, le chiamate sono tutte qui, oltre a quelle di una compagnia telefonica che tentava di convincerli a cambiare gestore… e queste tre. » Sparse i fogli delle chiamate in arrivo: tre righe rosa. «Le date, gli orari e la durata corrispondono a quelli che ci ha fornito Devlin. Sono tutte da telefoni pubblici. »

«Merda» disse Cassie.

«Dove? » chiesi.

«In centro. Il primo è sulle banchine, vicino al complesso dei servizi finanziari; il secondo è in O'Connell Street; il terzo si trova fra i primi due, anche questo lungo le banchine. »

«In altre parole» dissi, «il tipo che fa le telefonate non è uno di quelli incazzati per il valore delle case. »

«Direi di no. Visti gli orari, chiama mentre torna a casa dal pub. Immagino che anche uno di Knocknaree potrebbe andare a bere in città, ma non mi sembra plausibile, almeno non in modo regolare. Chiederò un controllo, per essere sicuri, ma per ora immagino che sia qualcuno il cui interesse per l'autostrada sia esclusivamente lavorativo, non personale. E se fossi uno che scommette, direi che vive lungo le banchine. »

«Il nostro assassino è quasi sicuramente del posto» disse Cassie.

Sam annuì. «Però potrebbe anche aver chiesto a uno del posto di compiere l'omicidio. È quello che avrei fatto io. » Cassie colse la mia occhiata e mi guardò negli occhi: il pensiero di Sam che seguiva la pista dell'esecutore prezzolato era irresistibile. «Quando scoprirò chi possiede il terreno, vedrò anche di scoprire se ha parlato con qualcuno di Knocknaree. »

«A che punto sei? » chiesi.

«Oh, ma certo…» Fece allegramente Sam. «Ci sto lavorando. »

«Un momento» saltò su all'improvviso Cassie. «A chi telefona Jessica? »

«A nessuno, per quello che posso dire. » Sam assemblò con cura i fogli e se li portò via.

 

Rosalind Devlin venne quel martedì, all'ora di pranzo. Nessuna telefonata, nessun appuntamento, solo Bernadette che mi informava con un vago atteggiamento di disapprovazione che c'era una ragazza che voleva vedermi. Io sapevo però che era lei, e il fatto che fosse spuntata così, di punto in bianco, sapeva in qualche modo di disperazione, di un'urgenza clandestina. Mollai quello che stavo facendo e scesi al piano di sotto, ignorando le occhiate interrogative di Cassie e Sam.

Rosalind stava aspettando alla reception. Aveva una pashmina color verde smeraldo attorno alle spalle. Il volto, girato a guardare fuori dalla finestra, era malinconico e distante. Era troppo giovane per saperlo, ma si trattava di un'immagine molto bella: la cascata di riccioli castani e la macchia verde stagliate contro i mattoni e le pietre del cortile illuminato dal sole… Tralasciando l'aspetto estremamente funzionale dell'atrio, la scena avrebbe potuto figurare direttamente su un biglietto di auguri preraffaellita.

«Rosalind» l'accolsi.

Si girò, una mano sul petto. «Oh, detective Ryan! Mi ha spaventata… Grazie per avermi ricevuta. »

«Nessun problema» le dissi. «Vieni su, così possiamo parlare. »

«Ne è sicuro? Non voglio causarle disturbo. Se è troppo impegnato, me lo dica che me ne vado. »

«Assolutamente no. Posso offrirti una tazza di tè? Caffè? »

«Un caffè andrà benissimo. Ma dobbiamo proprio…? È una giornata così bella e io sono un po' claustrofobica… non mi piace dirlo in giro, ma… non potremmo andare fuori? »

Non era la procedura standard ma, del resto, pensai, non era una sospettata e nemmeno una testimone. «Certo» le risposi, «solo un secondo» e corsi su a prendere il caffè. Avevo dimenticato di chiederle come lo voleva, così aggiunsi un po' di latte e mi misi due bustine di zucchero in tasca, per essere sicuro.

«Tieni» le dissi, porgendoglielo, quando ridiscesi. «Ci troviamo un posto in giardino? »

Bevve un sorso di caffè e provò a nascondere una piccola smorfia di ripugnanza. «Lo so che fa schifo» le dissi.

«No, no, va bene, è solo che… be', non ci metto il latte di solito, ma…»

«Ops» mi scusai. «Mi dispiace. Vuoi che te ne prenda un altro? »

«Oh, no! Va benissimo così, detective Ryan, davvero. In realtà non avevo bisogno di un caffè. Lo prenda lei, questo. Non voglio causarle problemi; è fantastico che mi abbia potuto ricevere, non deve preoccuparsi troppo…» Stava parlando troppo in fretta e a voce troppo alta, come sono soliti fare i logorroici; faceva svolazzare le mani e sosteneva il mio sguardo troppo a lungo senza battere ciglio, come se fosse ipnotizzata. Era decisamente molto nervosa, e stava cercando di mascherarlo.

«Non c'è nessun problema» la rassicurai. «Facciamo così: ci troviamo un posto carino per sederci e ti porto un'altra tazza di caffè. Farà ancora schifo, ma almeno sarà nero. Cosa ne dici? » Rosalind mi sorrise con gratitudine, e per un momento ebbi la strana sensazione che quel piccolo gesto di premura l'avesse quasi commossa.

Scesi in giardino, trovammo una panchina al sole; gli uccelli sfrecciavano stridendo dalle siepi per avventarsi sulle briciole dei sandwich. Lasciai Rosalind e tornai indietro a prendere un altro caffè. Ci misi un po' di tempo, di proposito, per darle la possibilità di tranquillizzarsi. Quando ritornai però era ancora seduta sul bordo della panchina, si mordeva un labbro e stava strappando i petali di una margherita.

«Grazie» mi disse. Prese il caffè e provò a sorridere. Mi sedetti accanto a lei. «Detective Ryan, ha… ha scoperto chi ha ucciso mia sorella? »

«Non ancora» risposi. «Ma è presto. Ti prometto che faremo del nostro meglio. »

«So che lo prenderete, detective Ryan. L'ho capito nel momento in cui l'ho vista. Riesco a capire un sacco di cose sulle persone dalla prima impressione… a volte mi spaventa constatare che ho ragione così spesso… e ho intuito immediatamente che lei era la persona di cui avevamo bisogno. »

Mi stava guardando con una fede pura e incontaminata negli occhi. Mi sentii lusingato, ovviamente. Trovatemi voi un uomo a cui non piaccia essere l'eroe di una bella ragazza. Allo stesso tempo, però, quella fiducia mi faceva sentire a disagio. Era così sicura, e così disperatamente vulnerabile. Benché cercassi di non pensarci, sapevo bene che c'era la possibilità che il caso non venisse mai risolto e quale sarebbe stato l'effetto che avrebbe prodotto su di lei.

«Io l'ho sognata, detective» proseguì Rosalind, e abbassò gli occhi, imbarazzata. «La notte dopo il funerale di Katy. Non avevo dormito più di un'ora per notte da quando era scomparsa, sa. Ero… oh, ero fuori di me. Ma vedere lei, quel giorno… mi ha ricordato che non devo arrendermi. Quella notte ho sognato che lei bussava alla nostra porta e mi diceva che aveva preso il colpevole. Era nell'auto della polizia, alle sue spalle, e lei mi diceva che non avrebbe più fatto del male a nessuno. »



  

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