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Gianni Rodari 3 страница



‑ I bambini hanno la fantasia accesa, ‑ borbottò il generale.

‑ Sono anche spiritosi, ‑ aggiunse un colonnello.

‑ Questo però è veramente un pezzo di cioccolato, ‑ mormorò l'astuto Ulisse. Egli era contento, si capisce, che Diomede non prendesse sua figlia per una spia; intanto, però, gli dispiaceva che Rita passasse per una bugiarda.

‑ Che cosa ne dice la scienza? ‑ domandò il generale.

Il professor Rossi e il professor Terenzio si chinarono a fiutare il corpo del delitto.

‑ Niente impedisce di supporre che i marziani sappiano fabbricare il cioccolato, ‑ disse il professor Rossi.

‑ Niente impedisce di supporre che i figli del nostro bravo vigile, qua, abbiano comprato il cioccolato in una pasticceria, ‑ disse il professor Terenzio.

‑ Questo si può escludere, ‑ disse il sor Meletti. ‑ Venendo qui ho fatto il giro delle pasticcerie. Primo nessuno vende, al Trullo, cioccolato in blocchi così grossi. Secondo, i miei figli sono stati visti l'ultima volta in una pasticceria la settimana scorsa. Hanno comprato due gomme da masticare. Quel cioccolato lì non viene dal Trullo.

‑ Ma non è detto che venga dal cielo, come la manna, ‑ ribatté il professor Terenzio.

‑ Vogliamo provarlo? ‑ propose il professor Rossi.

‑ Calma, calma, ‑ disse il professor Terenzio. ‑ Facciamolo piuttosto analizzare da un chimico. Se è di provenienza oltreterrena, conterrà qualche elemento a noi sconosciuto.

‑ Dunque ha paura ad assaggiarlo, ‑ concluse il professor Rossi. ‑ Dunque anche lei pensa che...

Il professor Terenzio picchiò il pugno sul tavolo, impallidendo: ‑ Io non ho paura di nulla. Io parlo nell'interesse della scienza.

‑ Nell'interesse della scienza, ‑ riprese il professor Rossi, ‑ ci sono stati medici coraggiosi che si sono iniettati le più terribili malattie.

‑ Questa è una sfida! ‑ tuonò il professor Terenzio.

‑ Lo è, ‑ disse il professor Rossi, impallidendo a sua volta. ‑ Ora taglieremo due pezzetti di questo presunto cioccolato e li mangeremo, e vedremo se si tratta di cioccolato terrestre o di cioccolato spaziale.

Un brivido di emozione corse per la piccola assemblea.

‑ Signori, ‑ si provò a dire il generale, ‑ non vi sembra un'imprudenza? Non posso permettere che due eminenti scienziati si sacrifichino per...

‑ Sono stato sfidato! ‑ esclamò dignitosamente il professor Terenzio.

‑ Mia figlia, ‑ mormorò il sor Meletti, ‑ dice che ne avrà mangiato un mezzo chilo, che è di ottima qualità e di facile digestione.

‑ Bando alle chiacchiere, ‑ disse il professor Rossi. ‑ Si proceda all'esperimento.

Un silenzio angoscioso seguì queste parole. Trattenendo il fiato i presenti osservarono i due scienziati che, pallidi come cadaveri, guardandosi fissamente negli occhi, si preparavano a inghiottire due minuscoli dadi della misteriosa materia.

‑ Generale, ‑ disse il professor Rossi, spiccando solennemente le parole, ‑ prenda nota di quanto potrà accadere da questo istante. Forse dal nostro esperimento dipende la salvezza dell'umanità. La presenza sul nostro pianeta di invasori spaziali, a mio giudizio, è un pericolo maggiore anche dello scoppio della bomba atomica. E' con piena coscienza di questo pericolo, in pieno possesso delle mie facoltà mentali che io...

Insomma, il professor Rossi fece un bel discorsetto, e la tirava tanto in lungo che i presenti cominciarono a domandarsi segretamente: ‑ Lo manda giù o no?

Poi toccò al professor Terenzio prendere la parola. Egli parlò del sistema solare e del cosmo, nominò Dante, Galileo, Copernico e Newton, accennò di passaggio alla differenza che passa tra l'uomo delle caverne e il professor Einstein, insomma disse cose memorabili, che vennero tutte accuratamente registrate su un magnetofono, perché non ne andasse perduta una sillaba.

Ma di nuovo i presenti furono costretti a domandarsi:

‑ Mangiano o non mangiano?

Forse i due scienziati si aspettavano che il generale facesse a sua volta un discorsetto di circostanza, ma il generale rimase zitto.

I due scienziati si fissarono come due spadaccini al momento culminante di un duello all'ultimo sangue e si misero in bocca il cioccolato, appoggiandolo con eroica precauzione sulla punta della lingua.

Ritirarono la lingua.

Masticarono.

Deglutirono.

Rimasero lì immobili come due busti ai giardini pubblici, per qualche attimo. Poi una smorfia si disegnò sul volto del professor Rossi. Un'altra smorfia, come da uno specchio, le rispose dal volto del professor Terenzio.

‑ E' cattivo? ‑ domandò il sor Meletti, senza il minimo senso della solennità del momento.

Tutti lo zittirono con indignazione.

‑ Cafone, ‑ mormorò, a parte, il generale. Poi, rivolto ai due scienziati:

‑ Ebbene, signori? Siamo in attesa.

‑ Provo, ‑ balbettò il professor Rossi, ‑ un certo senso di soffocazione.

‑ Io soffoco del tutto... ‑ emise il professor Terenzio.

‑ Forse... forse è... ‑ disse il primo.

‑ Veleno! ‑ finì il secondo.

‑ Presto! ‑ ordinò il generale, ‑ a me un'autoambulanza! Bisogna portarli d'urgenza al più vicino ospedale!

‑ Aiuto! ‑ gridò il sor Meletti. ‑ Rita! Rituccia mia! Paolo! Bisogna portare all'ospedale anche loro! Presto per carità!

Il professor Rossi e il professor Terenzio, ormai, si torcevano come in preda a terribili dolori, si slacciavano il colletto con mani febbrili, si aggrappavano al generale, al colonnello, a tutti i presenti.

‑ Ecco, ‑ gridò qualcuno, ‑ ecco quello che succede quando si ha paura di ricorrere al cannone!

Ma la confusione, nella stanza, era tale che non è possibile sapere con precisione chi sia stato l'autore della storica frase.

 

 

Il professor Zeta  

 

Mentre le autoambulanze portavano all'ospedale, tra un impressionante ulular di sirene, i due scienziati che si lamentavano pietosamente e Rita che protestava, invece, di sentirsi benissimo, Paolo si aggirava inquieto e malinconico per i campi, dove si era rifugiato per evitare guai.

Che mattinata noiosa, era stata la sua... In una vecchia cava abbandonata aveva tentato di far passare il tempo dando la caccia alle lucertole. Ma quell'occupazione, che gli pareva tanto divertente quando gli capitava di salare la scuola, gli era sembrata noiosissima. Da mangiare non aveva trovato nulla, ma a dire la verità, dopo la scorpacciata del giorno prima, non ne sentiva nemmeno il bisogno. All'udire in lontananza le sirene, pensò che fosse mezzogiorno. I suoi passi, obbedendo meccanicamente a quel segnale, lo riportarono verso il Trullo. Intanto, però, non cessava di rigirarsi nella mente l'avventura vissuta nella torta.

" Abbiamo avuto troppa fretta di scappare, ‑ si diceva, ‑ quel misterioso signor Geppetto, o come diavolo si chiama, non aveva per niente l'aria minacciosa. E non aveva nemmeno l'aria di un marziano. Potrei giurare di averlo visto sorridere, nel momento in cui gli voltavo la schiena".

Attraversò le strade con un po' di batticuore, nel timore che lo stessero cercando. Un compagno di scuola chiamò da un cortile:

‑ Non ti sei fatto vedere in tutto il giorno. Che, eri malato?

‑ Sì, ‑ rispose pronto, ‑ ma adesso sono guarito.

E tra sé concluse: " Dunque nessuno sa nulla. Basta che non incontri papà ".

Si ritrovò fra i pompieri di cui aveva attraversato lo sbarramento, la sera prima, per ben due volte.

" Non c'è due senza tre, ‑ pensò.

‑ Ma stavolta non sarà tanto facile".

In cima alla collina la torta non dava segno di vita. Un pompiere, interrogato da Paolo, disse che secondo lui l'ordine di assalto poteva giungere da un momento all'altro.

‑ Prima, naturalmente, suonerà l'allarme. Tutti i civili dovranno ritirarsi.

‑ Che, volete fare la doccia ai marziani? ‑ domandò Paolo, sornione.

‑ La doccia la faccio a te se non giri al largo, ‑ rispose il pompiere.

In quel momento, con un festoso latrato, comparve da chissà dove il cane della famiglia Meletti.

‑ Zorro! ‑ esclamò allegramente Paolo, accarezzandolo, ‑ dove ti eri cacciato, eh, vagabondo?

Zorro scodinzolò beato.

‑ Vuoi tornare lassù, eh? ‑ mormorava Paolo, grattandogli le orecchie. ‑ Aspetta, ora vediamo come si fa.

L'idea gli venne quando lo sguardo gli cadde su un sasso che se ne stava lì, mezzo interrato, come se qualcuno ce l'avesse messo apposta. Paolo raccattò il sasso, sorridendo dentro di sé. Aspettò che il pompiere guardasse dall'altra parte e scagliò il sasso su per la collina, con tutta la sua forza. Senza esitare, obbedendo al vecchio gioco, Zorro si precipitò in direzione del sasso, per riportarlo al padrone. Ma non era questo, che Paolo voleva. Appena il cane ebbe passato, con un guizzo, lo sbarramento, Paolo si lanciò a rincorrerlo gridando: ‑ Aiuto, aiuto! Il mio cane! Non voglio che lo prendano i marziani! Argo, Argo!

‑ Vieni qua, torna indietro! ‑ gridavano i pompieri. ‑ Torna indietro, stupido. Vuoi rischiare la vita per un cane? Ma guarda se non è matto quel bambino. Torna indietro!

Ma Paolo pareva non avere orecchie. E Zorro, che già stava tornando verso di lui col sasso in bocca, si voltò a sua volta e corse in su, abbaiando come se avesse capito di che gioco si trattava.

‑ Ragazzino, torna indietro! E' pericoloso! ‑ gridavano i pompieri. Le loro grida avevano attirato in quel punto una piccola folla.

‑ E' il figlio del sor Meletti, ‑ esclamò un bambino. ‑ Guardate, c'è qualcuno lassù!

‑ Il marziano! Il marziano!

‑ Ha rapito Paolo, guardate! Se l'è portato dentro nell'astronave!

Paolo aveva visto all'ultimo momento brillare gli occhiali del misterioso signor Geppetto, all'ingresso della galleria che lui e Rita avevano scavato nella torta. La paura lo aveva fatto vacillare per un secondo.

" Ma se sono venuto apposta per sapere chi è! " rifletté furiosamente.

Comunque fu il misterioso personaggio a decidere per lui: sporse un braccio, afferrò Paolo per la giacchetta e lo tirò dentro la galleria, scalciando per tener lontano il cane che gli si era attaccato a una gamba.

‑ Quek querequek perebrok! ‑ lo sentiva borbottare Paolo, nella sua strana lingua.

‑ Fermo, Zorro! Sta' buono, ‑ ordinò Paolo. Qualcosa gli diceva che poteva fidarsi di quell'ometto e delle sue intenzioni.

‑ Buono? Buono? ‑ borbottò il " signor Geppetto". ‑ Ma questo è italiano. Siamo in Italia, allora? Fa' tacere quel cane, ragazzo, e parla tu.

‑ Buono, Zorro. Zitto, cuccia, là! Ooooh... Sì, signore, siamo in Italia. A Roma.

‑ A Roma! a Roma! ‑ ripeté il " signor Geppetto". ‑ Bontà del cielo!

‑ Perché, ha sbagliato indirizzo? ‑ domandò Paolo.

‑ Indirizzo?

‑ Voglio dire che forse la torta doveva essere recapitata in un'altra città.

‑ Vedo che tu mi prendi per un pasticciere. No, ragazzo mio, non sono un pasticciere: sono soltanto un pasticcione.

‑ Però parla benissimo l'italiano.

‑ Quanto a questo, posso parlare una dozzina di lingue altrettanto bene che la mia.

‑ Il marziano? ‑ arrischiò Paolo.

‑ Il marziano? ‑ ripeté il " signor Geppetto". ‑ Ah, capisco. Ora capisco tutto quello schieramento di forze, i cannoni, i missili... Già, già. Non poteva succedere diversamente. I marziani, sicuro. Ci sarà un allarme. Si è pensato a un'invasione di forze provenienti da un altro pianeta. Dio mio, è la rovina! Sono un uomo finito.

Tutto assorto nella sua disperazione, lasciò che Paolo si liberasse della sua stretta per sedersi su una grossa ciliegia candita che Zorro leccava accanitamente.

‑ Io mi chiamo Paolo, ‑ disse il bambino. ‑ Mia sorella si chiama Rita. Ieri sera era qui anche lei. Adesso non so dove l'abbiano portata.

‑ Paolo, ‑ ripeté il " signor Geppetto". ‑ Scusami se io non posso presentarmi a mia volta. Il mio nome è un segreto di Stato.

‑ Di quale Stato?

‑ Anche questo è un segreto. Non devi farmi domande, perché non potrei risponderti. Del resto, credo di aver perfino dimenticato il mio nome, tanto è segreto. Chiamami professor Zeta, se vuoi.

‑ Allora preferisco chiamarla professor Geppetto. E' stata Rita a pensare a questo nome.

‑ Chi è Geppetto?

‑ Come, non conosce la storia di Pinocchio?

Il professor Zeta dovette confessare che non ne aveva mai udito parlare. Paolo, senza perdere tempo, gli raccontò la storia del celebre burattino. Ma il professore non lo ascoltò a lungo.

‑ Che cos'è tutto questo, secondo te? ‑ domandò al bambino, con un ampio gesto della mano.

‑ Una magnifica torta, professore, ‑ rispose Paolo, ‑ la più grande, la più straordinaria che mai si sia vista. Una torta volante, più grande di tutti gli oggetti volanti che abbiano mai attraversato gli spazi.

‑ Una torta. Pensavo di essere impazzito, quando me ne sono accorto. Credevo di avere delle allucinazioni al cioccolato, alla crema, al pistacchio, eccetera. Purtroppo è la triste verità: questa è una torta, nient'altro che una stupida torta.

‑ Stupida? Triste? Ma, professore, cosa va dicendo?

‑ Tu non puoi capire.

‑ Scusi, sa, ma il cioccolato lo capisco benissimo e le posso assicurare che è di prima qualità.

‑ Questo è vero. Non è nemmeno radioattivo.

‑ Come lo sa?

‑ Ho il contatore, di là, nella mia grotta. Il contatore Geiger. Sai che cos'è?

‑ Uno strumento per misurare la radioattività.

‑ Precisamente. E in tutta questa immensa, balordissima torta non c'è ombra di radioattività. Ho scavato in lungo e in largo, ho esplorato una ventina di raggi, la circonferenza, la superficie, il volume. Assolutamente nulla. E' questo che mi fa impazzire.

‑ Abbia pazienza. Non è meglio così? Se la torta era radioattiva non era commestibile.

‑ Ti ripeto che non puoi capire.

‑ Allora mi spieghi lei.

‑ Ti spiegherò quel che posso. Certi particolari, naturalmente, sono coperti dal segreto di Stato, e non ne farò cenno. Posso dirti, per cominciare, che io sono uno scienziato atomico.

‑ Terrestre?

‑ Terrestre, sì. Certamente, terrestre. Ma questo lo vedi da te.

 

 

Il più bell'errore del mondo  

 

‑ Circa sei mesi fa, ‑ cominciò a narrare il professor Zeta, ‑ ebbi l'incarico dal mio governo di studiare da un punto di vista particolare il problema del fungo atomico. Lo sai cos'è un fungo atomico?

‑ Lo sanno anche i sassi. E' quel nuvolone mortale che si forma dopo l'esplosione di una bomba atomica. Giusto?

‑ Pressappoco. Ora, come tu sai, il fungo diventa preda dei venti, che lo sospingono in qua e in là...

‑ Avvelenando l'aria, avvelenando la pioggia e così via. Un bel sistema per distribuire dall'alto le principali malattie.

‑ Rifletti, però. Gran parte della nuvola atomica si disperde nell'atmosfera e i suoi effetti mortali vanno sprecati.

‑ Meno male!

‑ Come sarebbe a dire? Ragazzo mio, tu non hai una mentalità economica. Perché sprecare quelle preziose sostanze?

‑ Vorrà dire velenose.

‑ Velenose, appunto. Il mio governo ha pensato: se riusciamo a ottenere un fungo atomico dirigibile, lo possiamo far volare nell'atmosfera a nostro piacimento; esso girerà intorno al globo, come una piccola Luna, e noi potremo farlo cadere qua o là, poi richiamarlo per aria, dirigerlo su un altro obiettivo. Con una sola bomba si otterranno gli effetti di un intero magazzino atomico.

‑ Che bellezza, ‑ esclamò Paolo.

‑ Che soddisfazione per quelli che, dopo aver ricevuto sulla testa la bomba atomica, si vedrebbero recapitare a domicilio anche il fungo. Ma sa, professore, che voi scienziati ne studiate proprio di buone?

‑ Si fa per risparmiare, ‑ rispose il professore, serio serio.

‑ Scusi, ma non si risparmierebbe di più se le bombe atomiche non si fabbricassero nemmeno?

‑ Sono cose che tu non puoi capire. E' politica. Io non mi interesso di politica. Io sono soltanto uno scienziato. Anzi, ahimè, lo ero...

‑ Continui, professore. Lei dunque accettò quell'incarico dal suo governo.

‑ Sì, e mi misi subito al lavoro per progettare il fungo dirigibile. Non sto a dirti quanti esperimenti, quanto sudore...

‑ ... e quanti quattrini, ‑ commentò Paolo.

‑ Insomma, un mese fa credetti di aver trovato la soluzione al mio problema. Passai i disegni alla fabbrica, sorvegliai personalmente tutti i preparativi, tutte le fasi della fabbricazione della bomba che doveva servire alla grande prova. Una bomba magnifica, te lo dico io.

‑ Magnifica?

‑ Ti dico, bellissima. La più bella bomba atomica che sia mai stata fabbricata. Materiali di prim'ordine, rifiniture eleganti, un congegno perfetto. Ricordo la cerimonia dell'inaugurazione... Bandiere, coppe di sciampagna, pasticcini. Una festa commovente. Il ministro non la finiva più di stringermi le mani. A un certo punto, per l'entusiasmo, lasciò perfino cadere un pasticcino nella bomba. Sai, uno di quei pasticcini alla crema e al cioccolato. Lì per lì, ci si fece sopra una bella risata. Non era successo nulla che potesse guastare i meccanismi della bomba. Almeno, così pensavo. Ora, ahimè, non sono più dello stesso parere. Finalmente, venne anche il giorno dell'esperimento. La bomba doveva essere sganciata da un aereo e scoppiare a dieci chilometri dal suolo, anzi, dal mare. Secondo il progetto, io stesso avrei sorvegliato dall'aereo il fungo atomico, lo avrei manovrato per una mezz'ora, quindi lo avrei diretto a tuffarsi in un punto prestabilito dell'oceano.

‑ Quale oceano?

‑ Eh, no, figliolo. Non posso dirtelo. Segreto di Stato.

‑ L'oceano Segreto non c'è, sulle carte geografiche.

‑ Lasciami finire. Tutto andò bene fino allo scoppio della bomba...

‑ Addio quattrini!

‑ Ordinai al pilota di raggiungere una certa distanza dal fungo atomico e mi accinsi alla parte più importante dell'esperimento. Ma

il fungo non si formò! La nuvola atomica si condensò rapidamente, assumendo la forma di un cilindro piuttosto piatto, che rotava con lentezza su se stesso. La cosa era abbastanza strana, ma il peggio fu quando mi accorsi che l'oggetto non rispondeva assolutamente ai congegni per la teleguida da me preparati. Tentai in cento modi, da distanze diverse, da diverse quote, di dirigerlo da una parte qualsiasi. Macché: non era dirigibile. Il pilota, nervosissimo, protestava che il carburante stava per finire, che dovevamo tornare alla base, se non volevamo precipitare. Ero troppo disperato per preoccuparmi di tanto poco. Se vuoi saperlo, non mi importava nulla di precipitare: volevo prima riuscire a dirigere il fungo.

‑ Vorrà dire il non‑ fungo.

‑ Il non‑ fungo, sì. Andò a finire che il carburante si esaurì. Dovemmo gettarci col paracadute. Il pilota, più pratico di me, manovrò il suo ombrellone in modo da cadere in mare, per farsi ripescare dalla Marina. Io, invece, finii a capofitto nel non‑ fungo. Se avessi preso la mira, non avrei potuto fare meglio: caddi infatti, come potei constatare in seguito, proprio nel centro dell'oggetto.

‑ E si fece un bernoccolo al cioccolato!

‑ Nessun bernoccolo. Piuttosto, senza volerlo, siccome avevo la bocca aperta, mi feci una scorpacciata di panna montata. Puoi immaginare come rimasi quando scoprii che tutti i miei studi e l'importantissimo esperimento ordinato dal mio governo si erano risolti, per un banale errore, in una torta, sia pure di proporzioni gigantesche.

‑ Come rimase?

‑ Avrei voluto fare un buco e buttarmi nell'oceano, ecco come rimasi.

‑ Che sciocchezza, scusi. Io mi sarei sentito l'uomo più fortunato del mondo. A lei non piacciono i dolci?

‑ Certo che mi piacciono. Li adoro. Anche i miei bambini li adorano.

‑ Ah, lei ha dei bambini.

‑ Ne ho due, uno più bello e più caro dell'altro.

‑ E fabbrica bombe...

‑ Ti prego, non torniamo su questo argomento. Ormai è dimostrato che io so soltanto fabbricare torte. Perché la colpa è certamente mia. Il pasticcino del ministro ha certamente contribuito a questo assurdo risultato. Ma se io non avessi sbagliato a fabbricare la bomba, neanche un milione di pasticcini avrebbero potuto provocare questa balorda reazione al cioccolato.

‑ Ma lei dovrebbe sentirsi orgoglioso di quello che ha fatto: lei è un benefattore dell'umanità.

‑ Non prendermi in giro.

‑ E perché non ha fatto quel famoso buco per buttarsi di sotto?

‑ Non lo so nemmeno io. I venti hanno portato la torta, la torta ha portato me. Da mangiare non me ne mancava. Purtroppo. Avevo della carta, con me, mi sono messo a rifare i miei calcoli per trovare l'errore. Ieri sera stavo per riuscirvi, quando siete arrivati voi due. Ho seguito la vostra galleria, mi sono piazzato là per tener d'occhio la situazione. Non sapevo che la torta avesse atterrato, e tanto meno che avesse scelto proprio Roma per l'atterraggio.

‑ Tutte le strade portano a Roma, ‑ ricordò Paolo. ‑ E adesso, che cosa ha intenzione di fare?

Il professor Zeta si alzò e prese a passeggiare su e giù per la galleria, senza badare alle pozzanghere di rosolio e di menta in cui ficcava i piedi.

‑ Il mio dovere è di distruggere questo oggetto, perché non rimanga traccia del mio infelice esperimento.

‑ Distruggere tutto questo ben di Dio? Ma professore, lei è matto. Qua c'è da mangiare dolce per un anno!

‑ Questo è escluso. Distruggerò la torta, anzi, la farò distruggere.

‑ E da chi?

‑ E' semplice: dalle forze che la stanno cingendo d'assedio. Farò in modo, prima di tutto, da confermare la loro opinione che questa sia un'astronave extraterrestre; poi farò vedere che i marziani stanno per passare all'attacco e attirerò sulla torta un bel fuoco concentrico. I lanciafiamme faranno il loro dovere.

‑ Mai non sia! Senza contare che morirebbe anche lei.

‑ Morirò, è necessario. Non sarà la prima volta che uno scienziato si sacrifica...

‑ Sarà la prima volta che uno scienziato morirà in una torta, invece di mangiarsela. Ma io glielo impedirò. Non solo, ma farò sapere a tutti che razza di genio si nasconde qua dentro: il nuovo Leonardo da Vinci, capace di trasformare le bombe atomiche in torte al cioccolato. Lei diventerà l'uomo più famoso della nostra epoca. Pensi, professore, su tutte le piazze del mondo, l'umanità riconoscente le innalzerà dei monumenti.

‑ Desidero un solo monumento: la tomba.

‑ Lei è pazzo, professore, ma pensi, pensi, com'è bella la vita, e com'è dolce la torta...

‑ Io penso soltanto che come scienziato atomico sono disonorato per sempre. E' inutile che tu insista, Paolo. Ho già deciso. La morte non mi fa paura. Piuttosto, aiutami a mettere in atto il mio progetto.

‑ Neanche per sogno!

‑ E invece mi aiuterai. Porterai al comando antitorta un mio messaggio, che dirà così: " Da bordo dell'astronave Marte Prima ai terrestri: avete mezz'ora di tempo per gettare le armi e per consegnarci in ostaggio mille bambini. In caso contrario, allo scadere del trentesimo minuto scateneremo una scarica nucleare che distruggerà Roma in un secondo. Firmato, il comandante... " Bisogna trovare un nome adatto. Be', facciamo... " il comandante Gor". Ti sembra un messaggio abbastanza minaccioso? Naturalmente, non accetteranno mai di consegnarmi mille bambini; sarebbero dei bei criminali! Non rimarrà loro che aprire il fuoco subito, prima che scada il mio ultimatum. E sarà la fine per la torta. Finis, in latino. Ecco, ora ti scrivo il messaggio...

E il professore cominciò senz'altro a vergare con mano tremante per l'eccitazione il testo dell'ultimatum.

Giunto alla frase che riguardava il numero degli ostaggi ebbe un'esitazione.

‑ Mille bambini... E se dicessi duemila? Meglio, meglio duemila. Faranno più presto a sparare e la mia agonia sarà più breve.

‑ Non sprechi il suo tempo, ‑ gli disse Paolo con decisione. ‑ Non penserà davvero che io porti quel pazzesco messaggio al comando?

‑ Sì che lo porterai.

‑ E invece no. Glielo dico chiaro e tondo: no e poi no.

‑ Ti butterò giù dalla torta con la forza.

Il professor Zeta disse queste parole con una strana espressione. Pareva, via, che stesse per scoppiare in lacrime.

Finì di scrivere, firmò col nome bizzarro che si era scelto, controfirmò inventando lì per lì dei caratteri incomprensibili.

‑ Questo saggio di scrittura marziana, ‑ disse, ‑ li convincerà che non c'è trucco.

Piegò il foglio e lo tese a Paolo.

‑ A te, obbedisci.

‑ Altrimenti?

‑ Altrimenti... te l'ho detto, ti butterò giù a calci.

‑ Perché non prova?

Il professor Zeta boccheggiò, fece mille smorfie, ma gli si leggeva ugualmente negli occhi che non sarebbe mai stato capace di prendere a calci nessuno.

‑ Non mi provocare, ‑ piagnucolò.

‑ Sono un uomo buono, io.

‑ Un uomo buono che vuol far bombardare la torta perché nessuno possa mangiarne.

‑ Ti prego, Paolo, fa' come ti dico.

‑ No.

Il professor Zeta, nel calore della conversazione, fece un brusco movimento in avanti e afferrò Paolo per un braccio. Voleva solo pregarlo più caldamente. Ma aveva dimenticato la presenza di un testimone pericoloso. Pensando che Paolo fosse in pericolo, Zorro balzò su con un ringhio e addentò i polpacci del povero professore.

‑ Ahi! Aiuto!

‑ Fermo, Zorro. A cuccia. Visto, professore? Lei non può toccarmi, non può cacciarmi via. E fin che io resto qua la torta è salva, perché lei non vorrà far morire anche me. Almeno, lo spero.

‑ Se non avrò scelta, ‑ disse cupamente il professor Zeta, ‑ butterò il messaggio con un peso, e tu morrai qua dentro, vittima della tua ostinazione. Ma non voglio arrivare a tanto.

‑ E io non voglio che la torta vada distrutta.

‑ Squik, squok, karabrok, brek brak! ‑ cominciò a urlare nella sua lingua lo scienziato.

‑ Se mi parla a quel modo, la capisco anche di meno, ‑ osservò Paolo, tranquillo.

‑ Squok, squek, squik...

Il monologo del professor Zeta continuò per un pezzo. Egli appariva tanto disperato che Paolo cominciò a domandarsi se non stesse perdendo la ragione. Poi Zeta si calmò, riprese a parlare in italiano, ricominciò da capo, con infinita pazienza, a convincere Paolo a portare il messaggio.



  

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