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Tana French 5 страница



Immagino che la faccenda abbia avuto i suoi effetti su di me, ma mi sarebbe impossibile, e a mio parere anche inutile, scoprire esattamente quali siano stati. Avevo dodici anni, dopotutto, un'età in cui i ragazzini sono smarriti e amorfi, si trasformano dal giorno alla notte, a prescindere dalla stabilità delle loro vite. E poche settimane dopo finii in collegio, il che mi formò e mi segnò in modo molto più drammatico ed evidente. Mi sembrerebbe ingenuo ed essenzialmente ipocrita smontare la mia personalità, prenderne un brandello e berciare: " Santi numi, guarda, questo viene da Knocknaree! ". Ma ecco che ora, all'improvviso, il tutto riemergeva, beffardo e inamovibile, nel bel mezzo della mia vita, e non avevo la benché minima idea di cosa farci.

«Quella povera bimba» disse d'un tratto Cassie, fuori contesto. «Quella povera, piccola bimba. »

 

La casa dei Devlin era una bifamiliare con la facciata piatta e un piccolo prato verde sul davanti, come tutte le altre del quartiere, così poco particolare che non riuscivo a capire se mi fosse familiare o meno. Tutti i vicini si erano prodigati in piccole e frenetiche manifestazioni di individualismo regolando con ferocia i cespugli, piazzando gerani o altro; i Devlin invece si limitavano a tagliare il prato e lo lasciavano così, che di per sé già comunicava un certo grado di originalità. Vivendo più o meno nella parte centrale della zona residenziale, a cinque o sei strade dal sito, si erano persi l'arrivo dei poliziotti in uniforme, dei tecnici della Scientifica, del furgone dell'obitorio, tutto l'andirivieni terribile ed efficiente che da solo sarebbe bastato a fargli capire quello che c'era da capire.

Quando Cassie suonò il campanello, un uomo sulla quarantina venne ad aprire; era un po' più basso di me, cominciava ad arrotondarsi intorno alla vita, portava i capelli scuri tagliati con cura e mostrava grosse borse sotto gli occhi. Indossava un cardigan, pantaloni color cachi e teneva in mano una scodella di cereali. Avrei voluto dirgli che era tutto a posto, perché sapevo già con che cosa avrebbe dovuto confrontarsi nei mesi a venire. È il genere di situazione che la gente ricorda con strazio per tutta la vita: uno sta mangiando i cereali in casa propria quando arriva la polizia a dirgli che sua figlia è morta. Una volta ho visto una donna crollare sul banco dei testimoni, singhiozzava con tale veemenza che dovettero interrompere il processo e somministrarle un sedativo: era a lezione di yoga quando le avevano accoltellato il fidanzato.

«Signor Devlin? » chiese Cassie. «Sono il detective Maddox e questo è il detective Ryan. »

L'uomo spalancò gli occhi. «Siete della sezione Persone scomparse? » Aveva del fango sulle scarpe e i bordi dei pantaloni erano umidi; doveva essere stato fuori alla ricerca di sua figlia, da qualche parte nei campi sbagliati. Forse era rientrato per mettere qualcosa sotto i denti prima di provarci ancora, e poi ancora.

«Non esattamente» disse con dolcezza Cassie. Di solito lascio a lei questo genere di conversazioni, e non solo per codardia – questa è decisamente una delle parti peggiori del lavoro, guardare le autopsie non è niente al confronto – ma perché sappiamo entrambi che è molto più brava. «Possiamo entrare? »

Lui fissò la scodella e la posò goffamente sul tavolo dell'ingresso. Un po' di latte si versò su un mazzo di chiavi e su un berretto rosa da bambina. «Cosa volete? » chiese. La paura gli aveva fatto assumere un tono di voce aggressivo. «Avete trovato Katy? »

Udii un rumore leggero e guardai oltre le sue spalle. C'era una ragazza ai piedi delle scale che si teneva al corrimano. L'interno della casa era in penombra anche se era pomeriggio e c'era il sole, ma vidi il suo volto e fu come se fossi trafitto da una lama luminosa, qualcosa di simile al terrore. Per un inimmaginabile, vorticoso secondo mi parve di vedere un fantasma. Era la nostra vittima, la stessa ragazzina che avevamo trovato sulla pietra. Sentii un rumore assordante nelle orecchie.

Mezzo secondo dopo, naturalmente, il mondo si raddrizzò, il ruggito nelle orecchie scemò e mi resi conto di cosa stavo vedendo. Capii anche che non avremmo avuto bisogno della foto identificativa. Anche Cassie l'aveva vista. «Non ne siamo ancora sicuri» disse. «Signor Devlin, quella è la sorella di Katy? »

«Jessica» rispose l'uomo con voce arrochita. La ragazzina venne avanti. Senza staccare gli occhi dal volto di Cassie, Devlin allungò una mano dietro di sé, prese la ragazza per una spalla e la fece avanzare fin sulla porta. «Sono gemelle» spiegò. «Identiche. È … avete… avete trovato una bambina che le somiglia? » Jessica fissava un punto tra me e Cassie. Le braccia penzolavano mollemente lungo i fianchi, le mani erano invisibili sotto un'enorme maglia grigia.

«La prego, signor Devlin» continuò Cassie. «Dobbiamo entrare e parlare con lei e sua moglie in privato. » Scoccò un'occhiata a Jessica. Devlin abbassò lo sguardo, vide la propria mano sulla spalla della bambina e, trasalendo, la tolse. Restò come congelata a mezz'aria, come se lui non sapesse più cosa farne.

Ora sapeva, naturalmente. Se l'avessimo trovata viva, glielo avremmo detto. Arretrò dalla porta e con un gesto della mano ci fece entrare in salotto. Disse alla figlia: «Va' su da zia Vera», ci seguì e chiuse la porta.

La cosa terribile del salotto era la sua assoluta normalità, da satira sulle periferie. Tende di pizzo, divano e poltrone a fiori con quelle tipiche coperture sui braccioli e sui poggiatesta, una collezione di teiere decorate su una credenza, tutto lucidato e spolverato fino a brillare: sembrava, e spesso le case delle vittime e persino le scene del crimine lo sono, fin troppo banale per quel livello di tragedia. La donna seduta in una delle poltrone si adattava alla stanza: pesante nella sua solidità priva di forma, con un casco di capelli appena usciti dalla permanente e grandi occhi azzurri cascanti. Linee profonde le solcavano il volto, dal naso alla bocca.

«Margaret» disse Devlin, «sono detective. » La sua voce era tesa come la corda di un violino. Non andò da lei ma rimase vicino al divano, i pugni chiusi nelle tasche del cardigan. «Allora? » chiese.

«Signori Devlin» cominciò Cassie, «non c'è un modo facile per dire questa cosa. Il corpo di una ragazzina è stato trovato nel sito archeologico accanto a questa zona residenziale. Purtroppo, noi pensiamo che si tratti di vostra figlia Katharine. Mi dispiace. »

Margaret Devlin lasciò fuoriuscire il respiro come se l'avessero colpita allo stomaco. Le lacrime cominciarono a scenderle lungo le guance senza che lei sembrasse neppure accorgersene.

«Ma ne siete certi? » scattò Devlin. Aveva gli occhi sgranati. «Come fate a essere così sicuri? »

«Signor Devlin» disse con gentilezza Cassie, «l'ho vista. È identica a sua figlia Jessica. Domani le chiederemo di venire a confermare l'identificazione, ma non ho dubbi, purtroppo. Mi dispiace. »

Devlin si girò verso la finestra, di nuovo lontano, un polso premuto sulla bocca, perso e con uno sguardo feroce. «Oh, Dio» mormorò Margaret. «Oh, Dio, Jonathan…»

«Cosa le è successo? » la interruppe bruscamente Devlin. «Come… come…»

«Purtroppo pare sia stata assassinata» disse Cassie.

Margaret si stava alzando dalla poltrona, con movimenti lenti, come sott'acqua. «Dov'è? » Le lacrime continuavano a scenderle copiose, ma la voce aveva una calma innaturale.

«È dal medico legale» rispose gentilmente Cassie. Se Katy fosse morta in modo diverso, avremmo potuto portarli da lei, ma con il cranio aperto, la faccia coperta di sangue… Dopo l'autopsia, i ragazzi le avrebbero almeno lavato via quello strato di inutile orrore.

Margaret si guardò attorno, intontita, toccandosi ripetutamente e meccanicamente le tasche della gonna. «Jonathan, non trovo le chiavi. »

«Signora Devlin» intervenne Cassie, mettendole una mano sul braccio. «Purtroppo non possiamo portarvi da Katy, per ora. Il medico legale deve esaminarla. Vi faremo sapere non appena potrete vederla. »

Margaret si allontanò da Cassie con uno strattone e si spostò al rallentatore verso la porta, pulendosi con una mano impacciata le lacrime dalla faccia. «Katy… dov'è? » Cassie lanciò con gli occhi una richiesta di aiuto a Jonathan, oltre la spalla della signora, ma lui aveva appoggiato le mani al vetro della finestra e fissava fuori, anche se in realtà non vedeva nulla, respirando in fretta, troppo in fretta, e intensamente.

«Per favore, signora Devlin» dissi con urgenza, cercando di frappormi, senza che se ne accorgesse, tra lei e la porta. «Le prometto che vi porteremo da Katy non appena potremo, ma al momento non potete vederla. Non è proprio possibile. »

Margaret mi fissò con gli occhi rossi e la bocca aperta. «La mia bambina» ansimò. Poi le crollarono le spalle e cominciò a piangere, con singhiozzi profondi, rauchi e incontrollati. Rovesciò la testa all'indietro e lasciò che Cassie (guardava invece me, con gli occhi spalancati e straziati: Oh, Dio…) l'accompagnasse docilmente per le spalle verso la poltrona e la facesse sedere nuovamente.

«Com'è morta? » chiese Jonathan, continuando a fissare il nulla fuori dalla finestra. Le parole erano indistinte, come se avesse le labbra intorpidite. «In che modo? »

«Non lo sapremo finché i medici non avranno terminato di esaminarla» risposi. «Vi terremo informati di tutti gli sviluppi. »

Sentii dei passi leggeri che correvano giù per le scale, la porta si spalancò e vedemmo una ragazza sulla porta. Dietro di lei, Jessica era ancora nell'ingresso, si succhiava una ciocca di capelli e ci fissava.

«Che succede? » domandò la ragazza, senza fiato. «Oh, Dio… è Katy? »

Nessuno rispose. Margaret si premette un pugno sulla bocca e i suoi singhiozzi divennero terribili suoni soffocati. Lo sguardo della ragazza passò di volto in volto, le sue labbra si schiusero. Alta e snella, con ricci castani che le scendevano sulla schiena, era difficile valutare quanti anni avesse: diciotto, venti… Ma era molto più curata della maggior parte delle ragazze che mi era capitato di incontrare: indossava pantaloni neri fatti su misura e scarpe col tacco alto, oltre a una camicia bianca dall'aspetto costoso, per finire con una sciarpa viola di seta avvolta intorno al collo. Aveva una presenza vitale, elettrica, che riempiva la stanza. In quella casa, appariva sorprendentemente fuori luogo.

«Per favore» disse, rivolgendosi a me. La voce era alta e chiara, sostenuta, con un accento da annunciatrice TV che mal s'accompagnava a quello morbido da classe popolare di provincia di Jonathan e Margaret. «Che è successo? »

«Rosalind» cominciò Jonathan. La voce gli uscì ruvida. Si schiarì la gola prima di continuare. «Hanno trovato Katy. È morta. Qualcuno l'ha uccisa. »

Jessica produsse un piccolo suono senza parole. Rosalind lo fissò per un istante, poi sbatté le ciglia e ondeggiò con una mano protesa verso lo stipite della porta. Cassie le mise un braccio intorno alla vita e la sostenne fino al divano.

Rosalind appoggiò la testa sui cuscini e le rivolse un debole sorriso di riconoscenza che Cassie ricambiò. «Potrei avere un po' d'acqua? » mormorò.

«Vado io» mi offrii. In cucina, linoleum lavato a fondo, tavola e sedie verniciati finto rustico. Aprii il rubinetto e mi diedi una rapida occhiata in giro. Niente di rilevante, tranne uno dei pensili alti che conteneva una serie di tubetti di vitamine e, in fondo, un flacone di dimensioni industriali di Valium con un'etichetta e il nome della persona alla quale era stato prescritto: Margaret Devlin.

Rosalind sorseggiò l'acqua e inspirò profondamente, tenendosi una piccola mano sul petto. «Prendi Jess e andate di sopra» le ordinò Jonathan.

«Per favore, fammi restare» chiese Rosalind, sollevando il mento. «Katy era mia sorella, qualsiasi cosa le sia accaduta, io posso… posso farcela. Sto bene ora. Mi dispiace per come mi sono sentita, ma ora sto bene, sul serio. »

«Vorremmo che Rosalind e Jessica restassero, signor Devlin» dissi io. «È possibile che sappiano qualcosa che potrebbe esserci d'aiuto. »

«Katy e io eravamo… eravamo molto vicine» disse Rosalind, guardando me. Aveva gli occhi di sua madre, grandi e azzurri, con quell'accenno a scendere verso il basso agli angoli esterni. Si spostarono, oltre le mie spalle: «Oh, Jessica» disse, tendendo le braccia. «Jessica, tesoro, vieni qui. » Jessica mi passò accanto con un balenio da animale selvatico negli occhi e andò a stringersi a Rosalind, sul divano.

«Mi dispiace tantissimo intromettermi in un momento del genere» dissi, «ma ci sono alcune domande che dobbiamo porvi quanto prima perché ci aiutiate a trovare chi ha fatto questo. Vi sentite in grado di parlare adesso, o preferite che torniamo tra qualche ora? »

Jonathan Devlin prese una sedia dal tavolo da pranzo, la sbatté sul pavimento e si sedette. Evidentemente, la cosa non gli andava giù. «Fatelo ora» disse. «Forza, con queste domande. »

Lentamente, facemmo ripercorrere loro la storia. Avevano visto Katy per l'ultima volta lunedì sera. Era stata a lezione di balletto a Stillorgan, qualche chilometro verso Dublino, dalle cinque alle sette. Rosalind era andata a prenderla alla fermata dell'autobus verso le 19. 45 ed erano tornate a casa a piedi insieme. «Mi ha raccontato che si era divertita un sacco» disse, con la testa piegata sulle mani congiunte. Una cortina di capelli le ricadde sulla faccia. «Era una ballerina eccezionale… si era conquistata un posto alla Royal Ballet School, sapete… sarebbe partita tra poche settimane…» Margaret singhiozzò e le mani di Jonathan strinsero convulsamente i braccioli della sedia. Rosalind e Jessica erano poi andate a casa della zia Vera, dall'altra parte della zona residenziale, per passare la notte con le loro cuginette.

Katy aveva cenato con fagioli in salsa di pomodoro, pane tostato e succo d'arancia, poi era andata a far fare la passeggiata al cane di un vicino: era il suo lavoretto estivo per racimolare un po' di soldi per la scuola di balletto. Era tornata intorno alle 20. 50, si era fatta un bagno e poi aveva guardato la TV con i genitori; era andata a dormire alle dieci, come al solito d'estate, e aveva letto per qualche minuto prima che Margaret le dicesse di spegnere la luce. Jonathan e Margaret erano rimasti ancora alzati a vedere la TV ed erano andati a dormire poco prima di mezzanotte. Prima di coricarsi, Jonathan, come sempre, aveva controllato che la casa fosse al sicuro: porte chiuse a chiave, finestre bloccate, catena all'ingresso principale.

Alle 7. 30 della mattina dopo, si era alzato e si era recato al lavoro senza vedere Katy. Era un impiegato di sportello con una certa anzianità in una banca; aveva notato che la catena della porta non era inserita ma aveva dato per scontato che Katy, un'allodola per abitudine, fosse andata a casa della zia per far colazione con sorelle e cugine. «Lo fa, a volte» intervenne Rosalind. «Le piacciono le cose fritte e mamma… be', la mattina mamma è troppo stanca per cucinare. » Seguì un terribile suono straziante proveniente da Margaret. Tutte le ragazze avevano le chiavi della porta di casa, aggiunse Jonathan. Per essere più sicuri. Alle 9. 20, quando Margaret si era alzata ed era andata a svegliare Katy, lei non c'era. Aveva atteso un po', supponendo, come Jonathan, che Katy si fosse alzata presto e fosse andata a casa della zia. Poi aveva chiamato Vera, solo per esserne certa. Dopo Vera, aveva telefonato a tutte le amiche di Katy e alla fine si era risolta a informare la polizia.

Cassie e io sedevamo in maniera poco rilassata sui bordi delle nostre poltrone. Margaret piangeva sommessamente ma senza interruzione. Dopo un po', Jonathan uscì dalla stanza e tornò con una confezione di fazzoletti di carta. Una signora minuscola come un uccellino e con gli occhi sporgenti – la zia Vera, pensai – scese in punta di piedi dalle scale e restò per qualche minuto nell'ingresso, incerta, torcendosi le mani. Poi, lentamente, si ritirò in cucina. Rosalind massaggiava le dita inerti di Jessica.

Katy, dissero, era stata una bambina buona, brava a scuola anche se non eccezionale, innamorata del balletto. Aveva un bel caratterino ma di recente non aveva avuto scontri con la famiglia o con altri. Ci fornirono i nomi delle sue migliori amiche perché potessimo controllare. Non era mai scappata di casa, no. Ultimamente era molto felice, emozionata all'idea di andare alla scuola di balletto. I ragazzi non le interessavano ancora, aggiunse Jonathan, aveva solo dodici anni, Cristo santo! Ma vidi che Rosalind gli scoccò un'occhiata e poi guardò me. Presi mentalmente nota di parlarle senza i genitori.

«Signor Devlin» domandai, «com'era il suo rapporto con Katy? »

Jonathan mi fissò. «Di che cazzo mi sta accusando? » scattò. Jessica produsse un guaito che era una risata, alto e isterico, e io feci un salto sulla poltrona. Rosalind storse le labbra e scosse la testa verso di lei, con le sopracciglia aggrottate, poi le sorrise, rassicurante, e le diede una piccola pacca. Jessica abbassò la testa e riprese a succhiarsi i capelli.

«Nessuno la sta accusando di nulla» chiarì Cassie con fermezza, «ma dobbiamo essere in grado di dire che abbiamo esplorato ed eliminato tutte le possibilità. Se tralasciamo qualcosa, quando prenderemo quell'uomo, e lo prenderemo, la sua difesa potrebbe cavalcare il ragionevole dubbio. So che rispondere a queste domande è doloroso, ma le assicuro, signor Devlin, che lo sarebbe ancora di più se quell'uomo venisse prosciolto perché non le abbiamo fatte. »

Jonathan inspirò attraverso il naso e si rilassò per un istante. «Il mio rapporto con Katy era fantastico» disse. «Parlava con me. Eravamo vicini. Io… lei era la mia piccola. » Jessica ebbe uno spasmo, mentre Rosalind sollevò per un attimo lo sguardo. «Litigavamo, come fanno tutti i padri e le figlie, ma era una figlia meravigliosa e una ragazza meravigliosa, e io l'adoravo. » Per la prima volta gli si incrinò la voce. Mosse la testa di scatto, rabbiosamente.

«E lei, signora Devlin? » chiese Cassie.

Margaret stava sbriciolandosi un fazzoletto in grembo; sollevò lo sguardo, ubbidiente come un bambino. «Ma certo, sono tutte fantastiche» disse. La sua voce era spessa e tremolante. «Katy era… un sogno. Non ha mai dato problemi. Non so come faremo senza di lei. » Storse la bocca in un tremito.

Non facemmo domande né a Rosalind né a Jessica. È improbabile che i ragazzi siano onesti sui fratelli e sulle sorelle quando i genitori sono nei paraggi, e se un ragazzino mente, soprattutto nel caso di una bambina piccola e confusa come Jessica, le bugie si fissano nella mente e la verità retrocede sullo sfondo. Più avanti, avremmo cercato di ottenere il permesso dei Devlin per parlare con Jessica e, se era minorenne, con Rosalind, da sole. Chissà perché, avevo l'impressione che non sarebbe stato facile.

«Vi viene in mente qualcuno che avrebbe voluto far del male a Katy per qualche motivo? » chiesi.

Per un istante nessuno disse nulla. Poi Jonathan spinse la sedia all'indietro e balzò in piedi. «Gesù » esclamò. La testa gli ondeggiava avanti e indietro, come quella di un toro tormentato dal torero. «Quelle telefonate. »

«Telefonate? » ripetei.

«Cristo. Lo ammazzo. Ha detto che l'hanno trovata allo scavo? »

«Signor Devlin! » si intromise Cassie. «Si sieda e ci parli di queste telefonate. »

Lentamente, Devlin si girò a guardarla. Si sedette, ma io vedevo che c'era un che di assente e astratto nel suo sguardo. Ero pronto a scommettere che stava segretamente pensando al metodo migliore per scovare chi avesse fatto quelle telefonate. «Sapete dell'autostrada che attraverserà il sito archeologico? » disse. «La maggior parte della gente di qui è contraria. Alcuni sono interessati perché così salirebbe il valore delle loro abitazioni, visto che passerebbe proprio qui di fianco, ma la maggior parte di noi… Quel sito dovrebbe essere preservato. È unico ed è nostro, il governo non ha nessun diritto di distruggerlo senza neppure chiedercelo. C'è una campagna in corso qui a Knocknaree, " Spostiamo l'autostrada". Ne sono il presidente perché l'ho iniziata io. Facciamo picchetti e scriviamo lettere ai politici, per quel che può servire. »

«Poca reazione? » azzardai. Parlare della sua causa lo rinsaldava e la cosa mi affascinava: inizialmente mi era parso un piccolo uomo calpestato, non il tipo da condurre una crociata, ma chiaramente aveva uno spessore che a occhio nudo non si vedeva.

«Pensavo fosse solo burocrazia, sa, non vogliono mai fare cambiamenti. Ma le telefonate mi hanno fatto ricredere… La prima arrivò di sera tardi. Il tipo disse qualcosa come: " Senti, stupido bastardo, non hai idea della cosa in cui ti sei immischiato". Pensai che avesse sbagliato numero, riattaccai e tornai a dormire. Fu solo dopo la seconda che mi ricordai e collegai le cose. »

«Quando è arrivata la prima telefonata? » chiesi. Cassie stava scrivendo.

Jonathan guardò Margaret; lei scosse la testa mentre si tamponava gli occhi. «In aprile, più o meno, forse verso la fine. La seconda il 3 giugno, verso l'una e mezzo del mattino, l'ho scritto. Katy… non c'è il telefono in camera nostra, è in corridoio… e lei ha il sonno leggero. Andò lei. Disse che l'uomo le aveva chiesto: " Sei la figlia di Devlin? " e che lei aveva risposto: " Sono Katy" e lui: " Katy, di' a tuo padre di lasciar perdere la stramaledetta autostrada, perché so dove abitate". A quel punto ero arrivato io e le avevo strappato la cornetta di mano. L'uomo all'altro capo mi disse qualcosa tipo: " Carina la ragazzina, Devlin". Gli urlai di non provare mai più a chiamare casa mia e riattaccai. »

«Si ricorda qualche dettaglio della voce? » chiesi. «L'accento, l'età, nulla? Le è parsa una voce nota? »

Jonathan deglutì. Si stava concentrando al massimo, attaccato all'argomento come a un'ancora. «Non mi ha fatto suonare nessun campanello. Non giovane. Forse di una certa età. Accento di provincia, ma non lo saprei indicare, non di Cork o del nord, niente di così evidente. Sembrava… ho pensato che fosse ubriaco. »

«Ci sono state altre telefonate? »

«Un'altra, qualche settimana fa, il 13 luglio, alle due del mattino. Ho risposto io. Lo stesso tipo che diceva: " Allora tu non…". » Lanciò uno sguardo a Jessica. Rosalind le teneva un braccio sulle spalle, la cullava teneramente e le mormorava qualcosa all'orecchio. «" Allora tu non ascolti un c…, Devlin? Ti avevo avvertito di lasciare la c… di autostrada in pace. Te ne pentirai. So dove vive la tua famiglia. " »

«Ha denunciato la cosa alla polizia? » chiesi.

«No» rispose lui, brusco. Attesi che me ne dicesse il motivo ma non lo fece.

«Non era preoccupato? »

«A essere onesti» disse, lanciando un'occhiata che era un terribile misto di tristezza e sfida, «ne ero felice. Voleva dire che stavamo andando da qualche parte. Chiunque fosse a telefonarmi non si sarebbe dato tanta pena se la campagna non avesse rappresentato una minaccia. Ma ora…» D'un tratto, si sporse verso di me e mi fissò negli occhi, con i pugni premuti assieme. Dovetti fare uno sforzo per non ritrarmi. «Se scopre chi ha fatto quelle telefonate, me lo deve dire. Lei me lo deve dire. Voglio la sua parola. »

«Signor Devlin» dissi, «le prometto che faremo tutto quanto è in nostro potere per scoprire di chi si tratta e se ha qualcosa a che vedere con la morte di Katy, ma non posso…»

«Ha spaventato Katy» intervenne Jessica, con una vocina rauca. Credo che avemmo tutti un sussulto. Ero stupefatto come se fosse stata una delle poltrone a dare il suo contributo alla conversazione; avevo cominciato a chiedermi se la gemella non fosse autistica, disabile o qualcosa del genere.

«Davvero? » fece Cassie in tono pacato. «Cosa ti disse Katy? »

Jessica la scrutò come se la domanda fosse incomprensibile. Il suo sguardo riprese a scivolare via; si stava ritraendo nel suo torpore privato.

Cassie si sporse in avanti. «Jessica» insistette, con estrema dolcezza, «c'è qualcun altro di cui Katy aveva paura? »

La testa di Jessica ondeggiò, la bocca si mosse, una mano esile si levò e strinse un angolo della manica di Cassie.

«È vero? » mormorò.

«Sì, Jessica» confermò Rosalind dolcemente. Staccò la mano di Jessica e strinse la ragazzina a sé, accarezzandole i capelli. «Sì, Jessica, è vero. » Jessica guardò da sotto il suo braccio con occhi sgranati e vacui.

 

Non disponevano di una connessione Internet, il che eliminava la deprimente possibilità di un qualche fuori di testa conosciuto in chat e che era di chissà dove. Non avevano neppure un impianto d'allarme, anche se dubitavo che si sarebbe rivelato un elemento rilevante: Katy non era stata strappata dal suo letto da un intruso. L'avevamo trovata vestita come chi avesse avuto intenzione di uscire (sì, confermò Margaret, a Katy piaceva vestire in coordinato; aveva cominciato a mettere insieme abiti e accessori perché lo faceva la sua insegnante di balletto, che lei venerava). Aveva spento la luce, atteso che i suoi si addormentassero e poi, nel corso della notte o nelle prime ore del mattino, si era alzata, vestita ed era andata da qualche parte. La chiave di casa ce l'aveva in tasca: prevedeva di rientrare.

Ispezionammo ugualmente la sua camera, in parte per scoprire eventuali indizi su dove potesse essere andata e in parte, non che lo pensassimo davvero, per l'ovvia quanto brutale possibilità che Jonathan o Margaret l'avessero uccisa e avessero poi creato la messinscena per far sembrare che quando era uscita di casa fosse ancora viva. Condivideva la stanza con Jessica. La finestra troppo piccola e la lampadina troppo fioca non facevano che aumentare la sensazione che la casa mi comunicava, da far accapponare la pelle. La parete di Jessica, fatto di per sé già vagamente inquietante, era tappezzata di stampe artistiche soleggiate e idilliache: picnic impressionisti, fate di Rackham, panorami di Tolkien. «Glieli ho regalati io» spiegò Rosalind, dalla porta. «Non è vero, cucciola? » Jessica annuì guardandosi le scarpe. La parete di Katy, meno sorprendentemente, aveva un unico tema fisso: foto di Barisnikov e Margot Fonteyn che sembravano ritagliate da riviste di programmi TV, una foto della Pavlova presa da un articolo di giornale, la sua lettera di accettazione alla Royal Ballet School, un bel disegno a matita di una giovane ballerina con la dedica " A Katy, 21/03/2003. Buon compleanno! Ti voglio bene, papà " scribacchiata nell'angolo del cartoncino leggero su cui era incollato.

Il pigiama bianco che Katy indossava il lunedì notte giaceva sul letto, arrotolato; lo prendemmo e lo infilammo per sicurezza in un sacchetto per le prove, insieme alle lenzuola e al suo cellulare, che stava nel cassetto del comodino, spento. Non aveva tenuto un diario – «Ne aveva cominciato uno un po' di tempo fa, ma dopo un paio di mesi si è stufata e l'ha " perso" » ci disse Rosalind, mettendo la parola tra virgolette e rivolgendomi un sorrisetto triste e saputo, «e non si è mai preoccupata di cominciarne un altro» ‑, prendemmo però i quaderni di scuola e un vecchio diario dei compiti, materiale che forse avrebbe potuto fornirci qualche indizio. Le ragazze avevano una minuscola scrivania in finto legno ciascuna e su quella di Katy c'era una piccola scatola tonda di metallo piena di elastici per capelli. Con un'improvvisa e leggera fitta, riconobbi due fiordalisi di seta.

 

«Mamma mia» fu il commento di Cassie, quando lasciammo la zona residenziale e ci incamminammo lungo la strada. Si arruffò i riccioli con le mani.

«Ho visto quel nome da qualche parte, non tanto tempo fa» dissi. «Jonathan Devlin. Appena torniamo, facciamo un controllo al computer e vediamo se ha qualcosa sulla fedina penale. »

«Dio, quasi spero che si riveli così semplice» fece Cassie. «In quella casa mi sembrano tutti fuori di testa, e anche molto. »

Ero felice e sollevato che lo avesse detto. Avevo trovato una quantità di cose sui Devlin che mi inquietavano: Jonathan e Margaret non si erano toccati una sola volta, a stento si erano guardati; dove ci saremmo aspettati un andirivieni di vicini curiosi e solidali, non c'era invece nessuno tranne la spettrale zia Vera. Ogni componente della famiglia sembrava provenire da un pianeta completamente diverso. Ma poiché, da individuo irritabile qual ero, non potevo fidarmi del mio giudizio, mi faceva piacere sapere che anche Cassie aveva percepito qualcosa di anomalo. Non mi stava venendo un esaurimento, né stavo perdendo il controllo della mente o altro, sapevo che sarei stato bene una volta che fossi arrivato a casa e mi fossi seduto per un po' da solo a far sedimentare il tutto; ma quella prima visione di Jessica mi aveva quasi fatto venire un infarto, e sapere poi che era la sorella gemella di Katy non era servito a rassicurarmi come avrebbe dovuto. Quel caso era troppo pieno di parallelismi sghembi e scivolosi, e non riuscivo a scrollarmi di dosso la fastidiosa sensazione che in qualche modo fossero deliberati; tutte le coincidenze sembravano una bottiglia che il mare aveva fatto arrivare sulla sabbia, ai miei piedi, con il mio nome inciso a chiare lettere sul vetro e all'interno un messaggio scritto in un codice beffardamente indecifrabile.



  

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