Хелпикс

Главная

Контакты

Случайная статья





Tana French 13 страница



«Ed è vero» mi interruppe Cassie. Lasciò gli appunti di Cooper, si tirò su e si mise sul futon. «E non sbattevo gli occhioni. Quando lo farò, te ne accorgerai, eccome se te ne accorgerai. »

«Quindi, preghi anche tu il Dio del Patrimonio storico? »

«No, scemo che non sei altro. Zitto e ascolta. Ho una teoria su Mark. » Cassie si tolse le scarpe, le scalciò via e ripiegò i piedi sotto il sedere.

«Oh, Dio» esclamai. «Sam, spero che tu non abbia fretta. »

«Ho sempre tempo per una teoria che funziona» rispose Sam. «Posso avere da bere, tanto per accompagnare la cosa, se abbiamo finito di lavorare? »

«Ottima mossa» gli dissi.

Cassie mi diede una spinta col piede. «Trova del whisky o quello che ti pare. » Le ributtai indietro il piede e mi alzai. «Okay» cominciò, «dobbiamo tutti credere in qualcosa, no? »

«Perché? » chiesi, in tono polemico. Trovavo la situazione al tempo stesso stimolante e un po' sconcertante. Io non sono religioso, e neppure Cassie, per quel che ne sapevo.

«Perché sì. È sempre stato così, in tutte le società del mondo non è mai mancata una qualche forma di credenza. Ma ora… quanta gente conosci che è cristiana, e non dico perché va in chiesa, intendo veramente cristiana, che cerca di fare le cose così come le avrebbe fatte Gesù Cristo? E non è che la gente possa aver fede nelle ideologie politiche. Il nostro governo non ce l'ha neanche, un'ideologia, per quel che vedo io…»

«Le bustarelle» dissi, da sopra la spalla. «Ecco un'ideologia. »

«Ehi» protestò Sam in tono mite.

«Scusa» dissi. «Non intendevo nessuno in particolare. » Annuì.

«Neanch'io, Sam» disse Cassie. «Volevo solo dire che non c'è una filosofia generale. Così la gente deve farsela, la propria fede. »

Trovai whisky, Coca, ghiaccio e tre bicchieri e portai il tutto in un solo viaggio sul tavolino da caffè. «Che intendi? Le nuove chiese? Tutti quegli yuppy new age che fanno sesso tantrico e applicano il feng shui ai loro SUV? »

«Anche loro, sì, ma pensavo soprattutto alla gente che tira fuori una religione da qualcosa di completamente diverso. Come il denaro. È la cosa più vicina all'ideologia che ha il governo, e non sto parlando di bustarelle, Sam. Oggi non è solo una sfortuna avere un lavoro pagato poco, l'hai notato? È una cosa da irresponsabili: non sei un buon membro della società, sei un essere davvero spregevole se non hai una casa grande e il macchinone. »

«Ma se chiedi l'aumento» mi intromisi, dando una gran botta allo stampo dei cubetti di ghiaccio, «sei il birbante che minaccia i margini di profitto del tuo datore di lavoro, dopo tutto quello che lui ha fatto per l'economia. »

«Esattamente. Se non sei ricco, sei un essere inferiore che non dovrebbe avere la pretesa di aspettarsi uno stipendio decente da noi, gente per bene. »

«Avanti, su» disse Sam. «Non credo che vada così male. »

Seguì un breve, educato silenzio durante il quale raccolsi i cubetti di ghiaccio che si erano sparpagliati sul tavolino. Sam è per natura un inguaribile ottimista, ma proviene anche dal tipo di famiglia che possiede case a Ballsbridge; le sue opinioni sulle questioni socio‑ economiche, per quanto rispettabili, non potevano essere considerate propriamente oggettive.

«L'altra grande religione di questi tempi» continuò Cassie, «è il corpo. Tutti quegli spot pubblicitari tanto paternalistici e gli editoriali sul bere, sul fumo, sulla forma fisica…»

Stavo versando e intanto guardavo Sam perché mi indicasse quando fermarmi. Sollevò una mano e mi sorrise quando gli passai il bicchiere. «Mi fanno sempre venire voglia di vedere quante sigarette riesco a infilarmi in bocca, tutte in una volta» dissi. Cassie aveva allungato le gambe sul futon; io gliele spostai per potermi sedere, me le rimisi in grembo e cominciai a farla bere, tanto ghiaccio e tanta Coca.

«Anche a me. Ma quei servizi non si limitano a dire che certe cose fanno male alla salute, dicono anche che sono moralmente sbagliate. Dicono, sostanzialmente, che saresti una persona migliore se avessi la corretta percentuale di grasso corporeo e se facessi ginnastica un'ora al giorno, per non parlare di quella mostruosa serie di spot pieni di sussiego in cui si dice che non solo fumare è una cosa stupida da fare ma è anche, letteralmente, maligna. La gente ha bisogno di un codice morale che l'aiuti a prendere le decisioni; tutta questa virtù da yogurt biologico e questo moralismo finanziario servono solo a colmare un vuoto nel mercato. Ma il problema è che è tutto alla rovescia. Non è che fai la cosa giusta perché speri che ti ripaghi; la cosa moralmente giusta è per definizione quella che ti ripaga maggiormente. »

«Bevi, dai» le ordinai. Era tutta eccitata e gesticolava, si sporgeva in avanti, non pensava neanche più al bicchiere che aveva in mano. «Ma questo cos'ha a che vedere con quel matto di Mark? »

«Non è matto, zitto tu. » Cassie mi fece una boccaccia e prese un sorso dal bicchiere. «Sentite, Mark crede nell'archeologia, nel suo patrimonio storico. Quella è la sua fede. Non è una qualche astratta serie di principi e non riguarda il suo corpo o il suo conto in banca; è una parte concreta della sua vita, ogni giorno, che lo ripaghi oppure no. Lui ci vive dentro. Non è una follia, è sanità, e c'è qualcosa di sbagliato in una società dove le persone pensano che sia una cosa strana. »

«Quel tipo ha versato una cazzo di libagione a un dio dell'Età del Bronzo» precisai. «Non credo che ci sia qualcosa di particolarmente sbagliato in me se considero la cosa un po' strana. Dai, Sam, sostienimi. »

«Io? » Sam si era accomodato sul divano, ascoltava la conversazione e intanto, con la mano allungata, giochicchiava col mucchietto di sassi e conchiglie che stavano sul davanzale della finestra. «Io direi solo che è giovane. Con una moglie e qualche bambino si tranquillizzerà. »

Cassie e io ci guardammo e cominciammo a ridere. «Cosa? » fece lui.

«Niente» dissi. «Davvero! »

«Mi piacerebbe farti incontrare Mark e farvi bere un paio di pinte assieme» aggiunse Cassie.

«Lo rimetterei in riga in fretta» dichiarò Sam con pacatezza, il che ci fece ricominciare a ridere. Mi appoggiai con la schiena al futon e bevvi un sorso. Mi stavo proprio godendo quella conversazione. Era una bella serata, una serata allegra; una leggera pioggia batteva contro i vetri, Billie Holiday cantava in sottofondo ed ero contento, dopo tutto, che Cassie avesse invitato Sam. Stavo cominciando ad apprezzarlo di più. Tutti, decisi, dovrebbero avere un Sam intorno.

«Credi seriamente che dovremmo escludere Mark? » chiesi a Cassie. «Davvero? »

Bevve un sorso dal suo drink e si mise il bicchiere in equilibrio sullo stomaco. «Francamente, sì » rispose. «Indipendentemente dalla faccenda della follia. Come dicevo, ho la netta sensazione che chiunque sia stato, non fosse troppo convinto. Non riesco a immaginare Mark poco convinto su nulla, almeno nulla che lui ritenga importante. »

«Fortunato, questo Mark» commentò Sam, sorridendole dall'altro lato del tavolino.

 

«Allora» chiese Sam, più tardi, «come vi siete conosciuti, tu e Cassie? » Si sistemò meglio sul divano e allungò una mano verso il suo bicchiere.

«Come? » dissi. Era una domanda bizzarra, così dal nulla, e a essere onesti mi ero quasi dimenticato che Sam fosse lì. Cassie ha sempre in casa della roba buona da bere, del setoso whisky del Connemara che sa di fumo di torba, ed eravamo tutti un po' alticci; la conversazione stava cominciando languidamente a scemare. Sam si era disteso per leggere i titoli dei malandati tascabili nella libreria; io me ne stavo sdraiato sul futon, a pensare a niente di più arduo della musica. Cassie era in bagno. «Oh… quando è entrata nella squadra. Il suo motorino una sera non partiva e le ho dato un passaggio. »

«Ah, bene. » Sam sembrava un po' turbato, il che non era da lui. «All'inizio pensavo infatti che fosse così, che non vi conosceste da prima. Invece sembra che vi conosciate da secoli, così mi chiedevo se foste vecchi amici o… sì, insomma, hai capito. »

«Ci capita spesso» dissi. Era vero, la gente tendeva a dare per scontato che fossimo cugini o che fossimo cresciuti insieme o qualcosa del genere, e la cosa mi ha sempre riempito di una gioia privata e irragionevole. «Be'… ci siamo trovati molto bene, tutto qua. »

Sam annuì. «Tu e Cassie…» cominciò e si schiarì la gola.

«Cosa avrei fatto, io? » chiese sospettosa Cassie, allontanando i miei piedi per rimettersi sedere.

«Lo sa il cielo» risposi.

«Stavo solo chiedendo a Rob se vi conoscevate già prima di entrare alla Omicidi» spiegò Sam. «Dall'università o roba del genere. »

«Non sono andato all'università » precisai. Avevo l'impressione di sapere cosa era stato sul punto di chiedermi, ma anch'io gli avrei chiesto qualcosa, se solo Cassie non fosse tornata proprio in quel momento e se fossi stato in grado di trovare le parole giuste.

«Davvero? » si stupì Sam, ma cercò di non darlo a vedere. Questo è quello che volevo dire sulla faccenda dell'accento. «Pensavo al Trinity, che ne so, magari eravate andati a lezione insieme, o…»

«Mica eravamo gli unici due sulla faccia della terra, tipo Adamo ed Eva» disse Cassie con tono piatto, il che, dopo un raggelato istante, ci scatenò una ridarella impossibile da frenare, con gli sbuffi dal naso come capita ai bambini. Sam scosse la testa e sorrise.

«Uno più matto dell'altra» commentò, alzandosi per andare a svuotare il posacenere.

 

Era vero quello che avevo detto a Sam: non c'ero andato all'università. Presi la maturità per miracolo e con il voto ottenuto forse mi avrebbero accettato in una facoltà, da qualche parte, ma in realtà non feci domanda. Dissi a tutti che mi prendevo un anno sabbatico e i miei genitori, grati, colsero al volo l'espressione e la usarono come motivazione ufficiale, ripetendola a tutti i loro amici. La verità era che non volevo fare nulla, assolutamente nulla, il più a lungo possibile, magari per il resto della vita.

Charlie andò a studiare economia a Londra, così lo seguii: non c'erano altri luoghi dove dovessi o volessi stare. Suo padre gli pagava l'affitto di un lussuoso appartamento con i pavimenti di legno duro e il portiere che io in nessun modo mi sarei potuto permettere. Così mi cercai uno squallido monolocale in una zona di media pericolosità e Charlie si trovò un compagno d'appartamento, uno studente olandese in Erasmus che sarebbe tornato a casa a Natale. Il piano era che a quel punto mi sarei messo a lavorare per poter andare a vivere da lui, ma molto prima che arrivasse Natale fu chiaro che non mi sarei trasferito da nessuna parte, non solo per i soldi, ma perché, inaspettatamente, mi ero innamorato del mio loculo e della mia vita irregolare e alla deriva.

Dopo il collegio, la solitudine si rivelò inebriante. La prima notte che passai là, restai per ore steso sulla moquette appiccicosa, nella pozza arancione torbido del bagliore della città che entrava dalla finestra, a sentire gli esaltanti odori di spezie che si incuneavano nel corridoio, a individuare immagini misteriose nelle crepe del soffitto, ad ascoltare due tipi che, fuori, urlavano in russo e qualcuno che si esercitava a suonare il violino, e lentamente mi resi conto che non c'era una sola persona al mondo che potesse vedermi o chiedermi cosa stessi facendo o dirmi di fare altro. Mi sentivo come se il mio monolocale da un momento all'altro si potesse staccare dal palazzo dentro una bolla di sapone luminosa per allontanarsi nella notte, rimbalzando mollemente sui tetti, sul fiume e sulle stelle.

Rimasi lì per quasi due anni. Per la maggior parte del tempo vivevo col sussidio di disoccupazione; di tanto in tanto, quando cominciavano a rompermi le scatole, o se volevo dei soldi per far colpo su una ragazza, lavoravo qualche settimana come traslocatore o come manovale. Non avevo bisogno di granché; i pochi abiti che avevo provenivano essenzialmente da negozi di vendite di beneficenza, potevo vivere perfettamente felice nutrendomi di spaghetti in scatola con sugo di carne e un po' di alcol ogni tanto e non è che frequentassi pub, discoteche o locali del genere. Inevitabilmente, Charlie e io ci allontanammo, e credo che la cosa cominciò la prima volta che, sconvolto, vide il monolocale in cui vivevo. Ci incontravamo per una pinta ogni dieci, quindici giorni e di tanto in tanto andavo a delle feste con lui e i suoi nuovi amici. Era in quelle occasioni che conoscevo gran parte delle ragazze e fu in una di quelle occasioni che conobbi anche l'angosciata Gemma col suo problema d'alcolismo. A quelle feste sarei forse potuto andarci più spesso, ma non ne avevo voglia. Erano gente simpatica, i suoi amici dell'università, ma parlavano un linguaggio che non capivo né ambivo di capire, pieno di battute chiare solo alla loro ristretta cerchia, abbreviazioni e pacche sulle spalle. Mi riusciva difficile dedicare loro la mia attenzione.

Non sono certo di ciò che feci in quei due anni. Per un bel po' di tempo, credo, nulla. So che questo è impensabile nella nostra società: avrei dovuto fare qualcosa e contribuire all'economia, qualsiasi cosa, o almeno migliorare la mia salute cardiovascolare, ma avevo scoperto in me un talento per una meravigliosa e impenitente pigrizia, del tipo che la maggior parte della gente non conosce più dopo l'infanzia. Avevo un prisma appeso alla finestra (l'avevo trovato in un negozietto che vendeva un po' di tutto a Camden; credo che in origine facesse parte di un candelabro) e passavo pomeriggi interi disteso sul letto a osservare le piccole scaglie di arcobaleno che lanciava per la stanza.

Lessi moltissimo. Ho sempre letto molto, il voto più alto della maturità era quello in letteratura inglese, ma in quei due anni mi abbuffai di libri con un'ingordigia voluttuosa, quasi erotica. Andavo alla biblioteca di quartiere e prendevo quanti più libri potevo. C'era una bibliotecaria con un forte istinto materno, alla quale dispiaceva vedere i buchi nei miei jeans, che me ne lasciava prendere più del lecito, di nascosto. Poi mi chiudevo nel mio monolocale e non facevo che leggere per una settimana. Preferivo i libri vecchi, più lo erano meglio era: Tolstoj, Poe, le tragedie del periodo di Giacomo I, una polverosa traduzione di Laclos. Quando alla fine riemergevo, annebbiato e confuso, mi ci volevano giorni per smettere di pensare con i loro ritmi algidi, rifiniti e cristallini.

Guardai anche tantissima TV. Non so perché, ma nell'affitto era inclusa la TV via cavo e nel corso del secondo anno mi appassionai ai documentari sui crimini veri che mandavano in onda la sera tardi, soprattutto su Discovery Channel: non per i crimini in se stessi, che avevo sempre trovato incredibilmente squallidi e primitivi, ma per le intricate strutture delle soluzioni. Amavo il coinvolgimento stabile e intenso con il quale quegli uomini – abili bostoniani dell'FBI, panciuti sceriffi texani – districavano con cura i fili e univano i pezzi del puzzle, fino a quando tutto andava al proprio posto e la risposta saltava fuori ai loro ordini e galleggiava nell'aria davanti a loro, brillante e inoppugnabile. Erano come dei maghi che gettavano una manciata di straccetti in un cilindro, lo percuotevano con la loro bacchetta e, tra squilli di trombe, sfilavano poi una striscia di seta perfetta; solo che qui era mille volte meglio perché le risposte erano vere, vitali e non c'erano trucchi, o perlomeno così pensavo io.

Sapevo che nella vita vera non funzionava così, non tutte le volte, almeno, ma mi colpì come una cosa sbalorditiva il fatto che potesse esserci un lavoro in cui esistesse persino una possibilità del genere. Quando, tutto nello stesso mese, Charlie si fidanzò, la padrona di casa mi comunicò che vendeva lo stabile e l'ufficio che emetteva gli assegni di disoccupazione mi informò che con gente come me non avrebbero più avuto nulla a che fare, mi parve ovvio reagire tornando in Irlanda, fare domanda alla scuola di polizia di Templemore e mettermi in fila per diventare detective. Non mi mancava il mio monolocale – al pianterreno si era trasferito un tipo che adorava dell'orribile musica rap, e comunque avevo cominciato ad annoiarmi ‑, ricordo però ancora quei due anni meravigliosi, irresponsabili, autoindulgenti, come uno dei periodi più felici della mia vita.

 

Sam se ne andò intorno alle 23. 30; Ballsbridge è a pochi minuti a piedi da Sandymount. Mi lanciò una breve occhiata interrogativa, mentre si metteva la giacca. «Tu da che parti vai? »

«Mi sa che hai perso l'ultimo treno» mi disse tranquillamente Cassie. «Puoi sistemarti sul divano, se vuoi. »

Avrei potuto dirle che me ne sarei tornato a casa in taxi, ma decisi che forse aveva ragione lei: Sam non era Quigley, non saremmo arrivati in ufficio la mattina dopo accolti da sorrisetti e doppi sensi, mica poi tanto doppi. «Credo anch'io» concordai dando un'occhiata all'orologio. «Ti dispiace? »

Se Sam rimase stupito, lo nascose bene. «Ci vediamo domattina, allora» salutò allegramente. «Dormite bene. »

«Gli piaci» dissi a Cassie, quando se ne fu andato.

«Dio santo, quanto sei prevedibile» rispose, frugando nell'armadio in cerca di un piumino in più e della maglietta che lascio sempre lì.

«" Oh, fammi sentire cos'ha da dire Cassie… Oh, Cassie, sei così brava…" »

«Ryan, se Dio mi avesse voluta con un orribile fratello adolescente, me ne avrebbe rifilato uno. E poi il tuo accento di Galway fa schifo. »

«Anche a te lui piace? »

«Se così fosse, mi sarei esibita nel mio famosissimo giochetto del picciolo di ciliegia al quale faccio il nodo con la lingua. »

«Non ci credo. Fammelo vedere. »

«Stavo scherzando. Vai a dormire. »

Tirammo fuori il futon; Cassie accese l'abat‑ jour e io spensi la luce, così che il suo monolocale rimase in penombra, accogliente e caldo. Pescò la maglietta lunga fino alle ginocchia che usa per dormire e se la portò in bagno per cambiarsi. Infilai i calzini nelle scarpe e le spinsi sotto il divano, Cassie è sempre la prima ad alzarsi e non volevo che vi inciampasse. Mi svestii, rimasi in boxer, mi misi la maglietta e mi infilai sotto il piumino. Avevamo ormai una routine ben oliata. La sentivo che si lavava la faccia e cantava una canzoncina folk che non conoscevo, in una chiave minore. «Alla Regina di Cuori va l'Asso di Dolori; oggi lui c'è, domani non c'è più …» Era partita con un'intonazione troppo bassa e la nota finale sparì in un borbottio.

«Ti senti veramente così rispetto al nostro lavoro? » le chiesi, quando uscì dal bagno. Era a piedi nudi e i suoi polpacci erano lisci e muscolosi come quelli di un ragazzo. «Quello che prova Mark per l'archeologia? »

Mi ero tenuto la domanda in serbo per quando Sam se ne fosse andato. Cassie mi lanciò un sorrisetto di traverso. «Non ho mai versato roba da bere sulla moquette della sala operativa. Lo giuro. »

Attesi. Lei si infilò a letto, si sollevò su un gomito e appoggiò la guancia sulla mano chiusa. La luce dell'abat‑ jour le delineava i contorni, sembrava semitrasparente, una ragazza dietro una finestra con i vetri istoriati. Non ero certo che avrebbe risposto, anche senza la presenza di Sam, ma dopo un momento disse: «Abbiamo a che fare con la verità, con lo scoprire la verità. È una cosa seria».

Ci pensai. «È per questo che non ti piace mentire? » Questa è una delle piccole manie di Cassie, particolarmente strana in un detective: omette cose, elude furbescamente le domande o lo fa in modo così sottile che neppure te ne accorgi, tira fuori frasi fuorvianti con la competenza di un illusionista, ma, che io sappia, non ha mai mentito apertamente, nemmeno a un sospetto.

Si strinse nelle spalle, in una, a dire il vero. «Non sono molto brava con i paradossi. »

«Io invece penso di esserlo» obiettai, pensieroso.

Cassie rotolò sulla schiena e rise. «Dovresti mettere un annuncio personale. Maschio, un metro e ottantacinque, bravo con i paradossi…»

«… stallone incredibile…»

«… cerca la sua Britney…»

«Bleah! »

Ammiccò con innocenza. «No? »

«Dai, un po' di fiducia in me. Britney è solo per gusti dozzinali. Dovrebbe essere almeno Scarlett Johansson. »

Ridemmo, soddisfatti. Sospirai e mi sistemai adattandomi alle ormai note caratteristiche del divano; Cassie allungò un braccio per spegnere la luce. «'Notte. Dormi bene. »

«Sogni d'oro. »

Cassie dorme con la leggerezza e la facilità di un gattino; dopo pochi secondi sentii che il suo respiro rallentava e si faceva più profondo. Il minuscolo arresto al culmine di ogni respiro mi comunicò poi che era partita. Io sono il contrario: una volta addormentato ci vuole un calcio negli stinchi, ed è quello il metodo di Cassie, o una sveglia dal suono portentoso per tirarmi giù dal letto, ma possono volerci ore prima che mi addormenti, con continui rivoltamenti nel letto, e agitazione. Non sapevo bene perché, ma avevo scoperto che era più facile addormentarmi da Cassie, nonostante il divano troppo corto, pieno di bozzi, e i cigolii e i borbottii che, in una vecchia casa come quella, di notte aumentavano a dismisura. Anche ora, quando ho difficoltà a addormentarmi, cerco di immaginarmi di nuovo su quel divano: la fodera del piumino, di flanella morbida e consunta, contro la guancia, l'odore forte e piccante del whisky caldo ancora nell'aria, i minuscoli fruscii di Cassie che sogna dall'altra parte della stanza.

Un paio di persone entrarono vociando nel palazzo, li sentii zittirsi l'uno con l'altra, ridacchiando. Si fermarono all'appartamento di sotto. Filtrarono, attraverso il pavimento, sprazzi di conversazione e risate, deboli e smorzati. Adattai il ritmo del mio respiro a quello di Cassie e sentii che la mia mente scivolava in tangenti oniriche, prive di senso: Sam che spiegava come costruire una barca e Cassie seduta sul davanzale di una finestra tra due doccioni di pietra, che rideva. Il mare era a una certa distanza e non sarebbe stato possibile che lo sentissi, ma immaginai di sentirlo comunque.

 

 

Nei miei ricordi, trascorremmo un milione di serate nell'appartamento di Cassie, solo noi tre. L'inchiesta durò un mesetto soltanto e sono certo che dovettero esserci stati giorni in cui uno di noi era impegnato a fare altro. Però, gradatamente, come una soluzione che si allarga nell'acqua, quelle serate avevano dato colore all'intera stagione. Il tempo volgeva a passo felpato verso un autunno precoce e pungente, il vento si incuneava nel sottotetto, la pioggia filtrava dalle finestre a ghigliottina deformate e gocciolava lungo i vetri. Cassie accendeva il fuoco e noi sparpagliavamo i nostri appunti sul pavimento e sfornavamo teorie su teorie, poi facevamo a turno a preparare la cena: solitamente si trattava di pasta in diverse varianti preparata da Cassie, sandwich di carne fatti da me (non so cucinare praticamente nient'altro, ma con i sandwich di carne sono un maestro) e poi c'erano gli esperimenti esotici di Sam che andavano da tacos stravaganti a una cosa thailandese in salsa di arachidi piccante. Cenavamo con il vino, per passare al whisky sotto varie forme e poi, quando iniziavamo a essere un po' brilli, raccoglievamo le carte, ci toglievamo le scarpe, mettevamo su un po' di musica e parlavamo.

Cassie è figlia unica, come me, ed entrambi eravamo rapiti dalle storie di Sam sulla sua infanzia. Erano quattro fratelli e tre sorelle, accalcati in una vecchia fattoria bianca a Galway, giocavano ai cow‑ boy e agli indiani su territori vastissimi e scappavano fuori di notte per esplorare il mulino infestato dai fantasmi. Avevano un padre grande e grosso di costituzione e tranquillo di carattere, e una madre che distribuiva in egual misura pane ancora caldo di forno e sferzate col cucchiaio di legno, e che ai pasti contava le teste per accertarsi che nessuno dei figli fosse caduto nel fiume. I genitori di Cassie erano morti in un incidente stradale quando lei aveva cinque anni e lei era stata allevata da anziani zii in una fatiscente casa vittoriana a Wicklow, lontanissima da qualunque cosa. Ricorda che leggeva libri non adatti a lei presi dalla loro biblioteca – come Il Ramo d'oro, Le Metamorfosi di Ovidio, Madame Bovary, che non le erano piaciuti ma che aveva ugualmente finito – rannicchiata sul sedile della finestra del pianerottolo, mentre mangiava mele del giardino, con una pioggerella leggera che scivolava lungo i vetri. Una volta, ci raccontò, era riuscita a intrufolarsi sotto un antico e orrendo guardaroba e vi aveva trovato un piattino di porcellana, un penny con Giorgio VI e due lettere di un soldato della Prima guerra mondiale con un nome che nessuno conosceva e con brani cancellati dai censori. Io non ho molti ricordi di prima dei dodici anni, e anche quelli dopo sono disposti per file: file di letti in dormitori bianco‑ grigi, file di docce fredde e rimbombanti e con l'odore della candeggina, file di ragazzi in uniformi arcaiche che intonavano inni protestanti in quattro quarti sul dovere e sulla costanza. Per entrambi, l'infanzia di Sam era quella di una favola; ce la immaginavamo in disegni a matita di bambini con le guance rotonde e di cani da pastore che scodinzolavano felici. «Parlaci di quando eri piccolo» diceva Cassie, piazzandosi sul futon e tirandosi la manica del maglione fin sulla mano per tenerci la tazza di whisky caldo.

In un certo senso, però, Sam era quello di troppo in quelle conversazioni, e a una parte di me la cosa faceva piacere. Ci avevamo messo due anni, Cassie e io, a crearci una nostra routine, un nostro ritmo, i nostri codici appena accennati. Dopotutto, Sam era lì grazie a una nostra gentile concessione, e mi pareva giusto che avesse un ruolo non da protagonista: presente, ma non troppo. Non che la situazione sembrasse infastidirlo. Si stendeva sul divano, orientava il bicchiere di whisky, attraversato dal chiarore del fuoco, in modo che lanciasse ombre ambrate sul suo maglione, osservava e sorrideva mentre io e Cassie discutevamo sulla natura del tempo, o di Dylan Thomas, o sulle spiegazioni scientifiche dei fantasmi. Erano sicuramente conversazioni adolescenziali, poco originali, e rese ancor più tali dal fatto che Cassie e io ci comportassimo proprio come bambini (mi diceva: «Mordimi, Ryan» e, strizzando gli occhi, voltava la testa dalla parte opposta del futon. Io allora le afferravo il braccio e le mordevo il polso fino a quando non si metteva a gridare e a chiedere pietà ), ma erano chiacchierate mai esistite nella mia adolescenza e le amavo, ne adoravo ogni singolo momento.

 

Ovviamente sto romanzando, è una mia tendenza cronica. Non fatevi ingannare: le serate erano conviviali, noi ci ritrovavamo attorno a un accogliente caminetto col fuoco acceso, ma le giornate erano delle vere sfacchinate, intense, frustranti. Ufficialmente lavoravamo dalle nove alle cinque, ma arrivavamo in ufficio prima delle otto del mattino e raramente uscivamo prima delle otto di sera, e ci portavamo il lavoro a casa: questionari da mettere in relazione, dichiarazioni da leggere, rapporti da scrivere. Le nostre cene iniziavano alle nove, quando non alle dieci; si faceva mezzanotte prima che smettessimo di parlare di lavoro, ed erano già le due del mattino quando riuscivamo a rilassarci quel tanto che bastava per andare a dormire. Avevamo sviluppato un rapporto intenso e poco sano con la caffeina e avevamo dimenticato com'era non sentirsi esausti. Il primo venerdì sera, mentre andava via, un agente di supporto nuovo di nome Corry salutò tutti dicendo: «A lunedì, ragazzi». Per tutta risposta ottenne solo risate sarcastiche e pacche sulle spalle, oltre a un poco simpatico: «No, Comecavolotichiami, ci vediamo domattina alle otto, e non arrivare tardi» da O'Kelly.

Rosalind Devlin non venne quel primo venerdì. Verso le cinque, irritato per l'attesa e piuttosto preoccupato che potesse esserle accaduto qualcosa, la chiamai al cellulare. Non rispose. Era con la sua famiglia, mi dissi, stava dando una mano nei preparativi del funerale, o si occupava di Jessica, oppure stava piangendo nella sua stanza. Quel disagio, però, non mi lasciò; quella sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato, piccolo e fastidioso come un sassolino in una scarpa.



  

© helpiks.su При использовании или копировании материалов прямая ссылка на сайт обязательна.