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Gianni Rodari

La torta in cielo

 

 

Gianni Rodari

 

La torta in cielo

 

Sul cielo di una borgata romana, una mattina d'aprile appare un enorme oggetto circolare. I marziani! I marziani! Gridano gli abitanti uscendo dalle case e dai negozi, e accalcandosi in piazza. Arrivano due professori, i vigili, la polizia, autoblinde e soldati. Ma sono due ragazzi, Paolo e Rita, a svelare il segreto del disco volante: che non è un vero disco volante, ma qualcosa di molto più dolce...

Con La torta in cielo, Gianni Rodari rinnova con i suoi giovani lettori un festoso appuntamento, fatto di estrose invenzioni e di garbato umorismo.

Questa storia...

Questa storia è nata nelle Scuole elementari Collodi, Borgata del Trullo, Roma, tra gli scolari della signorina Maria Luisa Bigiaretti che hanno finito la quinta nel '64; è stata pubblicata a puntate dal " Corriere dei Piccoli" nel medesimo anno 1964; è dedicata a tutti i suoi lettori: a ciascun lettore ogni pagina, dalla prima all'ultima.

 

 

Quella mattina al Trullo  

 

Una mattina d'aprile verso le sei, al Trullo, i passanti che attendevano il primo autobus per il centro, alzando gli occhi a studiare il tempo, videro il cielo della loro borgata quasi interamente occupato da un enorme oggetto circolare di colore oscuro, che se ne stava al posto delle nuvole, immobile, a un migliaio di metri sopra il livello dei tetti. Ci fu qualche: ‑ Oh, ‑ qualche: ‑ Ah, ‑ poi si udì un grido: ‑ Li marziani!

Fu come un segnale e una parola d'ordine. La gente cominciò a gridare e a correre da tutte le parti. Finestre si aprirono, altra gente si affacciò a curiosare, immaginando il solito incidente d'auto, poi guardò in su, e allora ci fu un gran chiamare e sbattere di imposte e rotolare di avvolgibili e ciabattare per scale e cortili.

‑ Li marziani!

‑ Er disco volante!

‑ Andiamo, sarà un'eclisse.

" La cosa", effettivamente, pareva un gran buco nero nel cielo, e aveva intorno una corona limpida e azzurra.

‑ Quale eclisse? Questa è la fine del mondo.

‑ Esagerato. Che, la fine del mondo può venire così, dalla sera alla mattina?

‑ Già, prima dovranno avvertire lei con una bella raccomandata: " Guardi che il tal giorno alla tal ora il mondo va a gambe all'aria".

Dal bar Italia uscì un cameriere, stropicciandosi le mani nel grembiule sudicio. Diede un'occhiata al cielo e si piegò in due come se gli avessero calato una botta in testa.

Una donna in camicia da notte gli gridò dal balcone:

‑ Telefona ai pompieri, Augusto.

‑ E che gli dico?

‑ Digli che ci stanno i marziani, digli, stupido. Non li vedi?

‑ Ma che c'entrano i pompieri? Mica gli possono fare " bum" per spaventarli.

‑ Telefona, telefona, vedrai che loro sapranno.

Augusto rientrò nel bar, infilò un gettone nell'apparecchio e fece il numero dei pompieri.

‑ Pronto, correte al Trullo, sono arrivati i marziani!

‑ Chi è che parla?

‑ Sono Augusto.

‑ Bravo, e io sono Giulio Cesare. Non ti vergogni, essere già ubriaco a quest'ora?

Il centralinista dei pompieri troncò la comunicazione. Ma nei due minuti seguenti dovette rispondere a una ventina di chiamate dal Trullo, tutte dello stesso tono, e si decise a dare l'allarme, spiegando al tenente di turno:

‑ Dev'essere un caso di pazzia collettiva. Per me, bisognerebbe avvertire il manicomio.

Al Trullo, chi non stava fuori col naso per aria stava attaccato a un telefono. Chi chiamava la polizia, chi i vigili urbani, chi i carabinieri.

Intanto, dal retrobottega del vapoforno, uscì il cascherino che tutte le mattine, a quell'ora, faceva il giro dei bar con il rifornimento dei maritozzi e dei cornetti. Appoggiò la cesta traboccante e profumata al manubrio della bicicletta, alzò la gamba destra per montare in sella, alzò meccanicamente anche gli occhi: patapumfete, giù per terra lui, la bicicletta e la cesta. Maritozzi e cornetti rotolarono nella polvere in ordine sparso.

I cascherini romani sono famosi perché non cascano mai: ma succede in un minuto quel che non è successo in mille anni. Il garzone del fornaio si rialzò e si rifugiò in bottega, gridando:

‑ Aiuto! E' caduta la luna!

Per giustificare la sua caduta non ci voleva meno di una catastrofe cosmica.

I dolci giacevano fino a mezza strada. Un cane balzò di chissà dove, ne afferrò uno coi denti e galoppò via di traverso, per schivare una legnata che però non venne.

‑ E' il cane del sor Meletti, ‑ disse il macellaio alla moglie. ‑ Il cane più ladro di tutta la borgata appartiene a un vigile urbano. E poi protestano perché in Italia le cose vanno storte.

Il vigile Meletti, una volta, per appioppare di sorpresa la multa a un automobilista, si era appostato dietro il cavallo di un vetturino. Da quel giorno certi ragazzi istruiti l'avevano ribattezzato " l'astuto Ulisse". Il suo cane, di conseguenza, lo chiamavano Argo, sebbene il suo nome ufficiale fosse Zorro. Era un cane intelligente, e rispondeva a entrambi i nomi.

Quella mattina però, non avrebbe risposto neanche se l'avessero chiamato Eccellenza. Col maritozzo ben stretto in bocca infilò le scale del Lotto Quinto e volò, di pianerottolo in pianerottolo, fino alla porta di casa Meletti. Paolo, che si era alzato presto per fare il compito, lo udì raspare e gli aperse.

‑ Da dove vieni, vagabondo?

Zorro, troppo affannato per rispondere, attraversò di corsa la cucina, si gettò sul terrazzino e qui finalmente si accucciò per mangiarsi in pace la sua colazione.

‑ Cosa? Un maritozzo? Dammene un pezzo o lo dico a papà quando torna.

Il sor Meletti era uscito prestissimo per ragioni del suo ufficio; sua moglie, la sora Cecilia, era stata chiamata a fare un'iniezione d'urgenza. In casa erano rimasti Paolo e Rita, che dormiva ancora. Toccava a Paolo, come maggiore, svegliarla in tempo e far bollire il latte.

‑ Da' qua!

Ma Zorro, per paura di dover dividere quella sciccheria, la mandò giù in un boccone.

Paolo lo seguì sul balcone, ben deciso a fargli pagare la mancanza di rispetto, ma quello che vide gli fece dimenticare sia il cane che il maritozzo.

‑ Rita, ‑ gridò, ‑ vieni, presto! Rita!

‑ Che c'è? ‑ rispose una vocina assonnata.

‑ Vieni a vedere, muoviti.

‑ E' già ora di andare a scuola?

‑ Mi sa tanto che oggi a scuola non si va.

La bambina, a quell'annuncio, fu subito sveglia e corse sul balcone, accompagnata dall'ululare di una sirena: i pompieri facevano in quel momento il loro ingresso sulla piazza del Trullo.

‑ O mamma, il fuoco.

‑ Ma quale fuoco! Guarda lassù.

‑ Già, che brutta nuvola. Verrà certo un gran temporale.

‑ Sei proprio stupida. Secondo me è una stazione spaziale.

‑ Stazione di che?

‑ Sei proprio ignorante. Chissà cosa t'insegnano, in seconda.

‑ Proprio quello che insegnano a te in quinta. E i pompieri debbono salire fin lassù con la scala?

‑ Sì, i pompieri, a spegnere la luna... Lassù ci vanno gli astronauti.

‑ Ah, ho capito. Chiamami quando cominciano. Intanto vado a lavarmi i denti.

E Rita si allontanò virtuosamente in direzione del bagno. Le era venuto in mente che avrebbe potuto approfittare dell'assenza della mamma per lavare i capelli alla sua bambola.

Paolo non la trattenne, giudicando inutile proseguire la conversazione " con quella là ". Cose nuove, del resto, accadevano sulla piazza di minuto in minuto. Dopo i pompieri piombavano sulla borgata le camionette della Questura. E che cosa spuntava già dalla strada di Roma? Un'autoblindo, due, tre. Un carro armato, un altro. Forse dei cannoni? Sì, anche dei cannoni. Accidenti, perfino i missili!

" Pare la grande parata", si disse Paolo, eccitatissimo.

Ma lo spettacolo più interessante era sempre quello che forniva dal cielo il gigantesco oggetto misterioso. A occhio e croce doveva avere il diametro di un chilometro. L'ombra che proiettava sulle grosse e brutte case popolari, sugli stenditoi di cemento, sulle strade rombanti di mezzi corazzati era livida e piena di minaccia.

‑ Non sarà scoppiata la guerra?

Giungeva ronzando da est un elicottero, come una zanzara di metallo. Si accostò fino a cento metri dalla circonferenza del disco e lentamente, lentamente, cominciò a farne il giro: pareva che cercasse il punto adatto per pungerlo.

" Vedrai come ti concia", pensò Paolo, prendendo le parti del più forte.

Zorro, ora, guaiolava e mugolava penosamente.

‑ Hai fifa, eh? ‑ fece Paolo, e si chinò a grattargli la schiena.

‑ Attenzione, attenzione, ‑ tuonò la voce di un altoparlante issato su una camionetta della polizia, ‑ la popolazione è invitata a mantenere la calma. Il comando militare controlla perfettamente la situazione. E' decretato lo stato d'allarme. Nessuno può entrare o uscire dalla borgata fino a nuovo ordine. Rientrate nelle vostre case, scendete nelle cantine e attendete con fiducia nuove istruzioni.

‑ Attenzione, attenzione, ‑ ricominciò.

‑ Cosa dicono? ‑ strillò Rita, dal bagno.

‑ Niente.

‑ Come, niente? Con tutto il chiasso che fanno. Io credo che sia una pubblicità. Sta' attento se regalano qualcosa. L'altra volta che distribuivano i palloncini non mi hai fatto arrivare in tempo.

Rita comparve sul balcone, strofinandosi vigorosamente gli occhi asciuttissimi in un asciugamano, per dimostrare al fratello che si era lavata a dovere.

Paolo si voltava per dirle qualcosa, quando un'ombra attraversò rapida il cielo. Un uccello? No, troppo grosso.

‑ A terra! ‑ gridò, gettandosi egli stesso sul pavimento e cingendo con un braccio le spalle di Rita che gli si era buttata accanto, spaventata.

‑ Ma cosa succede?

L'oggetto cadde nell'angolo destro del balcone, a un metro dalla mano di Paolo, a trenta centimetri dalla zampa di Zorro, che si ritrasse con un brontolio. Cadde ma non scoppiò. Emise soltanto un morbido " plaff", e rimase lì, tra due vasi di gerani. Era dello stesso colore della cosa in cielo, come Paolo poté constatare lanciandogli un'occhiata tra le dita stese davanti alla faccia. Una bomba non era. Forse un messaggio?

‑ Ho paura, ‑ bisbigliò Rita, ‑ scendiamo in cantina anche noi.

‑ Così non vedremo niente di niente.

‑ Ma io ho paura. E poi, senti l'altoparlante cosa dice...

La voce dell'altoparlante ripeteva monotona le istruzioni, cortile per cortile.

Paolo sentiva che sarebbe stato suo dovere avvicinarsi al proiettile caduto sul balcone, per osservarlo in modo scientifico.

" Se Cristoforo Colombo avesse avuto la mia paura, ‑ pensava per farsi coraggio, ‑ l'America a quest'ora sarebbe ancora da scoprire".

‑ Che facciamo? ‑ piagnucolò Rita. ‑ A stare sdraiata mi sporco il pigiama, poi senti, la mamma.

‑ Sta' zitta, devo pensare.

Ma qualcun altro pensò per lui. Zorro allungò cautamente una zampa in direzione dell'oggetto, battendo la coda per l'eccitazione, e gli diede un colpetto, per prova.

‑ Pussa via, Zorro!

‑ Non toccare!

Il cane si voltò, quasi per tranquillizzarli. I suoi occhi umidi dicevano: " Calma, calma, lasciate fare a me. Ho buon fiuto, io".

Cacciò un palmo di lingua e strisciò sul ventre in avanti. Meno 5... meno 4... meno 3... meno 2... meno uno... Contatto!

La lingua di Zorro fu sul bersaglio e leccava furiosamente. La coda, adesso, pareva la pala di un elicottero.

Allora Paolo si decise: saltò su, allontanò il cane con un calcio e prese il suo posto accanto alla " cosa".

‑ Che è? ‑ domandò Rita, sollevando la testa spettinata.

‑ Ora vedrò. Ci potrebbe essere un messaggio, dentro.

‑ Ma non senti un profumino?

‑ Un profumo? Tu stai ancora sognando.

Anche Rita si avvicinò alla " cosa", respingendo il cane che tentava di riconquistare la posizione perduta.

‑ Vuoi che lo tocchi io? ‑ domandò al fratello.

‑ Stupida, credi che abbia paura? E' che prima voglio studiarci sopra un momento.

‑ Ma l'odore non lo senti proprio?

‑ Si vede che ho il raffreddore.

Rita passò ai fatti. Toccò la " cosa", e una macchia scura le rimase sul dito. La bambina considerò la macchia con attenzione, poi si ficcò decisamente il dito in bocca. Lo succhiò, se lo mise davanti agli occhi, roseo e umido di saliva. Infine lanciò un grido di trionfo: ‑ Cioccolato! Avevo ragione io. Prova, prova se non è vero.

Paolo provò. Rita riprovò. Paolo tornò a provare. Nessun dubbio: il misterioso oggetto caduto dal cielo non era altro che un grosso pezzo di cioccolato. Roba di marca, a giudicare dal profumo, dal sapore, dalla lunga delizia che lasciava in bocca.

‑ Uhm, che buono! ‑ disse Rita.

‑ Una meraviglia, ‑ ammise Paolo, riempiendosi la bocca. ‑ Chissà, forse ci hanno visti, ci hanno buttato il cioccolato per fare amicizia.

‑ Chi?

‑ I marziani, insomma, quelli lassù. Chi siano non lo so.

‑ Secondo me, ‑ sentenziò Rita, indicando la gran macchia rotonda in cielo, ‑ quella è una pizza.

Secondo voi, probabilmente, Rita avrebbe dovuto dire " una torta". Ma al Trullo esiste una parola sola per indicare la pizza al pomodoro e la torta al cioccolato, e questa parola è " pizza". Qualche volta si può dire " pizza dolce", per distinguere le due " pizze". E se le torte, nobili figlie della pasticceria, si offendono a esser chiamate " pizze", come le loro più umili sorelle, peggio per loro.

 

 

Dedalo chiama Diomede  

 

‑ Qui Dedalo chiama Diomede, qui Dedalo chiama Diomede. Passo.

‑ Qui Diomede. Vi ascoltiamo. Passo.

‑ Ho completato il giro dell'oggetto misterioso. Secondo i miei calcoli la sua circonferenza misura metri tremilacentoquaranta. Per trovare il diametro, basta dividere per tre e quattordici.

‑ Lo sappiamo, lo sappiamo. Tirate avanti.

‑ Chiedo scusa. La superficie laterale appare dipinta a fasce di differenti colori. Dal basso in alto, eccone la disposizione: bruno, rosa, verde, bruno di nuovo, giallo, violetto, bianco. Mi accingo a salire più in alto. Passo.

‑ Qui Diomede. Attendete. Non avete notato sui fianchi dell'oggetto qualche apertura? Niente finestrini, oblò, sportelli? Passo.

‑ Qui Dedalo. Notato niente del genere. La superficie laterale è dovunque compatta. Passo.

‑ Qui Diomede. Prendete quota, misurate l'altezza e osservate la superficie superiore. Mantenete distanza di sicurezza. Passo.

‑ Ricevuto. Passo e chiudo.

La conversazione qui trascritta si svolgeva, verso le otto di quella famosa mattina, tra un ufficiale pilota alla guida di un elicottero, chiamato col nome convenzionale di Dedalo, e il comando generale dell'Operazione E. S., situato nell'ufficio del direttore delle scuole del Trullo. E. S. non vuol dire, in questo caso, Esterna Destra: non si sta parlando di linee tranviarie. Vuol dire invece Emergenza Spaziale. Con questo nome eccitante le autorità avevano battezzato le misure militari messe in atto in seguito all'apparizione del misterioso piatto volante. Il comando era indicato col nome convenzionale di Diomede. Avendo inventato tre bellissimi nomi, le autorità potevano già dirsi a buon punto.

Nella stanza di Diomede si trovavano, in quel momento, numerosi alti personaggi, tra cui un generale, due famosi scienziati ‑ il professor Rossi e il professor Terenzio ‑ e il sor Meletti, detto " l'astuto Ulisse", vigile urbano e padre di Paolo e Rita, a disposizione per le commissioni urgenti. (Per esempio, era già corso un paio di volte a ordinare caffè forte per tutti).

‑ Qui Dedalo chiama comando, ‑ risuonò di nuovo la voce dell'aviatore.

Il generale in persona si curvò sul microfono a rispondere:

‑ Qui Diomede. Riferite.

‑ L'altezza laterale dell'oggetto misterioso è di circa venticinque metri. Per calcolare il volume...

‑ Conosciamo la geometria. Contentatevi di riferire.

‑ Signorsì. La superficie superiore presenta un meraviglioso panorama di color bianco panna. Uno spettacolo superbo!

‑ Lasciate perdere i punti esclamativi, ‑ tuonò Diomede. ‑ Non siete mica un venditore di frigoriferi. Dite quel che vedete e basta. Passo.

‑ Ricevuto, sissignore. Vedo delle sfere rosse inserite a regolare distanza nella superficie bianca. Sono diverse centinaia. Somigliano a grosse ciliege candite, se m'è permesso il paragone.

‑ Non vi è permesso! ‑ s'infuriò il generale. ‑ Risparmiateci i paragoni. Contate le sfere, invece.

Il professor Rossi, mentre Dedalo taceva, contando le sfere, crollò pensosamente il capo e mormorò:

‑ Ingegnoso, veramente ingegnoso.

‑ Trovate? ‑ ridacchiò il professor Terenzio.

‑ Non pensate anche voi quello che penso io?

‑ Per niente, egregio collega: io penso esattamente l'opposto.

‑ Signori, per favore, ‑ sospirò il generale, ‑ fate capire anche a noi quello che pensate.

‑ Qui Dedalo, ‑ riprese l'altoparlante, interrompendo la conversazione. ‑ Mi sentite? Passo.

‑ Vi sentiamo, purtroppo, ‑ rispose Diomede. ‑ Sentiamo tutte le sciocchezze che ci state snocciolando.

‑ Segnalo la presenza di un aquilone.

‑ Cosa? Siete diventato cretino del tutto?

‑ Un aquilone, signore, lo confermo. Sta salendo da uno dei tetti della borgata. Debbo intercettarlo? Passo.

‑ Qui Diomede. Non fate nulla. Restate dove siete, mentre svolgiamo rapide indagini. Passo e chiudo.

Le indagini ebbero inizio immediatamente: tutti, infatti, corsero alla finestra per vedere l'aquilone che saliva incontro all'oggetto misterioso, sbattendo le sue tre code di carta, variopinte.

‑ Segnalazioni da terra, ‑ commentò una voce sospettosa, ‑ messaggi della " quinta colonna". Evidentemente gli invasori spaziali hanno degli appoggi tra la popolazione.

‑ Non è possibile! ‑ esclamò sgomento il vigile Meletti. ‑ Io conosco tutti, al Trullo: brava gente, casa e bottega. Nessun contatto con i marziani, per carità.

‑ E allora quello?

" Che mi caschi il naso se non è l'aquilone di Paolo", esclamò mentalmente l'astuto Ulisse, preso a sua volta da un terribile sospetto.

Senza dir nulla a nessuno e senza attendere ordini si precipitò fuori, inforcò la bicicletta e in poche pedalate fu nel cortile deserto del Lotto Quinto, a naso per aria. Individuò in un attimo il balcone di cucina del suo appartamento e chiamò a gran voce: ‑ Paolo! Rita! Cosa fate lì? Perché non siete in cantina come gli altri? Non avete sentito l'allarme?

‑ Papà, papà, ‑ gridò Rita per tutta risposta battendo le mani, ‑ vieni ad aiutarci.

‑ Ritirate immediatamente quell'aquilone, invece. Volete farmi andare in galera per spionaggio?

‑ Ma noi non spiamo nessuno: vogliamo solo prendere un pezzo di pizza.

‑ Ve la do io, la pizza, se non sparite da quel balcone.

‑ Ma papà...

‑ Volete che salga? Presto, via, marsch!

Ai suoi desolati figlioli non rimase che obbedire, almeno per la prima parte dell'ordine, concernente il ritiro dell'aquilone. Quanto a scendere in cantina, essi se ne guardarono bene. Abbandonarono il balcone, questo sì, ma non abbandonarono, seduti sulle piastrelle della cucina, l'osservazione del cielo.

‑ Peccato, ‑ disse Rita, ‑ l'idea dell'aquilone era proprio buona.

‑ Però non hanno risposto, ‑ disse Paolo.

‑ Ma chi vuoi che ti rispondesse? Quella è una pizza, come te lo devo dire?

‑ E' un'astronave, stupidina.

‑ Allora perché hai accettato la mia idea di lanciare l'aquilone?

‑ Non certo per tirar giù un altro pezzo di cioccolato: l'ho lanciato per fare dei segnali ai marziani.

‑ Tu hai le pigne in testa. Tutti avete le pigne in testa. Quelli laggiù voglion prendere a cannonate una pizza, tu vorresti che ci scrivesse dei bigliettini.

‑ Non è una pizza.

‑ Te lo dirò in lingua: è una torta.

‑ Va bene, piantala. Restiamo qui e pensiamo. Con l'aquilone non è andata bene. Ci verrà in mente qualcos'altro.

Qualche ora più tardi...

‑ Qui Dedalo chiama Diomede. Passo.

‑ Qui Diomede. Riferite. Passo.

‑ Sono le dodici e quarantasette. Raggiungo nuovamente la superficie superiore dell'oggetto in osservazione. Sono a quota 654.

‑ Come avete detto?

‑ Sono a quota 654. Perché?

‑ Perché dovete essere ubriaco. Stamattina, quando avete esplorato l'oggetto per la prima volta, ci avete comunicato che vi trovavate a quota 918. Come spiegate la differenza?

‑ Non la spiego. Posso solo misurarla: 918 meno 654 uguale...

‑ Basta così. Passo e chiudo.

E il generale sottolineò quella voce del verbo chiudere con un robusto pugno sul tavolo.

‑ Signori, ci siamo, ‑ disse poi, rivolto agli astanti, ‑ l'astronave sconosciuta sta atterrando.

L'attesa durò fino al tramonto. L'oggetto misterioso perdeva quota insensibilmente, un centimetro per volta. Verso le quindici, con lente ondulazioni, cominciò anche a spostarsi in direzione nord‑ est. Diomede poté tirare un respiro di sollievo: il nemico non intendeva, per lo meno, scendere sui tetti e sui terrazzi, schiacciando l'intera borgata.

A occhio e croce, l'atterraggio sarebbe avvenuto sul Monte Cucco, una collinetta pelata e sassosa che sorgeva alle spalle della scuola. Ci andavano, di tutte le stagioni, i ragazzi a giocare. Ci tenevano un capanno certi pastori abruzzesi, che scendevano a svernare con il loro gregge nella campagna romana: un capanno di paglia, sulla testa piatta della collina, e un semplice recinto di filo spinato, a mezza costa, per ricoverarvi le pecore la notte.

Il generale, per conto suo, avrebbe preferito abbreviare l'attesa a cannonate. Ma gli ordini del governo ‑ che da diverse ore si teneva in contatto con le maggiori potenze mondiali ‑ erano categorici: ricorrere alle armi solo se i misteriosi visitatori provenienti dallo spazio avessero attaccato per primi; astenersi da qualsiasi iniziativa ostile, per non provocare crudeli rappresaglie e per non far fallire tragicamente il primo incontro tra l'umanità terrestre ed esseri di un altro mondo; vigilare, pronti a tutto.

Ragion per cui Diomede, quando le intenzioni del disco furono chiare, schierò le sue forze tutt'intorno alla collina, su un fronte di parecchi chilometri. Cannoni, lanciafiamme, carri armati, razzi terra‑ terra cingevano d'assedio il Monte Cucco quando la " cosa" vi si posò, senza il minimo rumore, quasi con dolcezza, lasciando del tutto sgombro il cielo che il tramonto tingeva dei suoi colori.

 

 

Il misterioso signor Geppetto  

 

‑ Addio torta, ‑ sospirò Rita, osservando la manovra d'assedio e inghiottendo acquolina.

‑ Sei proprio fissata, ‑ borbottò Paolo, ‑ ti ho detto che è un'astronave.

‑ Ma dove hai gli occhi? Guarda, di sotto è tutta di cioccolato. E di sopra è rosa, gialla, verde: una torta millegusti.

‑ Quelli debbono essere i colori della bandiera marziana.

‑ Scommettiamo, allora. Io dico che è una torta, tu dici che è un'astronave. Chi vince, prende la paga della settimana di tutti e due.

‑ Per un mese, ‑ aggiunse Paolo.

‑ Anche per un anno, se vuoi, ‑ rilanciò Rita.

‑ Un anno è lungo...

‑ Vedi che hai paura? Io invece sono pronta a scommettere.

‑ Accettato, per un anno, ‑ ribatté Paolo, arrossendo. ‑ E adesso andiamo a vedere che cos'è.

Toccò a Rita esitare, stavolta.

‑ Credi che ci lasceranno passare?

Paolo non rispose. Da qualche momento guardava dalla parte della Magliana, sulla strada deserta, dove un gregge di pecore avanzava passo passo, guidato da due pastori. Era stato al pascolo, sulle gialle colline dell'Agro, tra le cave di sabbia abbandonate. Al tramonto, come ogni sera, tornava verso il Monte Cucco, attraversando la borgata in tutta la sua lunghezza.

" Voglio vedere se cacceranno in cantina anche le pecore, ‑ rise tra sé Paolo. ‑ E il cane".

Ma le forze armate avevano ben altro da pensare. Avevano voltato le spalle al Trullo, e non avevano occhi che per il Monte Cucco e per la " cosa" che lo copriva da un capo all'altro, come un enorme cappello. Le pecore venivano avanti belando, spalla a spalla, muso a muso. Se qualcuna si staccava dalle compagne per brucare un ciuffo d'erba ai bordi della strada, il cane si affrettava a farla rientrare nel gregge, con una piccola corsa. Zorro, che per tutta la giornata se n'era rimasto a sonnecchiare sul balcone, abbaiò per salutare il suo simile, il quale, tutto preso dal lavoro, nemmeno gli rispose.

‑ Prendi le tue palette, ‑ disse Paolo con un'improvvisa decisione, ‑ quelle che adoperavi l'anno scorso al mare. Io prenderò la pila.

‑ Che cosa vuoi fare? ‑ domandò Rita, incerta.

‑ Voglio vincere una scommessa. Ma se hai paura, non venire.

‑ Certo che vengo, ‑ protestò Rita.

‑ Allora, sta' attenta: ti ricordi dell'astuto Ulisse?

‑ Vuoi che non mi ricordi di nostro padre?

‑ Stupida, parlo di Ulisse, quello vero. Ti ho raccontato la sua storia tante volte. Come fece per uscire dalla grotta di Polifemo?

‑ Si aggrappò sotto la pancia di una pecora. Oh... e tu pensi che noi?.. Guarda però che io sotto la pancia di una pecora non mi ci metto.

‑ Non ce ne sarà bisogno. Andiamo.

‑ Lasciamo un biglietto alla mamma?

La sora Cecilia, bloccata dall'allarme in casa di una malata, prima di scendere in cantina, era riuscita a telefonare ai suoi rampolli, per raccomandare loro di rifugiarsi sotto la protezione di una vicina. Lasciarle un biglietto, era come confessare che non le avevano obbedito.

‑ Torneremo a casa prima di lei, ‑ disse Paolo. Rita non ne pareva molto convinta, ma seguì il fratello senza discutere. Il capo era lui, adesso. Lanciò un'occhiata a Zorro che continuava ad abbaiare alle pecore, prese le palette e uscì dietro a Paolo sulla scala.

Non c'era nessuno per fermarli, sul portone, nessuno sulla strada per ricacciarli al chiuso.

Paolo lasciò sfilare il gregge e gli si accodò, imitato dalla sorella. Il cane brontolò con sospetto, ma dovette rincorrere un agnello che non stava in fila. I pastori non si voltarono. Camminavano tranquillamente verso la collina, forse non si erano nemmeno accorti che quella non era una sera come le altre, che un reparto di pompieri presidiava il loro sentiero abituale, che in cima al Monte Cucco c'era qualcosa che stava facendo trattenere il respiro al mondo intero.



  

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