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Gianni Rodari 4 страница



‑ Lasciami morire nel mio errore, ‑ lo pregava.

‑ Sarebbe il più grave errore della storia, ‑ rispondeva Paolo.

Quanto durò quella strenua battaglia? Parecchie ore, pensiamo. E non è il caso di descriverne una per una le vicende, del resto puramente verbali.

Sappiamo che a un certo punto Zorro cominciò a dar segni di irrequietudine, a rizzare le orecchie, a mugolare sordamente, fin che non si tenne più, e si lanciò abbaiando fuori della torta.

‑ Zorro, dove vai? ‑ gli gridò dietro Paolo. E si affacciò lui pure sulla soglia della galleria a guardar fuori. E quello che vide lo fece scoppiare a ridere d'un riso allegro, pazzo, sgangherato addirittura.

‑ La situazione ti diverte? ‑ borbottò Zeta.

‑ Professore, quanti ostaggi voleva?

‑ Mille, duemila...

‑ Eccoli, stanno arrivando da soli, senza bisogno del messaggio. E sono assai più di duemila...

‑ Ma cosa vai dicendo?

‑ Guardi lei stesso, professore. Venga, venga a vedere. E voi, sotto ragazzi! Arrivate in tempo!

 

 

I bambini si capiscono  

 

Dobbiamo tornare un momento indietro, per seguire l'autoambulanza che portava all'ospedale, facendosi largo nel traffico con l'ululato della sirena, il professor Rossi, il professor Terenzio e la piccola Rita. I due scienziati si lamentavano in continuazione:

‑ Ohi, ohi, che dolore! ‑ ruggiva il primo.

‑ Ahi, ahi, che male! Chiamatemi un notaio, voglio fare testamento, ‑ implorava il secondo.

Gli infermieri cercavano di calmarli con parole di incoraggiamento e borse di ghiaccio sullo stomaco: Rita non credeva ai suoi occhi.

‑ Ma che cos'hanno?

‑ Hanno assaggiato un pezzettino di quel finto cioccolato dei marziani.

‑ Finto? O siete matti voi o sono matti loro! Era cioccolato vero, verissimo. E non era per niente avvelenato, altrimenti a quest'ora io sarei bell'e morta. Ne avrò mangiato un chilo e non sono mai stata così bene.

‑ Zitta, tu, cosa vuoi mai capire?

‑ Capirò bene se la pancia mi fa male o no. Non bisogna mica essere professori per sapere dov'è la pancia.

‑ Insomma, sta' zitta. Non disturbare questi poverini, vedi pure quanto soffrono.

‑ Questo lo vedo. Fanno come Paolo quella volta che bevve la varechina per sbaglio.

Gli infermieri rinunciarono a discutere oltre con quella piccola pettegola. Del resto l'autoambulanza stava ormai correndo nei viali dell'ospedale. Una buona dozzina di medici circondava Rita, quando il caporeparto cominciò a visitarla.

‑ Che cosa ti senti?

‑ Niente.

‑ Qui ti fa male?

‑ No.

‑ E qui? E in questo punto? E in quest'altro?

‑ No. No. Non sento proprio nulla. Ma cosa dovrei sentire? Non ho bevuto la varechina, ho mangiato solo roba di prima qualità.

‑ Sta' buona, sta' buona. Vedrai che ora ti passa.

‑ Ma cosa mi deve passare? Vi dico che sto bene. E vi dico anche, se lo volete sapere, che quella cosa là sul Monte Cucco non è un'astronave, è una torta. Domandatelo a mio fratello, domandatelo al signor Geppetto.

‑ Chi sarebbe questo signor Geppetto?

‑ Non lo so, andateglielo a domandare, chi è. Sta dentro nella torta, proprio in mezzo, e se la mangerà tutta, beato lui.

Il caporeparto si volse agli altri medici, crollando tristemente il capo.

‑ I signori hanno udito? La poverina delira. La sua mente malata mescola l'immagine di quel dolce fatale e le avventure di Pinocchio in una tremenda confusione. Evidentemente il veleno ha cominciato ad agire sui centri nervosi. Speriamo di poter far qualcosa. Per cominciare, direi proprio che un'iniezione calmante è indispensabile.

‑ Assolutamente indispensabile, ‑ risposero in coro i dodici dottori.

Rita scoppiò in singhiozzi e cominciò a chiamare la mamma, ma per quanto si dibattesse e divincolasse dovette subire l'iniezione. Quasi subito i singhiozzi si fecero più radi e ben presto Rita si addormentò, mentre un'infermiera le asciugava le lagrime.

Altri medici, intanto, visitavano il professor Rossi e il professor Terenzio. Li visitarono in lungo e in largo, dandosi il turno ad auscultare le loro casse toraciche e a battere coi martelletti sulle loro ginocchia, per provare i riflessi. A dire la verità, però, non riuscirono a trovare molto. Del resto sia il professor Rossi che il professor Terenzio, durante la visita, scoprirono con sorpresa di non potere indicare il punto preciso in cui avvertivano quei terribili dolori.

‑ Qui... No, qui non mi fa male... Forse qui... No, qui no. Forse in quest'altro punto... Macché. Strano, non mi fa male nemmeno lì.

Il professor Rossi era quasi mortificato di non sentire più il dolore. Il professor Terenzio non era meno confuso di lui:

‑ Non so come sia, ma non sento più niente, ‑ confessò.

‑ Se non si trattasse di due famosi scienziati, ‑ disse più tardi un medico ad un collega, ‑ sarei quasi del parere che quel dolore se lo sono immaginato.

‑ Già, un caso di autosuggestione. In altre parole, una gran fifa...

Per prudenza, un'iniezione calmante venne fatta anche ai due illustri pazienti, che cominciarono quasi insieme a russare.

Rita si svegliò qualche ora più tardi e immediatamente richiuse gli occhi per non vedere tutti quei dottori che dovevano essere tornati per farle qualche altra diavoleria.

" Dottori in pigiama", rifletté, subito dopo, dubbiosa. Riaprì gli occhi per controllare: non erano dottori, ma bambini e bambine del vicino reparto, che avevano invaso la sua cameretta e ora la osservavano con curiosità.

‑ Chi siete? Cos'è successo?

‑ Niente, ‑ disse la più grande delle bambine, dondolandosi nella sua vestaglia rossa. ‑ Siamo malati anche noi. Siamo venuti a trovarti.

‑ Ah, grazie, ‑ rispose Rita. Ma la bambina dalla vestaglia non aveva finito il suo discorsetto.

‑ Sai, ‑ proseguì, ‑ abbiamo sentito quello che gridavi, quando ti hanno portata qui.

‑ E' vero che al Trullo c'è una pizza dolce grande come una montagna? ‑ intervenne con impazienza un biondino con un braccio al collo.

‑ E' vero sì. Ma i dottori non mi vogliono credere.

‑ Senti, ed è buona, quella pizza?

‑ Vorrei che poteste mangiarne quanta ne ho mangiata io. E' la migliore della terra di sicuro. Anzi, è una pizza spaziale. E' arrivata dal cielo proprio ieri.

‑ Che bellezza, ‑ esclamò il biondino.

‑ Che peccato, ‑ disse la bambina con la vestaglia rossa.

‑ Perché, peccato?

‑ Peccato che non possiamo assaggiarla.

‑ Già, ‑ disse Rita, sospirando. E intanto pensava: " Ah, com'è facile intendersi fra bambini. Questi mica pensano che io stia delirando. Capiscono al volo che non racconto storie, che la torta è la pura verità ".

‑ Mi dispiace davvero, ‑ aggiunse. ‑ Però, quando esco ve ne porto un bel pezzo.

‑ E quando esci? ‑ domandò il biondino.

‑ Questo non lo so, ma spero presto.

‑ E come fai a sapere se ci sarà ancora la torta, quando uscirai? ‑ domandò la bambina con la vestaglia rossa. Rita non seppe cosa rispondere a quella domanda terribile. In un momento si figurò che dolore sarebbe stato per lei arrivare al Trullo e sentirsi dire da Paolo che la torta non c'era più, che i soldati l'avevano distrutta o che un temporale l'aveva spazzata via.

I bambini, ansiosissimi, aspettavano sempre che Rita rispondesse e la guardavano tutti insieme, e in ogni sguardo Rita leggeva la stessa domanda e la stessa paura. Allora non seppe resistere. Balzò dal letto e si guardò intorno cercando i vestiti. Come se le avesse letto nel pensiero, la bambina con la vestaglia rossa disse: ‑ I vestiti li tengono nascosti in un armadio, in un altro reparto.

‑ Non importa, ‑ esclamò Rita.

‑ Andrò così.

‑ Ma la sai, la strada?

‑ No, ‑ rispose, ‑ domanderò.

‑ Brava, così ti riporteranno subito all'ospedale. Invece io so come arrivare al Trullo facendo il giro dei campi.

Era sempre la bambina con la vestaglia rossa che parlava. Ma allora, aveva già pensato a tutto, quella lì. Pareva davvero che avesse pensato a tutto.

‑ Sentite, ‑ disse infatti, ‑ io so anche come possiamo uscire dalla parte del giardino. Venite con me e fingete di giocare a nasconderella.

‑ Tutti? ‑ domandò Rita, spalancando gli occhi.

‑ Sì, sì, veniamo tutti, ‑ strillò il biondino, saltando per l'entusiasmo. ‑ Non hai detto prima che la torta è tanto grande?

‑ Ce n'è per tutti i bambini di Roma! ‑ affermò Rita, quasi offesa.

‑ Ma allora bisogna avvertirli, ‑ gridò ancora il biondino.

‑ In corridoio c'è il telefono, ‑ disse la bambina con la vestaglia rossa, ‑ e io ho un gettone. Telefonerò a mio fratello, e gli dirò di telefonare ai suoi amici e alle sue amiche, e ognuno di loro dovrà fare un'altra telefonata, e quelli che riceveranno la telefonata dovranno avvertire altri bambini, con tutti i mezzi, anche a voce, per le strade, davanti alle scuole, nei cortili. Sei sicura che ce ne sarà abbastanza per tutti quanti?

‑ Te lo giuro, ‑ protestò Rita, mettendosi una mano sul cuore.

‑ Perché non facciamo fare un annuncio alla radio? ‑ propose candidamente il biondino. Tutti scoppiarono a ridere, e non stettero nemmeno a dirgli perché ridevano.

La bambina con la vestaglia rossa corse al telefono.

‑ Pronto, sono Lucrezia. Sei tu, Sandrino? Stammi bene a sentire. Anzi, prendi prima un foglietto e una matita perché ti debbo dettare degli appunti importanti. Ci sei?..

‑ Ma cosa fa? ‑ domandò Rita.

‑ Perché ci mette tanto?

‑ Al solito, ha pescato una matita senza punta. Pronto, Sandrino? Cosa? Adesso non trova il temperamatite. Prendi il mio, sta nella mia cartella.

‑ Presto, presto per carità, ‑ imploravano i bambini, impazienti. ‑ Se arrivano le infermiere siamo fritti.

Finalmente Lucrezia riuscì a dettare a Sandrino le sue istruzioni. Dettava come una maestra, senza fermarsi, senza imbrogliarsi mai con le parole, come se ci avesse pensato a lungo e il piano fosse tutto chiaro nella sua testa. Che testa, quella Lucrezia!

 

 

Il telefono magico  

 

Non so se avete presente la storia del pifferaio di Hammelin, che col suo piffero magico liberò la città dai topi, e poi non gli vollero dare la sua paga, e allora ricominciò a suonare il suo piffero, e tutti i bambini della città gli andarono dietro, anche quelli che erano ancora troppo piccoli per camminare a due gambe, e lo seguirono gatton gattoni.

Qualcosa del genere accadde quel giorno a Roma. La telefonata di Lucrezia a Sandrino fece da piffero magico. Anzi, fece meglio.

Supponiamo infatti che quel famoso pifferaio di Hammelin si fosse messo a suonare il suo piffero nel bel mezzo di piazza San Pietro. Chi l'avrebbe sentito? A mala pena i pochi bambini che si fossero trovati in quel momento a giocare intorno alle fontane o all'obelisco. Forse nemmeno loro, col fracasso che fanno le automobili. Un piffero non ha molte probabilità di farsi sentire, in una città moderna.

Poi il pifferaio, per raggiungere le orecchie di tutti i bambini di Roma, avrebbe dovuto fare il giro della città. Campa cavallo! Nemmeno a camminare due giorni di fila, e di buon passo, avrebbe potuto far sentire la sua canzone in tutti i rioni del centro, in tutti i quartieri della periferia, e in tutte le borgate, e in tutti i borghetti che circondano la capitale in ogni direzione, giungendo fin quasi ai colli, da una parte, fin quasi al mare dall'altra. I bambini avrebbero finito col perdere la pazienza e l'avrebbero mandato a quel paese, ad Hammelin, insomma, nel paese delle favole, dove il telefono non esiste.

Il telefono: ecco un piffero magico adatto per una città moderna.

In meno di mezz'ora i suoi squilli, moltiplicandosi a catena, portarono la notizia da Trastevere a Torpignattara, dal Testaccio a San Giovanni, dai Parioli al Quadraro:

" Al Trullo è caduta una torta spaziale grande quanto una montagna! "

Chi riceveva la telefonata si affrettava a fare il numero di un amico, e gli comunicava la notizia; poi si affacciava alla finestra ed avvertiva i compagni che giocavano in cortile; poi scendeva in strada e si incamminava con loro alla volta del Trullo, in tram, in autobus, in bicicletta, a piedi. Improvvisamente Roma sembrò invasa dai bambini. Li vedevi uscire a gruppi dai portoni, abbandonare la palla nelle mani del vigile urbano senza protestare e mettersi a correre, qualcuno con la merenda in mano, qualcuno con la cartella. Nelle scuole Francesco Crispi i maestri del turno pomeridiano videro le loro scolaresche balzare in piedi come un solo scolaro e dirigersi verso la porta: tutto per colpa (o per merito? ) di un ragazzino di terza che, mentre andava al gabinetto, si era affacciato alla finestra, e di lì aveva ricevuto il messaggio dal figlio del barista di fronte, e si era affrettato a comunicarlo ai ragazzi che aveva incontrato nei corridoi, durante la sua passeggiatina igienica.

‑ Dove andate? Tornate ai vostri posti! Insomma, fermi là! Volete che vi castighi tutti?

I maestri gridavano, ma non ci fu niente da fare: la scuola si vuotò in un baleno, come per l'improvvisa fine dell'anno scolastico. Rimasero a mezzo gli svolgimenti dei temi, le soluzioni dei problemi, le risposte di storia e di geografia.

‑ Al Trullo! Al Trullo!

La gente si voltava, incuriosita. I vigili urbani si grattavano la testa sotto il casco, perplessi. Mamme affacciate a centinaia, a migliaia di finestre, gridavano migliaia di nomi:

‑ Tonino! Pietro! Maria! Gilda! Oretta! Dario! Albertina!

Macché: avrebbero potuto recitare in fila tutti i santi del calendario che nessuno si sarebbe voltato a rispondere.

Cinque bambini furono visti transitare a velocità moderata su un solo monopattino. Un ragazzo dei Parioli ‑ che è il quartiere di lusso ‑ tirò fuori il suo go‑ kart e suscitò una grande invidia, perché superava senza il minimo sforzo i meno fortunati che spingevano i loro tricicli, le loro automobiline a pedali, rosse come bolidi, o scivolavano rumorosamente sui pattini a rotelle.

‑ Al Trullo! Al Trullo!

Molte bambine correvano saltando la corda, un po' perché avevano l'illusione di correre più in fretta, un po' perché senza la loro corda non sarebbero andate né al Trullo né altrove.

‑ Che c'è? E' scoppiata la rivoluzione? ‑ domandò un droghiere, affacciandosi sulla soglia del suo negozio. ‑ Sarà il caso che abbassi la saracinesca?

Sette ragazzi di Campo de' Fiori si fecero prestare da un cenciaiolo un carrettino a mano, per fare il viaggio più comodi: a turno, due tiravano e cinque stavano sul carrettino, e di lassù gridavano a chi li voleva sentire:

‑ Al Trullo! Al Trullo!

Ci furono perfino degli audaci che scesero il Tevere in barca, da Ponte Milvio alla Magliana, attraversando tutta Roma: e di là si buttarono per i prati verso il Monte Cucco, in cima al quale la torta, illuminata dal sole del tramonto, aveva preso il colore di un budino alla fragola.

La telefonata magica, come potete immaginare, era arrivata anche al Trullo. Sicché i primi a precipitarsi ai piedi della torta furono i piccoli trullesi (o forse si dice trullini, non so; forse trullalleri).

Invano pompieri, vigili, agenti, soldati a piedi ed a cavallo, sottufficiali e ufficiali si sforzavano di tenerli lontani dalla linea dell'assedio.

‑ Vogliamo la torta! ‑ gridavano i ragazzini. Ma più probabilmente gridavano in dialetto: ‑ Volemo la pizza! Datece 'a pizza!

Rita e Lucrezia, intanto, avevano condotto fuori dell'ospedale i loro compagni: ma non senza aver promesso a quanti non potevano alzarsi dal letto che sarebbero tornate a portar loro un buon pezzo di torta.

Ci fu anche qualche piantuccio, si sa.

‑ Portate anche me! ‑ implorava un bambino con la gamba ingessata. ‑ Posso correre anche con una gamba sola!

‑ Bravo, ‑ gli disse Lucrezia, ‑ così ti rompi anche quella. Sta' buono, non ti dimenticheremo.

E via a correre, con la sua vestaglia rossa che la faceva assomigliare a una grossa farfalla. Correva, accanto a lei, il biondino con il braccio al collo, gridando:

‑ Che fortuna avere un braccio rotto! Che fortuna!

Un ortolano, vedendo passare quel gruppo di bambini e bambine in pigiama, in vestaglia, o addirittura in camicia da notte, esclamò:

‑ Guardate che il Carnevale è passato da un pezzo! E tu, dove vai? Vieni qui, birbaccione, torna indietro!

Queste ultime parole erano rivolte a suo figlio, che non aveva perso tempo a pensare al Carnevale, si era informato di quel che succedeva e aveva buttato la zappa per unirsi al gruppo.

‑ Misericordia! ‑ esclamò il professor Zeta, affacciandosi accanto a Paolo all'apertura della galleria.

Mille, duemila, forse tremila bambini, rompendo e scompaginando lo schieramento degli assedianti, venivano su per la collina. Grida festose risuonavano per l'aria:

‑ Caricaaa!

‑ All'assalto!

‑ Arrivano i nostri!

‑ Sono perduto! ‑ mormorò il professor Zeta, accasciandosi su un croccante. ‑ Non potrò più far distruggere la torta.

‑ E io scommetto, ‑ disse Paolo, ‑ che la torta sarà distrutta lo stesso.

‑ Che cosa vuoi dire?

‑ Ma professore, apra gli occhi! Cosa crede che ne faranno i bambini della sua torta? Non vengono mica su per misurare la circonferenza o per trovare l'area di base. Tempo un'ora, e quassù

non resterà una crosta di cioccolato a pagarla un miliardo.

Il volto del professor Zeta si accese come una lampadina.

‑ Ma certo! La mangeranno! Non ne rimarrà una briciola. Evviva! Avanti, avanti, ragazzi. Avanti che ce n'è per tutti! Buon appetito alla compagnia! Come sono stato sciocco a non averci pensato prima.

‑ Eh, ‑ disse Paolo, ‑ qualche volta anche uno scienziato può fare delle sciocchezze.

Le prime file degli assalitori erano ormai a pochi passi, e non avevano certo bisogno degli inviti del professore: nei loro occhi si leggeva la ferma, entusiastica determinazione di distruggere il nemico e di non lasciarne candito su candito. Un attimo più tardi la torta venne attaccata da tutte le parti. Un plotone di guastatori si buttò a corpo morto nella galleria scavata da Paolo e Rita. Altri, saggiamente, cominciarono a mangiare la circonferenza.

L'altoparlante di Diomede tuonava intanto: ‑ Bambini, attenzione! Non accettate regali dai marziani! Essi vi daranno dei dolci avvelenati: non mangiateli!

Ma chi stava a sentire le raccomandazioni?

‑ Lasciatene un po' anche per noi! ‑ gridavano invece i nuovi arrivati, che ancora arrancavano su per la collina.

In breve la torta apparve bucherellata come una forma di groviera. Le gallerie e i camminamenti si incrociavano a decine. Il professor Zeta si aggirava raggiante, aiutava i più deboli a staccare il cioccolato dal pavimento e a rompere le pareti di croccanti, indicava i filoni del miglior gelato, alzava tra le braccia i più piccoli perché potessero raggiungere il soffitto di panna montata.

‑ E' lei il marziano? ‑ gli domandavano i ragazzi.

‑ Sì, sono io. Sono un marziano. Mangiate e bevete, siete ospiti di Marte.

‑ Viva Marte! ‑ gridavano i ragazzi, tra un boccone e l'altro.

 

 

Ce n'è e ce ne sarà per tutti  

 

‑ Qui Dedalo chiama Diomede, qui Dedalo chiama Diomede. Passo.

‑ Qui Diomede. Siamo in ascolto. Passo.

‑ Signor generale, stanno succedendo cose dell'altro mondo. Passo.

‑ Che ne sapete voi dell'altro mondo? Ci siete già stato? Eravate con Dante Alighieri quando scese all'Inferno? Diteci quello che vedete. Passo.

‑ Signor generale, non riesco a credere ai miei occhi.

‑ Fate uno sforzo.

‑ Insomma, signor generale, i ragazzini si stanno mangiando l'oggetto misterioso pezzo per pezzo. Ecco perché non li sentivamo più gridare: hanno la bocca piena.

‑ Volete dire che il nemico spaziale sta distribuendo pasticcini?

‑ Signor generale, il nemico non si vede per niente. Si vedono solo bambini: e l'oggetto spaziale si vede sempre meno, lo stanno semplicemente facendo sparire.

‑ Cose dell'altro mondo!

‑ Vede che lo dice anche lei, signor generale?

La conversazione qui trascritta si svolgeva, verso le diciotto di quella famosa sera, tra l'ufficiale esploratore alla guida di un elicottero che sorvolava il Monte Cucco e il comando dell'Operazione E. S. (Emergenza Spaziale) situato, come già sapete, nell'ufficio del direttore delle scuole. Impotente a frenare l'assalto di migliaia di ragazzini, Diomede aveva fatto alzare in volo l'elicottero per tentare almeno di tenere sotto controllo la situazione.

Generali, colonnelli, comandanti dei pompieri e dei vigili urbani, ascoltando la relazione dell'aviatore, evitavano di guardarsi, per non doversi confessare con gli occhi che non sapevano che pesci pigliare.

In quel momento si precipitò nella stanza il vigile Meletti, detto " l'astuto Ulisse", affannato e balbettante.

‑ Ma cosa state dicendo? ‑ tuonò il generale, che non capiva una parola. Il sor Meletti si mise una mano sul cuore, per imporsi la calma, e finalmente riuscì a pronunciare due parole di senso compiuto:

‑ Mia moglie... ‑ disse, facendosi aria col berretto.

‑ Be'? Ha lasciato bruciare l'arrosto? Non vi ha attaccato i bottoni alla camicia? Cosa volete che c'importi di vostra moglie, in questo momento!

‑ Aspetti un momento che ripiglio fiato. Mia moglie è impazzita!

‑ Telefonate al manicomio, e lasciateci in pace.

‑ Signor generale, le dico che è impazzita! E' tutta matta. Si è messa in giro per i cortili, ha radunato un migliaio di donne. Dicono che vogliono andare lassù a riprendersi i loro figli... E poi...

‑ Ah, non è ancora tutto?

‑ Adesso viene il peggio, signor generale. L'ho sentita telefonare a sua sorella che sta a Trastevere, a sua cugina che sta a Monte Mario, alla sua comare che abita a...

‑ Sentite, non vorrete mica recitarci tutto l'elenco telefonico? Venite al fatto.

‑ Insomma, ha fatto sapere a mezza Roma che i ragazzini sono tutti qui. E ormai lo sa anche l'altra mezza Roma. E da tutti i quartieri stanno arrivando le mamme. Arrivano a battaglioni, signor generale! A reggimenti, a divisioni addirittura!

‑ Bravo, e ci avvertite soltanto adesso?

‑ Signor generale, è stato l'affare di due minuti. Mia moglie, quando ci si mette, è un autentico pericolo pubblico...

‑ Qui Dedalo chiama Diomede. Passo.

‑ Qui Diomede. Che succede ancora? Passo.

‑ Le donne, signor generale. Hanno sfondato gli sbarramenti. Stanno dando l'assalto alla collina da tutte le parti. Sono comparse all'improvviso, come furie scatenate. Vanno su di corsa come bersaglieri, chiamando per nome i loro figli. Passo.

‑ C'era da aspettarselo, ‑ commentò qualcuno, nella stanza. ‑ Il nemico ci ha legato le mani, impedendoci ogni mossa. Quando ha cominciato ad allettare i bambini, sapeva quel che si faceva. Ora ha scatenato le madri. E così, senza aver sparato nemmeno un petardo ci

mette in ginocchio. Avremmo dovuto bombardare l'oggetto misterioso fin dal primo minuto, ecco quel che avremmo dovuto fare.

‑ Andiamo a vedere, ‑ disse il generale, secco secco.

Si mossero tutti insieme, come se avessero aspettato soltanto il segnale.

‑ Voi no, ‑ disse il comandante dei vigili al sor Meletti, ‑ voi siete agli arresti. Così imparerete a sposare un pericolo pubblico.

‑ Ma come? Proprio io che sono corso a dare l'allarme? E poi, ci ho anch'io due figli, lassù. Avrò il diritto di...

‑ Siete agli arresti, e basta. E ringraziate il cielo che almeno uno dei vostri figli è in salvo, all'ospedale.

Ma Rita, in quel momento, non era all'ospedale, era in Paradiso. Rosicchiando beata un pezzo di torrone grosso come un sofà, essa riceveva le occhiate di ringraziamento che le lanciavano Lucrezia, il biondino con il braccio al collo e gli altri amici dell'ospedale. Di parlare non aveva tempo nessuno. Ma gli sguardi dicevano abbastanza. Si tenevano tutti uniti, in quella gran confusione, mangiando tranquillamente le pareti del buco in cui erano capitati, e chi scopriva una specialità di gelato, o un deposito di frutta candita lo indicava agli altri con un gesto, senza smettere di mangiare.

La confusione si fece indescrivibile quando arrivarono le mamme, urlanti e scapigliate, come se dovessero salvare i loro figli da un incendio o dal terremoto.

‑ Carletto! Roberto! Pinuccia! Angela! Andrea!

Strilli, richiami, esclamazioni disperate. E poi, plaff, plaff, cominciarono a volare i primi scapaccioni, via via che una mamma riconosceva il suo rampollo, coperto di crema dalla testa ai piedi.

La sora Cecilia, che andava in cerca di Paolo, capitò invece su Rita e se la strinse al petto così forte che si sentirono scricchiolare le ossa.

‑ Figlia mia, bellezza mia! Ma tu non eri all'ospedale?

‑ Sì che c'ero, guarda, ‑ rispose Rita, additando i pigiama, le vestaglie e le camicie da notte macchiate di cioccolata e di zabajone che la circondavano.

‑ Buongiorno, signora, ‑ disse educatamente Lucrezia. ‑ Vuole un po' di torta?

‑ Mangia, mamma, ‑ la esortò anche Rita. ‑ Ti giuro che non è avvelenata. Ti ho detto mai le bugie, io?

La sora Cecilia, con qualche esitazione, annusò il pezzo di torta che le veniva offerto, e siccome era una buona massaia, e di dolci se ne intendeva, non poté fare a meno di lodare il profumo. Dopo l'approvazione dell'olfatto e della vista, venne quella del gusto.

‑ Toh, ma è proprio al bacio. Chi l'avrà fatta?

Insomma, anche la sora Cecilia cominciò a sgranocchiare di gusto... E lo stesso facevano ormai, tutt'intorno, migliaia di madri, tra gli applausi dei figlioletti che avevano subito dimenticato, come al solito, gli scapaccioni.

‑ E Paolo? Dov'è Paolo? ‑ domandò la sora Cecilia.

Ecco anche Paolo. Era forse il solo che non mangiava. Sazio e felice si aggirava per la torta, dando la mano al professor Zeta.

‑ Mamma!

‑ Paolo, gioia mia!

‑ Questo è il professore che ha fatto la torta.

‑ Buon appetito, signora.

‑ Complimenti, professore, complimenti davvero. La sua torta è un capolavoro.

Il professor Zeta cominciava ormai anche lui a pensare la stessa cosa. La visione di quelle migliaia di bambini e di mamme che merendavano beatamente, all'ultima luce del giorno, gli metteva le lagrime agli occhi. Nessun esperimento riuscito gli aveva dato la felicità che gli stava procurando quell'esperimento sbagliato. E' proprio vero che qualche volta sbagliando si impara.

Calava lentamente la sera. Già un gruppetto, un altro, un altro ancora, si avviavano verso la discesa. Quasi tutti portavano grossi pezzi di torta sotto il braccio: le donne avevano pensato al marito, i bambini ai nonni, ai cani, ai gatti, ai canarini di casa. La torta non aveva più forma, ormai. La sua circonferenza si era rapidamente ritirata verso il centro, poi anche dal centro il vuoto si era fatto largo. Restavano qua e là isolotti di cioccolata, mucchietti di marzapane, laghetti di liquore.



  

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