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Gianni Rodari 2 страница



‑ Dove andate voi? ‑ gridò ad un tratto un vigile, che aveva sentito alle proprie spalle il pesticciare del gregge.

‑ Buona sera, sor tenente. Che ci volete fare? Siamo pastori, andiamo dove vanno le pecore.

‑ Tornate indietro, indietro!

Anche gli altri vigili si erano voltati e scoppiarono a ridere bonariamente. Quello fu il loro errore, come spiegò più tardi Paolo a Rita. Perché le pecore non capivano gli scherzi. Esse capivano soltanto che a venti metri dal loro muso c'era la loro collina, il tranquillo recinto che le attendeva per la notte. Avrebbero obbedito ai pastori. Ma dei due, uno era un ragazzotto un po' tonto, l'altro era un po' sordo: prima che i vigili potessero fargli capire che era proibito salire sulla collina, le pecore, spaventate e testarde insieme, spingendosi, urtandosi, belando disperatamente, si aprirono un varco tra le file degli assedianti, in una nuvola di polvere.

‑ Presto, ‑ ordinò Paolo a Rita, sottovoce, ‑ fa' come me.

Approfittando della confusione, si gettò carponi nel gregge. Non ebbe altro da fare, perché al resto pensarono le pecore. Esse lo spinsero dall'altra parte della strada, lo spinsero su, su per la scarpata, lui e Rita, che dopo il primo attimo di paura aveva preso confidenza con quel modo di camminare, e si divertiva un mondo a restituire zuccate alle pecore, nei fianchi tiepidi e lanosi.

" Vediamo chi ha la capoccia più dura", pensava arrampicandosi a quattro gambe. I sassi e gli sterpi le graffiavano e pungevano le mani e le ginocchia, e qualche lagrima le scendeva per conto suo lungo le guance, ma essa non sentiva dolore.

‑ Di qua! ‑ sentì che Paolo la chiamava. C'era, appena più in alto del recinto, il rudere di un muricciolo, e Paolo già vi si era acquattato, come dietro il riparo di una trincea. Quattro sassi appena, ma bastarono a nasconderli entrambi.

‑ Ora non ci possono più vedere, ‑ disse Paolo. ‑ Saliremo per quel canalone.

Il " canalone" era una crepa nel fianco della collina, scavata dalla pioggia o da una frana.

‑ Vuoi proprio andarci? ‑ domandò Rita con un sussurro, guardando in su.

Venti metri sopra le loro teste nereggiava l'orlo della " cosa". Ora

che c'era tanto vicina, Rita non aveva più il coraggio di chiamarla dentro di sé la " torta": d'improvviso, era ridiventata un oggetto misterioso, la " Cosa", con una preoccupante maiuscola davanti.

‑ Se vuoi, aspettami qui.

Paolo era sicuro e deciso come Colombo nel momento di metter piede sul Nuovo Continente. Rita inghiottì la paura:

‑ Va bene, vengo.

Una breve e silenziosa arrampicata li portò a pochi passi dalla " Cosa". Visto da vicino il suo fianco aveva l'aspetto minaccioso di una inespugnabile muraglia.

‑ Andrò io per primo, ‑ annunciò Paolo. ‑ Quando ti farò un segnale sali su. Non ti spaventare se sentirai delle grida.

‑ O Dio, e se mi sparano?

‑ Su, su, non ti sparerà nessuno.

‑ Aspetta un momento. Prendi la paletta: se è una torta, ci fai un buco e ci nascondiamo lì dentro.

Paolo prese la paletta di malumore. Gli pareva, prendendola, di rinunciare alle sue convinzioni. Si sentiva anche un po' ridicolo, ad affrontare con una paletta da spiaggia i visitatori provenienti dallo spazio.

" Quelli, ‑ pensava, ‑ avranno come minimo il raggio mortale, il disintegratore, il diavolo a quattro".

Però prese la paletta. E fece bene, perché ad aspettarlo, in cima al Monte Cucco, non c'erano né marziani né venusiani pronti a schiacciarlo come una formica; e non c'era neanche un'astronave, almeno del genere che si poteva figurare Paolo, in base alla sua esperienza di film di fantascienza. C'era una torta, ecco.

Non c'era bisogno di sbatterci il naso per sentirne il profumo: anzi, i profumi, cento e cento e cento profumi diversi e inebrianti. Paolo affondò la paletta nella parete e in un momento ci scavò una nicchia abbastanza larga per accogliere lui e la sorella.

Rita, che tendeva l'orecchio in attesa del richiamo, si sentì invece piovere addosso grossi pezzi di marzapane e di pasta frolla, una cascatella di uvette dolci, un ruscelletto di rosolio. Per non perdere tempo, cominciò ad assaggiare quel che le veniva a tiro. Ed era tanto assorta nella sua merendina che Paolo dovette chiamarla tre volte per ottenere risposta.

‑ Vengo, vengo, ‑ rispose a bocca piena.

E ben presto si accomodò a sua volta nella nicchia profumata. Paolo si affrettò a murarne l'ingresso con un blocco di cedro candito, lasciando solo una finestrella perché passassero l'aria e la luce.

‑ Sei convinto, adesso? ‑ domandò Rita, tra un boccone e l'altro.

‑ Va bene, hai vinto la scommessa. E' una pizza. Ti pagherò.

‑ Certo, che pagherai. Le scommesse non si fanno mica per sprecare il fiato.

‑ Va bene, te l'ho detto. Ma adesso lasciami lavorare. Mettiti da questa parte, comincerò a scavare una galleria. Voglio esplorare tutta la torta. Non sono mica venuto fin quassù per mangiare, io.

‑ Ecco come sei, tu. Abbiamo almeno mezzo metro di cioccolato sotto i piedi, ci troviamo in una grotta di pastafrolla, più al sicuro di Pinocchio nel ventre del pescecane, e tu pensi a esplorare.

‑ Tu mangia pure con comodo. A scavare penso io.

‑ Be', ‑ concluse Rita, ‑ ti darò una mano. Per mangiare non mi occorrono tutt'e due.

Sotto i colpi delle palette la torta si apriva docilmente, come la giungla sotto il coltello dell'esploratore. I due fratelli attraversarono senza difficoltà diversi filoni di crema, di panna, di pasta mandorlata. Scavalcarono ruscelli di zabajone, affondarono fino al ginocchio in pozzanghere di sciroppo al ribes, illuminarono con la loro pila piccole grotte scavate nelle viscere della torta da correnti sotterranee di liquore, allo stesso modo che i fiumi del Carso, sprofondando sotto le montagne, ci scavano caverne e acquedotti naturali.

Di quando in quando, ciliege candite più grosse che paracarri sbarravano loro il passo. Paolo, che la furia della scoperta spingeva avanti come un motorino, si contentava di aggirarle: Rita invece se ne riempiva la bocca. Con una mano contribuiva distrattamente al progresso della galleria: con l'altra esplorava le pareti di marrons glacé s, si portava alla bocca una noce farcita grossa come una zucca, faceva l'inventario delle strane pietre su cui camminava, che erano per lo più mandorle tostate e noccioline abbrustolite.

‑ Su, su, lavora, ‑ la esortava di quando in quando Paolo. ‑ No, non di là: scava in questa direzione, dobbiamo seguire il raggio se vogliamo arrivare al centro.

‑ Peccato. Sento qui a destra un freschetto... Ci dev'essere del gelato, in questa torta.

‑ Peccato che non abbiamo portato la bussola per orientarci.

‑ Cos'importa? Qui è torta dappertutto: a nord, a sud, a est e a dovest.

‑ Si dice ovest, non dovest. Te l'avrò insegnato dieci volte.

‑ Eh, lo so che sei bravo. Però la scommessa l'ho vinta io. Uhm... in questo punto hanno messo troppo liquore. Senti, non ci ubriacheremo mica? Ahi! Adesso piove... Fammi provare... Volevo ben dire: non è acqua, è marsala. Aiuto, si sprofonda! Ah, no, meno male. Stiamo camminando sui savoiardi. Sotto i piedi, a dire la verità, io preferisco i croccanti: sono più solidi.

Paolo non cessava un attimo di spalare. Senza aprire bocca catalogava mentalmente i materiali che venivano a contatto con la sua paletta: " Marmellata di lamponi... uva sultanina... crema... gelato di pistacchio... "

Improvvisamente si fermò e strinse il braccio a Rita in segno di allarme.

‑ Spegni la pila, ‑ le ordinò in un soffio.

‑ Ci si vede lo stesso. Come mai?

‑ Zitta: guarda anche tu.

Nella parete di avanzamento la paletta aveva aperto un pertugio, dal quale usciva un tenue raggio di luce. Rita guardò... C'era una grotta, di là... E in mezzo alla grotta, seduto per terra, un uomo scriveva febbrilmente su alcuni fogli che teneva appoggiati alle ginocchia, alla luce di una torcia elettrica infilata in un arancio candito.

‑ Ma quello è Geppetto! ‑ bisbigliò Rita.

‑ Sì, e tu sei la Fata dai capelli turchini... Non dire sciocchezze. Lasciami riflettere.

Trascorsero un paio di minuti, durante i quali Paolo e Rita si alternarono in osservazione davanti al pertugio.

‑ Hai pensato?

‑ Non ancora.

‑ Dimmi almeno cosa devi pensare, così posso pensare anch'io. Ad aspettare mi annoio tanto.

‑ Chiamiamolo pure " il signor Geppetto", tanto per dargli un nome, ‑ rispose Paolo. ‑ Ma chi è? Che ci fa qui dentro? Come c'è venuto?

‑ Non so. Forse ha fatto come noi. E poi, vedi, scrive: sarà uno scrittore. Un giornalista.

‑ Bene, ora hai qualcosa a cui pensare. Ma sta' zitta, prima che si accorga di noi.

Rita si chetò e cominciò a leccare la parete di gelato. Ma il silenzio scelse proprio quell'attimo per scoppiare come una bomba.

‑ E' Zorro! ‑ esclamò Rita. ‑ Ha fiutato le nostre tracce e ci ha seguiti.

‑ E ora ci rovina tutto, ‑ disse Paolo. Anche lui, purtroppo, ad alta voce: l'eccitazione del momento gli aveva fatto dimenticare le regole della prudenza. Mentre Zorro si precipitava tra le loro gambe abbaiando festosamente, Paolo rimise l'occhio al pertugio e fremette: il misterioso " signor Geppetto" era balzato in piedi, allarmato, e tendeva l'orecchio.

‑ Buono, Zorro, ‑ bisbigliò Paolo.

Il cane si accucciò, scodinzolando.

‑ Il " signor Geppetto" ci ha sentiti, ‑ informò Paolo. ‑ Fa il giro della sua grotta, orecchiando alle pareti...

‑ Mi sembra il momento di tagliare la corda.

‑ Aspetta. Voglio scoprire...

‑ Sì, così lui scopre noi, e siamo fritti.

‑ Zitta. E' qui.

Il misterioso abitatore della torta, esplorando le pareti della sua grotta, era giunto presso il pertugio scavato dalla paletta di Paolo qualche minuto prima. Paolo poté studiarselo da vicino. Era un uomo quasi vecchio, quasi calvo, quasi curvo: tutto un po' " quasi", tranne gli occhiali, che non erano " quasi" spessi, ma spessi del tutto, due lenti della grossezza di un dito, dietro le quali scintillavano due occhi neri, mobilissimi. Vestiva una lunga palandrana grigia, qualcosa fra il camice di un magazziniere e il grembiule di un droghiere. Dal colletto sbottonato e ciancicato gli usciva un brandello storto di cravatta.

‑ Scappiamo, Paolo.

Ma Paolo era come inchiodato al pertugio. Non se ne staccò nemmeno quando il " signor Geppetto" vi incollò a sua volta gli occhiali. Di qui e di là dalla parete (gelato di pistacchio, a quanto sappiamo) quattro occhi curiosi si fissarono nelle rispettive pupille. Paolo si sentì un brivido freddo corrergli la schiena, ma non si mosse. Il misterioso e certamente falso Geppetto non dovette provare nemmeno un briciolo di paura, perché gridò qualcosa con voce irritata: ‑ Squak squok karapak pik!

Questi furono, all'incirca, i suoni che colpirono le orecchie di Paolo e di Rita. E quelle di Zorro che balzò sulle quattro zampe e riprese ad abbaiare.

‑ Brek brok karabrok puk! ‑ gridava il vecchio. E mentre gridava cacciò le mani nel pertugio per allargarlo. Ne fece in pochi attimi un finestrino e vi si affacciò, continuando a gracidare nella sua lingua incomprensibile.

‑ Presto, scappiamo! ‑ gridò Paolo. Fece qualche passo all'indietro, senza perdere di vista il volto inquadrato nella parete verdastra, illuminato dalla pila curiosa e tremante di Rita. E allora vide, o gli parve di vedere, la luce di un sorriso disegnarsi dietro, sotto e tutto intorno agli occhiali... Poi, via, a gambe, a quattro gambe, lui e Rita, a quattro zampe e una coda ritta per aria Zorro, via tutti e tre a rompicollo, per la lunga galleria, pesticciando affannosamente nello zabajone, nel rosolio, nelle paludi di marmellata, urtando nelle pareti di panna e di pasta frolla.

Ecco un chiarore, laggiù... E' notte, fuori, ma tutti i riflettori sono accesi e puntati sulla torta... Paolo riflette disperatamente, mentre allarga l'apertura per uscire... Poi getta la pila giù per la scarpata e grida:

‑ Prendi, Zorro.

Il cane non se lo fa dire: si getta abbaiando all'aperto, si lancia giù per la scarpata, per recuperare la pila, fedele al vecchio gioco cui Paolo e Rita l'hanno addestrato... Tutti i riflettori lo inseguono, sciabolando sulla collina. In basso scoppia una confusione infernale...

Ancora una volta le idee di Paolo hanno funzionato. I due fratelli si gettano giù, nella zona che i fari impazziti hanno lasciato al buio... rotolano tra i piedi dei vigili del fuoco, che non li hanno visti scendere e li ricacciano a urlacci:

‑ Indietro voi, dove andate?

‑ ... In salvo!

‑ O mamma, ‑ esclamò ad un tratto Rita. ‑ Ho perso una scarpa.

‑ Dove?

‑ Non so, credo nello scendere. Torno a riprenderla.

‑ Brava, così ti acchiappano e salta fuori tutta la storia.

‑ E la torta se la mangiano loro. Hai ragione, è meglio sacrificare la scarpa.

La mamma non era ancora rincasata. Arrivò una mezz'ora più tardi, quando Diomede, visto che i marziani non mostravano cattive intenzioni, permise agli abitanti del Trullo di uscire dalle cantine.

‑ Siete stati buoni? Avete avuto paura?

‑ Sì, mamma, ‑ rispose Paolo alla prima domanda.

‑ No, mamma, ‑ rispose Rita alla seconda.

‑ Bravi, ‑ disse la sora Cecilia. ‑ Ora vi preparo la cena.

" Aiuto", pensò Rita. Ma non disse nulla.

 

 

La scarpa di Cenerentola  

 

Quando i riflettori, abbandonando Zorro al suo destino, tornarono a gettare una luce uniforme su tutta la collina, un pompiere notò una scarpa infantile, a cinque o sei metri dal suo naso, all'interno della zona proibita.

‑ Quella scarpa prima non c'era, ‑ disse. ‑ Ho tenuto d'occhio questo pezzo di terra per tutta la sera e ne ho contato i sassi uno per uno. Vi dico che quella scarpa un momento fa non c'era... E ora che ci penso, ho l'impressione di aver visto un'ombra scendere di lassù, mentre succedeva tutta quella confusione per uno stupido di cane...

‑ Porta la scarpa al comando e levati il pensiero, ‑ gli suggerì un collega.

‑ Sicuro che ce la porto. E subito.

Diomede, ossia l'intero comando, accolse l'oggetto con qualche risatina. Il generale domandò ai presenti se per caso lo scopo dell'Operazione E. S. fosse quello di aprire un negozio di scarpe usate. I presenti, tra cui si distinsero per le risatelle più scientifiche il professor Terenzio e il professor Rossi, osservarono che la scarpina aveva la suola bucata in due punti: forse i marziani usavano portare scarpe simili in testa, a guisa di elmo, infilando le antenne nei due buchi.

Ma il vigile Meletti, detto l'astuto Ulisse, presente alla discussione, ebbe un'idea più brillante, anzi veramente astuta.

‑ Signori, ‑ disse, ‑ se permettono. I bambini, si sa, non conoscono il pericolo né la differenza tra il bene e il male. Chi ci assicura che il nemico, là, insomma, quelli dell'oggetto misterioso, non abbiano convinto qualche bambino, con un regaluccio per esempio, a raccogliere informazioni per conto loro?

‑ Venga alla scarpa, ‑ lo ammonì il generale.

‑ Ecco, secondo me, se un bambino è stato veramente lassù, là dentro, e nello scappare ha perso la scarpa, c'è un modo di saperlo abbastanza facilmente.

‑ E quale?

‑ Provare la scarpa a tutti i bambini della borgata.

‑ Ma questa è la fiaba di Cenerentola, ‑ rise il professor Terenzio.

‑ Anche nelle fiabe si può nascondere il vero, ‑ commentò il professor Rossi, tanto per dargli torto.

‑ Va bene, ‑ tagliò corto il generale. ‑ Faccia pure la prova della scarpa. Se non altro, avrà la gratitudine di una madre di famiglia. Sarà sempre un'opera buona.

L'astuto Ulisse avvolse la scarpina in un foglio di giornale, legò il pacchetto con uno spago robusto, lo suggellò e lo depositò in un armadio della biblioteca scolastica, raccomandando a una sentinella di non perderlo d'occhio per tutta la notte: ‑ Segreto militare, ‑ disse, ‑ non te lo far soffiare.

A casa, trovò i bambini a letto, già addormentati. Alla sora Cecilia fece un breve resoconto degli avvenimenti, tacendo la storia della scarpina, perché i segreti militari non si dicono nemmeno alla moglie.

La mattina seguente di buon'ora andò al comando, ritirò la scarpina e cominciò il pellegrinaggio di caseggiato in caseggiato, di scala in scala, di porta in porta.

‑ Toc, toc...

‑ Chi è?

‑ Aprite, sora Rosa. Sono il vigile Meletti. E' per un vostro figlio.

‑ Cos'ha combinato ancora quel disgraziato?

‑ Niente di male, sora Rosa. Ordine del comando. Gli debbo provare questa scarpa.

La sora Rosa (o la sora Cesira, o la sora Matilde, secondo i casi) apriva in ciabatte e vestaglia, reggendo in mano il bricco del latte, svegliava " quel disgraziato", e la prova cominciava.

‑ Ma sor Meletti, non vede? Questa sarà una scarpina del 32. Mio figlio porta il quaranta, guardi che " fette"...

‑ Gli ordini sono ordini...

Comparivano intere nidiate di bambini assonnati, padri che protestavano facendosi la barba: ‑ Che, il Comune si mette a regalare scarpe spaiate? E pure col buco. Anzi, due.

‑ Pazienza, pazienza, ordine del comando.

Naturalmente furono trovati molti piedini adatti alla scarpina, e ogni volta il sor Meletti apriva l'interrogatorio.

‑ Dov'è l'altra?

‑ Ma quale altra? Mia figlia non ha mai avuto scarpe come queste.

‑ Dov'eri ieri sera alle dieci?

‑ Sor Melè, ‑ rispondeva la madre per la figlia, ‑ era andata a fare una capatina a Parigi in Francia. Era a letto, era! E ci ho fior di testimoni. Domandate al sor Gustavo qua di fronte, che ha passato la serata in casa nostra a guardare la televisione.

Il sor Gustavo confermava. Il pellegrinaggio dell'astuto Ulisse continuava.

‑ Eppure a me, ‑ brontolava sotto i baffi il buon vigile, ‑ a me questa scarpa non mi riesce nuova. Io l'ho già vista ai piedi di qualcuno. Ci giurerei proprio. Questa scarpa l'ho già veduta, com'è vero che ha due buchi. A proposito, che mi diceva mia moglie stamattina, di buchi? Ah, che Rita ha di nuovo le scarpe consumate. Quella ragazzina se le mangia, le suole, se le beve addirittura.

Di casa in casa il sor Meletti arrivò anche a casa sua. Bussò prima di tutto dalla portiera, che aveva una figlioletta di cinque o sei anni e che aveva anche un po' di ruggine col sor Meletti e con tutti i vigili urbani, perché un paio d'anni prima suo marito era stato multato per eccesso di velocità.

‑ Sora Matilde, è già alzata la vostra pupa?

‑ Che, le dovete fare la multa? ‑ ribatté acida la sora Matilde.

‑ No, no, niente multe. Le cose stanno così e così.

E l'astuto Ulisse spiegò lo scopo dell'esperimento, mentre da tutti i pianerottoli donne e bambini seguivano la scena. C'era sempre da divertirsi, quando si scontravano il sor Meletti e la sora Matilde.

‑ Ah, così e così? ‑ ridacchiò la portiera. ‑ Secondo voi la pupa mia sarebbe una spia dei marziani?

‑ Io non ho detto questo.

‑ E già, non l'avete detto, ma io l'ho capito lo stesso.

‑ Insomma, gli ordini non li do io.

‑ Le multe sì, però.

‑ Io faccio il mio dovere, ‑ esclamò indignato il sor Meletti.

‑ E allora avanti, Maria Grazia, prova la scarpina... Ti va larga, eh, tesoro? Su, torna a letto, spiuccia di mamma. E adesso la scarpina me la voglio provare io.

‑ Ma, sora Matilde, l'ordine riguarda solo i bambini.

‑ Ah, no, è troppo facile prendersela con le creature innocenti... Vediamo se ce la fate con me...

‑ Per carità, mi sfondate la scarpina!

‑ Io? Ma se sono leggera come una piuma. Peso solo centododici chili. Un giorno o l'altro metto su il baraccone della donna cannone e faccio più soldi a mostrarmi nelle fiere che a fare la serva a certa gente.

Una risata corse su e giù per le scale, chiamando sui pianerottoli anche i pochi inquilini che ancora non s'erano affacciati, tra cui la sora Cecilia, Paolo e Rita.

La sora Cecilia, vedendo il marito alle prese con la portiera, scese a precipizio, per dargli man forte. Paolo le tenne dietro, e Rita seguì Paolo, con un brutto presentimento. Era stata la prima, lei, a vedere che il centro della scena era una scarpa.

‑ Ora me la provo, ‑ annunciò la sora Matilde a tutto il casamento.

E gettata una ciabatta infilò il suo piede di elefante nella scarpina.

‑ Il ditone ci va, ‑ annunciò trionfalmente, ‑ ora vedrete che ci vanno anche le altre dita.

La sora Cecilia gettò un urlo:

‑ Ferma, che fai?

‑ Faccio un esperimento, per ordine di tuo marito.

‑ E tu non vedi che è la scarpa di Rita? Che razza di stupidi scherzi state combinando?

Il sor Meletti rimase lì a bocca aperta, come se il fulmine l'avesse colpito.

La sora Matilde, invece, sbottò a ridere e rise tanto che fu per soffocare, e una vicina dovette correre a prenderle un bicchiere d'acqua.

‑ Insomma, mi vuoi spiegare cosa succede? ‑ gridava la sora Cecilia, scrollando vigorosamente il sor Meletti per una spalla.

‑ Segreto militare, ‑ balbettò finalmente l'astuto Ulisse.

‑ Dove hai trovato quella scarpa? E cos'è tutto questo teatro?

‑ Taci, non mi far parlare.

Si riscosse, finalmente, e guardandosi attorno con cipiglio professionale, esclamò: ‑ Sgomberare, circolare, lo spettacolo è finito.

Il primo a obbedire, non visto, fu Paolo, che infilò il portone e se la diede a gambe, Rita tentò di imitarlo, ma il padre l'afferrò per un braccio.

‑ Vieni qua, tu, faremo i conti, in casa.

Rita, divincolandosi, si rifugiò presso la mamma che ancora non aveva capito nulla e continuava a protestare:

‑ Guarda, guarda quella cicciona come ha conciato la scarpina di Rituccia nostra. Poco ma sicuro, le ha dato di volta il cervello. Ma ride bene chi ride ultimo.

 

 

Un drammatico esperimento  

 

Il sor Meletti perdette qualche minuto a mandar via gli ultimi curiosi, ragion per cui quando arrivò davanti alla porta di casa sua la trovò sbarrata col catenaccio interno.

‑ Apri, ‑ gridò alla moglie, ‑ in nome della legge.

‑ Ma quale legge? Cosa le vuoi fare, a questa povera bambina?

‑ Domanda piuttosto a lei cos'ha fatto. Domandale dove e come ha perso la scarpina. E fammi entrare, se non vuoi che i vicini sentano tutto.

Questo argomento convinse la sora Cecilia a levare il catenaccio e a socchiudere la porta. Prima di far entrare il marito, però, studiò a lungo la sua faccia. Era la faccia di tutti i giorni, forse un po' più preoccupata del solito, ma senza segni visibili di pazzia.

‑ Va bene, entra. E tu piantala di frignare!

Queste ultime parole erano rivolte a Rita che singhiozzava disperatamente.

‑ Nostra figlia è una spia, ‑ esclamò il sor Meletti, buttandosi su una sedia. E agitando la scarpina che teneva in mano aggiunse: ‑ Ne ho le prove.

‑ Quali prove? I buchi? Quelli provano soltanto che Rituccia ha bisogno di un paio di scarpe nuove.

‑ Tu non capisci.

‑ Avanti, sentiamo.

Il sor Meletti raccontò tutto ciò che si riferiva alla scarpina, dal suo ritrovamento in zona di operazioni, al sospetto che i marziani si servissero dei bambini per raccogliere informazioni, alle indagini casa per casa.

‑ Non c'è dubbio alcuno, ‑ concluse, ‑ nostra figlia lavora per i marziani.

‑ Ma non sono marziani! ‑ sbottò Rita, asciugandosi le lacrime nella sottana della mamma.

‑ Ecco, vedi? ‑ tuonò l'astuto Ulisse. ‑ Sa chi sono. Dunque c'è stata, è stata lassù, li ha visti. E ha perso la scarpa uscendo dall'astronave.

‑ Ma non è un'astronave! ‑ protestò Rita. ‑ E' una torta.

La madre, cambiando rapidamente fronte, le mollò uno scapaccione.

‑ Te la do io la torta.

La sora Cecilia, aveva l'abitudine di darle prima di prometterle. Rita tornò a singhiozzare. Stavolta, però, piangeva di rabbia, perché non le volevano credere.

‑ E' una torta, una torta! ‑ continuò a gridare tra i singhiozzi. ‑ E ora ve la faccio vedere.

Corse sul balcone, seguita dai genitori, spostò un vaso di gerani e disse soltanto: ‑ Eccola qui.

L'idea di nascondere l'avanzo della torta a quel modo era stata di Paolo. Egli l'aveva avvolta in un vecchio giornale, aveva legato il pacco con una cordicella e l'aveva appeso fuori del balcone. La sora Cecilia tirò la corda, con mille attenzioni, come se fosse la miccia di una bomba. Il pacco comparve, venne disfatto in un attimo, mostrò il suo contenuto.

‑ Cioccolato, ‑ sentenziò la sora Cecilia, fidandosi del parere del suo naso, ‑ dove l'hai preso?

‑ Chi te l'ha dato? ‑ incalzò il sor Meletti.

‑ Non me l'ha dato nessuno. E' caduto dal cielo, è caduto dalla pizza, prima che si posasse sul Monte Cucco.

Un secondo scapaccione le provò che la mamma non credeva una parola della sua confessione.

‑ Vedi? ‑ esclamò il sor Meletti. ‑ Li difende. Inventa storie inverosimili per difendere quelli lassù. Sei convinta, adesso, che è una spia?

‑ Se è una spia non so, ‑ disse la sora Cecilia. ‑ Una bugiarda lo è di certo. Da sola, però, non avrebbe mai saputo inventarle così grosse. Dov'è Paolo?

Già, dov'era Paolo?

‑ Se l'è battuta, approfittando della confusione, ‑ constatò il sor Meletti. ‑ Ma pescherò anche lui. Intanto bisogna andare al comando.

‑ Al comando? Tu sei matto nella testa. Mia figlia al comando non ci viene.

‑ Rifletti, Cecilia. La patria è in pericolo, anzi, che dico? l'umanità intera è in pericolo! Non possiamo tener nascoste le informazioni di cui disponiamo.

‑ Ma come fa la patria a essere in pericolo per una pizza? ‑ gridò Rita, pestando i piedi.

La madre le inflisse un terzo scapaccione e vi aggiunse un brusco:

‑ Taci, altrimenti te le suono. Facciamo così, ‑ disse poi, rivolta al marito. ‑ Tu vai al comando e racconti come stanno le cose. A me, mi sa tanto che questi ragazzini ci prendono in giro. Ma se il comando vuole parlare con Rita, venga qui e s'accomodi.

Il sor Meletti si provò a discutere l'ordine della sora Cecilia, senza troppa speranza. Sapeva bene che quando lei aveva deciso non era disposta a cambiare opinione. Dovette dunque rassegnarsi a tornare al comando con la scarpina e col pacco della torta.

Diomede (ossia, com'è noto, tutto un folto gruppo di personalità civili, militari e scientifiche) ascoltò il suo racconto con molto scetticismo.



  

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