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Parte prima



 

 

           In nessun posto si fermava tanta gente come davanti alla bottega di quadri dello Š è ukì n Dvor. Questa bottega costituiva infatti la più eterogenea collezione di cose strane e rare: i quadri per la maggior parte erano dipinti a olio, ricoperti da una vernice verde cupo, montati in cornici pretenziose color giallo scuro. Un inverno con i suoi alberi bianchi; un tramonto completamente rosso, simile al bagliore di un incendio; un contadino fiammingo con la pipa e il braccio spezzato, più simile a un gallo indiano con i polsini che non a un uomo; ecco i loro abituali soggetti. A ciò bisogna aggiungere alcune stampe: il ritratto di KhozrevMirza con il beretto di pelo di montone, altri ritratti di chissà quali generali con il tricorno e con i nasi storti. Alla porta d'una bottega come questa sono inoltre di solito appesi fasci di incisioni popolari su grandi fogli, che testimoniano del nativo talento dell'uomo russo. Su uno di questi fogli c'era la zarevna Miliktrisa Kirbitievna; su un altro la città di Gerusalemme sulle cui case e chiese era profusa senza tanti complimenti una tinta rossastra che dilagava anche in una parte del terreno e perfino su due contadini russi coi guantoni in preghiera. Gli acquirenti di opere del genere di solito non sono molti, ma gli spettatori in compenso sono una folla. Di certo lì davanti c'è qualche servitore ubriacone che sbadiglia, tenendo in mano i recipienti con il pranzo di trattoria per il suo signore che senza dubbio mangerà una minestra non troppo calda. Di certo lì c'è anche un soldato col cappotto, questo cavaliere dei robivecchi, che vende appuntapenne; e una venditrice ambulante del sobborgo di Ochta con una scatola piena di scarpe. Ciascuno si entusiasma a modo suo: i contadini di solito segnano a dito; i cavalieri esaminano con aria seria; i ragazzi che fanno i domestici e i garzoni artigiani ridono e si scherniscono a vicenda mostrandosi le caricature; i vecchi servitori in cappotti di frisia si limitano a guardare al solo scopo di oziare un poco in qualche posto, mentre le venditrici, giovani donne russe, accorrono d'istinto per ascoltare le ciance della gente.

           In un momento del genere, per caso, si fermò davanti alla bottega il giovane artista È artkò v che passava di lì. Il vecchio cappotto e l'abito non certo elegante mostravano in lui una persona che è devota al proprio lavoro sino all'abnegazione e non ha il tempo di prendersi cura del proprio abbigliamento, sebbene esso abbia pur sempre una misteriosa attrattiva sui giovani. Egli si fermò davanti alla bottega e dapprima rise dentro di sè di quei quadretti mostruosi. Alla fine, però, si trovò a fare un'involontaria riflessione; si mise a pensare a chi potessero essere necessarie opere come quelle. Che il popolo russo ammirasse cose come Eruslà n Lazarè viè, il Mangione e il Bevone, Fomà ed Eremà non gli pareva cosa da stupire: gli oggetti raffigurati erano oltremodo accessibili e comprensibili per il popolo; ma dov'erano i compratori di quelle pitture variopinte, sudicie, lucide di olio? A chi potevano servire quei contadini olandesi, quei paesaggi rossi e turchini che rivelavano qualche pretesa d'arte, ma in cui si manifestava tutta la profonda umiliazione dell'arte stessa? Secondo ogni apparenza non si trattava per nulla delle fatiche d'un bambino autodidatta. Altrimenti, nonostante l'insipido carattere caricaturale dell'insieme, vi si sarebbe avvertito un certo slancio. Lì, invece, si vedevano solamente dell'ottusità, un'impotente e decrepita mancanza di talento che arbitrariamente si schierava nelle file dell'arte, mentre il suo posto era fra i bassi mestieri; una mancanza di talento, tuttavia, così fedele alla propria vocazione, da trasmettere all'arte il proprio carattere di mestiere. Sempre gli stessi colori, la stessa maniera, la stessa mano addestrata e impratichita, che apparteneva più a un rozzo automa che non a un essere umano!... Egli sostò a lungo davanti a quei sudici quadri nemmeno più pensando ad essi; intanto il padrone della bottega, un uomo grigio, con il cappotto di frisia, con una barba non rasa almeno dalla domenica prima, prese a spiegargli qualcosa, a offrire e a contrattare ancor prima di sapere che cosa fosse piaciuto od occorresse a È artkò v.

           «Ecco, per questi contadini e per il piccolo paesaggio prendo un biglietto bianco. Che pittura! Ti ferisce addirittura l'occhio, li ho appena ricevuti dalla sala vendite, la vernice non s'è ancora asciugata. Oppure, ecco un inverno, prendete l'inverno! Quindici rubli! Solamente la cornice che cosa vale... Guardate che inverno! »

           A questo punto il mercante diede un leggero colpetto alla tela, probabilmente per mostrare tutta la buona qualità dell'inverno.

           «Ordinate di legarli insieme e di portarveli a casa? Dove abitate? Ehi, ragazzo, passami dello spago. »

           «Aspetta, caro, non così in fretta, » disse come destandosi l'artista, vedendo che lo sbrigativo mercante s'era già messo sul serio a legare i quadri.

           Gli era venuta una certa vergogna di non prendere nulla dopo essere rimasto così a lungo nella bottega e perciò disse:

           «Aspetta, voglio vedere in giro se per caso non c'è qualcosa che mi vada», e, chinatosi, si mise a tirar su dal pavimento delle vecchie pitture consunte e impolverate, buttate in un mucchio, che evidentemente non godevano di alcuna considerazione. C'erano vecchi ritratti di famiglia, i cui discendenti probabilmente non esistevano più, figure del tutto irriconcscibili con la tela rotta, cornici ormai prive della doratura; insomma, ogni sorta di decrepiti rifiuti. Ma l'artista si accinse a quest'esame, pensando entro di sè: «Forse qualcosa si può trovare. » Più d'una volta aveva sentito raccontare che in certi casi, presso i venditori di stampacce popolari, in mezzo al bailamme erano stati ritrovati dei quadri di grandi maestri. Il padrone, vedendo dov'egli mirava, aveva abbandonato le sue premure e, assunta la sua posizione abituale e una conveniente imponenza, s'era messo di nuovo davanti alla porta a invitare i passanti e a indicare con una mano la bottega...

           «Qui, bà tjuš ka, ecco i quadri! Entrate, entrate, sono arrivati dalla sala vendite. »

           Già aveva strillato a sazietà, e per lo più infruttuosamente, aveva pure a sazietà chiacchierato con un venditore di pezze di stoffa, che stava anch'egli sulla porta della sua bottega proprio di fronte a lui, quando, alla fine, ricordandosi che in bottega aveva un compratore, voltò le spalle alla gente e si diresse verso l'interno.

           «Allora, bà tjuš ka, avete scelto qualcosa? »

           Già da qualche minuto l'artista stava immobile davanti a un ritratto in una grande cornice, che una volta doveva essere stata sontuosa ma sulla quale adesso luccicava appena qualche scaglia della doratura. Si trattava d'un vecchio con una faccia color bronzo, con forti zigomi, dall'aria scarnita; i lineamenti parevano esser stati colti in un istante di contrazione febbrile ed emanavano un vigore non settentrionale. Su di essi era stampato un infuocato mezzogiorno. L'uomo era drappeggiato in un ampio abito asiatico. Per quanto il ritratto fosse impolverato e danneggiato, È artkò v aveva visto subito, non appena era riuscito a togliere la polvere dalla faccia, l'impronta dell'opera d'un grande artista. Il ritratto sembrava incompiuto, ma la potenza della pennellata era eccezionale. Più straordinari di tutto erano gli occhi: pareva che l'artista vi avesse messo tutta la forza del suo pennello e tutta la passione della sua arte. Essi guardavano, guardavano, si sarebbe detto, fuori del ritratto, quasi distruggendone l'armonia con la loro strana vivezza. Anche la folla ne riceveva la stessa impressione. Una donna che s'era fermata dietro È artkò v si mise a gridare: «Mi guarda, mi guarda! » e indietreggiò. È artkò v provò un turbamento incomprensibile, e posò il ritratto a terra.

           «Allora, lo prendete? » disse il padrone.

           «E... quanto? » domandò l'artista.

           «Non ne voglio molto. Datemi tre è etvertà k! »

           «No. »

           «Be', e cosa volete darmi? »

           «Una ventina di copechi, » disse l'artista accingendosi ad andarsene.

           «Eh, che razza di prezzo mi tirate fuori! Ma per venti copechi non si compra nemmeno la cornice. Si vede che avete intenzione di comprare domani. Signore, signore, venite qua! E va bene, datemi venti copechi. Prendetelo, prendetelo, va bene per venti copechi! Ma è solo per cominciare, solo perchè oggi siete il primo cliente. »

           Così dicendo fece un gesto con la mano, come a dire: «Se così dev'essere, pazienza per il quadro! »

           In questo modo È artkò v si trovò del tutto inaspettatamente ad acquistare il vecchio quadro e nello stesso tempo pensò: «Perchè l'ho comprato? Che cosa me ne faccio? » Ma ormai era andata. Tirò fuori di tasca venti copechi, li diede al padrone, prese il ritratto sotto braccio e se lo portò via. Per strada si ricordò che i venti copechi che aveva dato erano gli ultimi che possedeva. E a un tratto, i suoi pensieri si fecero neri: immediatamente l'assalirono un sentimento di stizza e un gran vuoto nell'anima.

           «Al diavolo! È davvero schifoso vivere al mondo! » si disse con lo stato d'animo del russo a cui le cose vanno male. E quasi meccanicamente si mise a camminare a passi lesti, pieno d'indifferenza verso tutto. La luce rossa del tramonto copriva metà del cielo; le case rivolte in quella direzione erano ancora illuminate dal suo tiepido fulgore, mentre già si accentuava il freddo, azzurrastro, chiarore della luna. A terra cadevano leggere ombre semitrasparenti che venivano riflesse dalle case e dalle gambe dei passanti. L'artista cominciò a poco a poco a guardare il cielo rischiarato da una luce diafana, sottile, incerta, e quasi senza volerlo gli sfuggirono dalla bocca le parole: «Che tonalità leggera! » ma poi subito dopo: «Che rabbia, al diavolo! » E, mettendo a posto il ritratto che gli scivolava continuamente di sotto il braccio, accelerò il passo. Stanco e tutto sudato riuscì finalmente a trascinarsi sino a casa, alla quindicesima linea dell'Isola Vasiliè vskij. Con fatica e il fiato mozzo s'arrampicò per le scale inondate di risciacquature e costellate di tracce di gatti e di cani. Al suo colpo alla porta non ci fu risposta: il servitore non era in casa. Allora egli si appoggiò alla finestra e si dispose ad attendere con pazienza; finalmente echeggiarono alle sue spalle i passi d'un ragazzo in camicia blu, il suo galoppino, modello, mesticatore di colori e spazzapavimenti, che subito però sporcava con i suoi stessi stivali. Il ragazzo si chiamava Nikì ta e trascorreva tutto il tempo fuori del portone quando il padrone non era in casa. Nikì ta si sforzò a lungo di infilare la chiave nel buco della serratura, che non si vedeva assolutamente a cagione dell'oscurità. Infine la porta fu aperta. È artkò v entrò nella sua anticamera, intollerabilmente fredda, come sempre succede in casa degli artisti, benchè loro non se ne accorgano. Senza dare il cappotto a Nikì ta, passò nel suo studio, una stanza quadrata, grande ma bassa, con le finestre gelate, ingombra d'ogni genere di cianfrusaglie artistiche: frammenti di braccia di gesso, cornici avvolte nella tela, schizzi incominciati e abbandonati, drappeggi appesi sugli studi. Era molto stanco: gettò via il cappotto, posò distrattamente fra due piccole tele il ritratto che aveva portato con sè e si buttò su un basso divanetto del quale non si poteva dire che fosse foderato di pelle, perchè la fila di chiodini di rame che una volta la fissava, da tempo se ne stava per conto suo, e anche la pelle rimasta attaccata ai chiodini si era rigonfiata per conto suo, tanto che Nikì ta ci ficcava sotto calzini neri, camicie e tutta la biancheria sporca. Sedutosi e poi sdraiatosi per quanto ci si poteva sdraiare su quello stretto divano, egli chiese una candela.

           «Di candele non ce n'è, » disse Nikita.

           «Come non ce n'è? »

           «Da ieri non ce n'è, » disse Nikita.

           Allora l'artista si ricordò che effettivamente anche la sera prima già mancavano le candele, si mise l'animo in pace e tacque. Si fece svestire e indossò il suo pigiama fortemente e abbondantemente logoro.

           «Ancora una cosa, » disse Nikita, «è venuto il padrone di casa. »

           «Be', è venuto per i soldi. Lo so, » disse l'artista con un gesto vago della mano.

           «Ma non è venuto solo, » disse Nikita.

           «E con chi? »

           «Non lo so con chi... credo una guardia. »

           «E perchè la guardia? »

           «Non lo so perchè; ha detto perchè l'alloggio non è stato pagato. »

           «E che vogliono allora? »

           «Io non so cosa vogliono; ha detto: ‹Se non vuole pagare se ne vada allora dall'alloggio. › Torneranno tutt'e due domani. »

           «Che tornino pure, » disse con mesta indifferenza È artkò v, e fu invaso da una profonda depressione.

           Il giovane È artkò v era un artista di talento che prometteva molto: a tratti, a lampi il suo pennello rivelava spirito d'osservazione, acutezza, e un vivo slancio verso la natura.

           «Bada, mio caro, » gli aveva detto più d'una volta il professore, «hai del talento; sarebbe un peccato se tu lo rovinassi. Ma sei impaziente. Se qualcosa ti attira, se qualcosa ti piace, tutto il resto per te non conta più nulla, nemmeno vuoi guardarlo. Sta attento a non diventare un pittore alla moda. Già adesso cominci a far gridare troppo il colore. Il tuo disegno non è rigoroso e certe volte persino debole, la linea non si vede; ti metti già a correr dietro alla luce, com'è la moda, a ciò che colpisce di primo acchito; sta attento a non cadere nel genere inglese. Bada, il mondo comincia ad attirarti; certe volte ti vedo addosso un fazzoletto da elegantone, un cappello con il nastro... È una cosa che seduce, ci si lascia andare a dipingere quadretti alla moda, ritrattini per far soldi. Ma, in questa maniera il talento, anzichè svilupparsi, viene meno. Pazienta. Rifletti su ogni lavoro, lascia stare l'eleganza, e che gli altri facciano pure quattrini. Ciò che hai di tuo non lo perderai mai. »

           Il professore aveva solo in parte ragione. Effettivamente, certe volte al nostro artista veniva voglia di far baldoria, di sfoggiare eleganza, insomma di mostrare in qualche modo la sua giovinezza. Ma, nonostante questo, sapeva anche dominarsi. A volte, prendendo in mano il pennello riusciva a dimenticare tutto e si staccava dalla tela come da un meraviglioso sogno interrotto a metà. Il suo gusto si sviluppava in modo sensibile. Non comprendeva ancora tutta la profondità di Raffaello, ma era già attratto dal pennello rapido e arioso di Guido Reni, si soffermava sui ritratti di Tiziano, s'entusiasmava ai Fiamminghi. Ancora l'aspetto annerito che avvolgeva i vecchi quadri gli faceva da schermo, ma già intravedeva in essi qualcosa, sebbene intimamente non fosse d'accordo con il professore che i maestri antichi fossero ormai in modo irraggiungibile lontani da noi; gli sembrava persino che il diciannovesimo secolo in qualcosa li avesse notevolmente superati, che l'imitazione della natura si fosse fatta ora, in qualche misura, più evidente, più viva, più vicina; insomma, egli a questo proposito pensava come la pensano i giovani che hanno già raggiunto qualcosa e lo avvertono nella loro coscienza orgogliosa. Talvolta si sentiva preso dal dispetto quando vedeva che un pittore di passaggio, francese o tedesco, in certi casi neanche pittore per vocazione, ma solo dotato di una maniera divenuta abitudine, suscitava con la destrezza del suo pennello e la vivacità dei colori un gran chiasso, e in un battibaleno si metteva da parte un grosso capitale. Questo non gli veniva in mente quando, tutto preso dal suo lavoro, si dimenticava di bere, di mangiare, e del mondo intero, ma quando alla fine non era più possibile ignorare le necessità, quando non c'era di che comperare pennelli e colori, quando l'ossessionante padrone di casa veniva anche dieci volte al giorno a chiedere l'affitto dell'alloggio, nella sua immaginazione affamata si disegnava allora con invidia la figura del pittore che si arricchiva; gli balenava persino un pensiero che spesso balena nella testa dei russi: abbandonare decisamente tutto e buttarsi allo sbaraglio. Anche adesso era in uno stato d'animo del genere.

           «Sì! pazienta! pazienta! » mormorò con dispetto. «C'è pure un limite anche alla pazienza in fin dei conti! Pazienta! E con quali soldi pranzerò domani? Nessuno mi fa un prestito. E se portassi a vendere tutti i miei quadri e i miei disegni, per tutti insieme mi darebbero venti copeche. Mi sono serviti, certo, questo lo capisco: nessuno è stato fatto per caso, ognuno di essi mi ha insegnato qualcosa. Ma che vantaggio ne ho? Studi, tentativi, e saranno sempre studi, tentativi, e non ci sarà una fine. E chi li comprerà, dato che nessuno conosce il mio nome? A chi interessano i miei disegni che si ispirano agli antichi, oppure il mio incompiuto Amore di Psiche, oppure la prospettiva della mia stanza, o il ritratto del mio Nikì ta, benchè sia davvero migliore dei ritratti d'un qualsiasi pittore alla moda? E dunque? Perchè mi tormento e seguito a fare esercizi come uno scolaretto quando potrei brillare non meno degli altri ed essere pieno di soldi come loro? »

           Detto questo, d'improvviso l'artista si mise a tremare e impallidì: protendendosi dalla tela posata a terra, lo fissava una faccia febbrilmente contratta. Due occhi terribili erano puntati proprio su di lui, come pronti a divorarlo; sulle labbra era dipinto l'ordine minaccioso di tacere. Spaventato, fu per gridare e chiamare Nikì ta, che in anticamera aveva già cominciato a russare bellicosamente; ma poi, di colpo, si fermò e scoppiò a ridere. La sensazione di terrore si dileguò istantaneamente. Si trattava del ritratto che aveva acquistato e di cui s'era del tutto dimenticato. La luce della luna, entrata nella stanza, era caduta anche su di esso e gli aveva conferito una strana vivezza. È artkò v si accinse a esaminarlo e a pulirlo. Inzuppò nell'acqua una spugna, la passò varie volte sulla tela, ne tolse quasi tutta la polvere e il sudiciume che vi si erano accumulati e depositati sopra, lo appese davanti a sè alla parete e non potè fare a meno di meravigliarsi ancora di quell'opera straordinaria: il volto appariva quasi vivo, e gli occhi lo guardavano in modo tale che, alla fine, egli trasalì e, indietreggiando, mormorò con voce stupita:

           «Mi guarda, mi guarda con occhi umani! »

           D'improvviso gli venne in mente una storia udita molto tempo prima dal suo professore a proposito d'un ritratto del celebre Leonardo da Vinci, ritratto a cui il grande maestro aveva lavorato per vari anni e continuava a considerare non finito, mentre, secondo le parole del Vasari, era già da tutti riconosciuto come la migliore e la più completa opera d'arte. Più belli di tutto il resto erano gli occhi, che suscitarono la meraviglia dei contemporanei: persino le più sottili vene, quelle appena visibili, non erano state trascurate, ma rese sulla tela. Lì, però, in quel ritratto che adesso stava davanti a lui, c'era qualcosa di strano. Non era più arte: era qualcosa che persino distruggeva l'armonia del ritratto. Erano occhi vivi, occhi umani! Sembrava che fossero stati presi da un uomo vivente e messi lì. Non c'era nemmeno più l'alto godimento che invade l'anima quando si guarda l'opera d'un artista, per quanto orrido sia il soggetto scelto; no, lì c'era qualcosa come una sensazione morbosa, opprimente.

           «Che cos'è questo? » si domandò involontariamente l'artista. «Eppure è natura, natura vivente; perchè dunque questa strana sensazione sgradevole? O forse un'imitazione troppo vera, troppo letterale della natura è già una colpa e sembra un grido stridente, disarmonico? O forse, se tratti un soggetto freddamente, senza sentimento, senza partecipazione, è naturale che esso si presenti nella sua realtà più orribile, non illuminata dalla luce dell'irraggiungibile pensiero che è nascosto in tutte le cose; si presenti come la realtà che scoprirebbe chi, volendo carpire il segreto di una bellissima figura umana, si armasse d'un coltello, la sventrasse, e scoprisse un essere ripugnante. Perchè anche la natura più semplice, più infima, appare in un artista in una certa luce e non genera alcuna impressione di disgusto; al contrario, sembra di provar di fronte ad essa godimento, e dopo tutto scorre e si muove intorno a noi in modo più armonico e regolare? E perchè, invece, la stessa natura in un altro artista sembra bassa, sudicia, sebbene anch'egli sia stato altrettanto fedele alla natura? Perchè non c'è, non c'è quel qualcosa che illumina. È come per un panorama: per quanto stupendo, gli manca sempre qualcosa se in cielo non c'è il sole. »

           Si avvicinò nuovamente al ritratto per esaminare quegli occhi sorprendenti e notò allora con orrore che essi sembravano seguitare a guardare proprio lui. Non si trattava più d'una copia della natura; era la strana vivezza che potrebbe illuminare la faccia d'un cadavere uscito dalla tomba. Fosse la luce della luna, che reca con sè il delirio del sogno e a tutto conferisce altre sembianze, opposte a quelle positive del giorno, o fosse un'altra causa, fatto è che a un tratto, senza sapere perchè, egli aveva cominciato a provar terrore di restare solo nella stanza. Si allontanò in silenzio dal ritratto, si voltò dall'altra parte e si sforzò di non guardarlo, ma intanto, senza volerlo, lo sbirciava di traverso. Finalmente ebbe paura persino di camminare per la stanza; gli sembrava che subito qualcun altro si mettesse a camminargli dietro, e quindi di continuo, timorosamente, si voltava a guardare. Non era mai stato un pauroso, ma la sua immaginazione e i suoi nervi erano delicati, e quella sera non sapeva spiegarsi nemmeno lui il suo timore. Si sedette in un angolo, ma anche qui gli parve che da dietro le spalle qualcuno gli puntasse gli occhi addosso. Neanche il russare di Nikì ta, che si udiva dall'anticamera, riusciva a scacciare il suo terrore. Finalmente si alzò, impaurito, senza alzare gli occhi, si ritirò dietro il paravento e si mise a letto. Attraverso le fessure del paravento vedeva la sua stanza illuminata dalla luna e vedeva anche il ritratto appeso proprio di fronte, sul muro. Quegli occhi si fissarono su di lui in modo ancor più terribile, più carico di significato, e parve che volessero guardare solo lui. Pieno d'una sensazione d'angoscia, si decise ad alzarsi dal letto, afferrò il lenzuolo e, accostatosi al ritratto, ve lo avvolse. Fatto questo, si mise a letto più tranquillo; cominciò a pensare alla povertà e al misero destino degli artisti, allo spinoso cammino che lo attendeva nel mondo; e intanto i suoi occhi involontariamente guardavano attraverso una fessura del paravento il ritratto avvolto dal lenzuolo. Lo scintillio della luna rafforzava il biancore del lenzuolo, ed egli ebbe l'impressione che quegli occhi terribili avessero cominciato a brillare persino attraverso il lenzuolo. Con terrore guardò più fissamente, come se volesse sincerarsi che si trattava d'una assurdità. Ma ecco che davvero... ecco che vede, vede chiaramente che il lenzuolo non c'è più... che il ritratto è scoperto e, oltrepassando tutto ciò che c'è intorno, guarda dritto verso di lui, guarda proprio dentro di lui... Gli si gela il cuore. E vede: il vecchio si è mosso e a un tratto si è appoggiato alla cornice con entrambe le mani. Infine si solleva sulle braccia, allunga fuori le gambe, si stacca dalla cornice... Attraverso la fessura del paravento non si vede ormai che la cornice vuota. Nella camera rintrona un rumore di passi, che si fa sempre più vicino, più vicino al paravento. Il cuore del povero artista cominciò a battere furiosamente. Con il respiro che gli veniva meno per il terrore aspettava che da un momento all'altro il vecchio si affacciasse a guardarlo da dietro il paravento. Ed ecco che avvenne proprio questo, egli s'affacciò da dietro il paravento a guardarlo, sempre con quel suo viso bronzeo e muovendo i suoi grandi occhi. È artkò v fece uno sforzo per gridare e sentì di non avere voce; si sforzò di muoversi, di fare un movimento qualsiasi, ma le sue membra restarono ferme. Con la bocca spalancata e il respiro mozzo guardava quel terribile fantasma, alto, ricoperto da una specie d'ampia veste asiatica, aspettando di vedere che cosa avrebbe fatto. Il vecchio si sedette quasi ai suoi piedi e tirò fuori qualcosa di sotto le pieghe del suo ampio abito. Era un sacchetto. Il vecchio lo slegò e, afferratolo per le due estremità, lo scosse: con un rumore sordo caddero a terra dei rotoli piuttosto pesanti simili a lunghe colonnine; ognuno era avvolto in una carta azzurra e su ognuno stava scritto: 1000 ducati. Con le sue lunghe mani ossute il vecchio cominciò a svolgere i rotoli. L'oro scintillò. Per quanto forti fossero la sensazione d'angoscia e il folle terrore dell'artista, egli si concentrò tutto sull'oro, guardando immobile come esso usciva dalle mani ossute, e scintillava, e tintinnava con un suono squillante, e poi di nuovo s'avvolgeva in rotolo. A questo punto notò un involto che era rotolato più lontano dagli altri, proprio accanto a uno dei piedi del letto, vicino al capezzale. L'afferrò quasi convulsamente e, pieno di terrore, guardò se il vecchio non se ne fosse accorto. Ma il vecchio pareva molto occupato. Radunò tutti i suoi involti, li rimise nel sacco e, senza nemmeno dare un'occhiata a È artkò v, scomparve dietro il paravento. Il cuore di È artkò v battè forte quand'egli sentì echeggiare nella stanza il fruscio dei passi che si allontanavano. Strinse con più forza l'involto nella mano, tremando in tutto il corpo, e, a un tratto, sentì che i passi si avvicinavano di nuovo al paravento: evidentemente il vecchio s'era accorto che mancava un rotolo. Ed eccolo: di nuovo lo guardava da dietro il paravento. Pieno di disperazione, È artkò v strinse con tutta l'energia che aveva il rotolo nella mano, si sforzò di muoversi, gettò un grido e si svegliò. Era tutto coperto di un freddo sudore; sentiva nel petto un'oppressione come se stesse per emettere l'ultimo respiro.

           «Possibile che sia stato un sogno? » disse, afferrandosi la testa con tutt'e due le mani. La tremenda vivezza della visione non somigliava a un sogno... Già da sveglio aveva visto il vecchio ritirarsi dentro la cornice, e gli era persino apparsa una falda dell'ampia veste; la sua mano serbava, come un istante prima, il senso preciso di qualcosa di pesante. La luce della luna rischiarava la stanza facendo emergere dagli angoli bui là una tela, qui una mano di gesso, o un drappeggio abbandonato su una sedia, o i pantaloni e gli stivali sporchi. Soltanto a questo punto egli si accorse che non si trovava a letto, ma era in piedi, proprio davanti al ritratto. Come fosse arrivato sin lì, questo non riusciva assolutamente a capirlo. Ancor più lo stupiva il fatto che il ritratto fosse scoperto e su di esso non vi fosse più il lenzuolo. È artkò v fissò il quadro con immobile terrore e vide quei viventi occhi umani conficcarsi dritti dentro i suoi. Un freddo sudore gli coprì il viso; avrebbe voluto allontanarsi, ma sentiva che le sue gambe erano come inchiodate al pavimento. E allora vide che non era più un sogno, che i lineamenti del vecchio si muovevano e le sue labbra cominciavano a protendersi verso di lui come se volessero succhiarlo... Con un urlo di disperazione fece un balzo indietro e si destò.

           «Possibile che anche questo sia stato un sogno? » Con il cuore che gli batteva tanto da spezzarsi tastò con le mani intorno a sè. Sì, era a letto ed esattamente nella stessa posizione in cui s'era addormentato. Davanti a lui, il paravento: la luce della luna riempiva la stanza. Attraverso, la fessura del paravento si vedeva il ritratto ben coperto dal lenzuolo, come lui stesso l'aveva avvolto. Dunque era stato un sogno! Ma la sua mano contratta provava ancora la sensazione di stringere qualcosa. Il battito del cuore era violento, pauroso; il peso sul petto insopportabile. Puntò gli occhi sulla fessura e guardò attentamente il lenzuolo. Ed ecco: vide chiaramente che il lenzuolo cominciava ad aprirsi, come se sotto di esso delle braccia si agitassero e si sforzassero di allontanarlo.

           «Signore Iddio, ma cosa succede? » gridò egli facendosi disperatamente il segno della croce. E si svegliò. E dunque anche questo era stato un sogno! Saltò giù dal letto, impazzito, fuori di sè.. senza saper spiegare cosa gli stesse accadendo, se fosse l'oppressione d'un incubo o di un fantasma della casa, il delirio della febbre o uno spettro vivo. Sforzandosi di calmare in qualche modo l'agitazione dello spirito e il sangue in tumulto che pulsava con ritmo frenetico in tutte le sue vene, si avvicinò alla finestra e aprì l'imposta.

           Il vento freddo e profumato lo rianimò. La luce della luna si posava ancora sui tetti e sui muri bianchi delle case, benchè grandi nuvole avessero cominciato a passare più frequenti nel cielo. Tutto era silenzioso: di lontano giungeva all'udito il tintinnio della carrozza d'un vetturino che dormiva in qualche invisibile vicolo, cullato dalla sua pigra rozza, in attesa d'un cliente ritardatario. Sporgendo la testa dalla finestra egli guardò a lungo. Nel cielo si avvertivano già i segni dell'alba vicina; sentì infine che la sonnolenza l'assaliva, chiuse l'imposta, si allontanò dalla finestra, si buttò sul letto e ben presto sprofondò come morto nel sonno.

           Si destò molto tardi e sentì una sensazione spiacevole come se avesse respirato a lungo aria malsana, e ne fosse quasi asfissiato: la testa gli doleva. Nella camera c'era una luce fioca: una sgradevole umidità era diffusa nell'aria e filtrava attraverso le fessure delle finestre, le pareti erano ricoperte di quadri e di tele preparate. Rannuvolato, scontento come un gallo bagnato, si sedette sul suo divano rotto non sapendo nemmeno lui cosa mettersi a fare, e finalmente rammentò tutto il suo sogno. Man mano che lo ricordava, esso gli si presentava all'immaginazione come qualcosa di penosamente vivo, così che egli cominciò persino a dubitare se si fosse trattato d'un sogno o d'un semplice delirio, o se non fosse stato qualcosa d'altro, se non fosse stata un'apparizione. Tolto il lenzuolo, esaminò alla luce del giorno il terribile ritratto. Gli occhi, sì, colpivano per la loro insolita vivezza, ma egli non vi trovò nulla di particolarmente pauroso; soltanto, in un certo modo, gli lasciavano nell'anima una sorta d'impressione inspiegabile, sgradevole. Però, malgrado tutto, non riusciva ancora a convincersi che si fosse trattato solo d'un sogno. Gli pareva che in mezzo al sogno ci fosse qualcos'altro, una specie di spaventoso frammento di realtà. Gli pareva che persino nello sguardo e nell'espressione del vecchio qualcosa, non so come, rivelasse che egli era stato da lui quella notte; la sua mano serbava l'impressione di qualcosa di pesante, che qualcuno gli avesse strappato non più di un minuto prima. Gli pareva che se solo avesse tenuto un po' più forte il rotolo, esso gli sarebbe rimasto in mano anche dopo il risveglio.

           «Dio mio, avere anche soltanto una parte di quei soldi! » disse dopo un profondo sospiro, e nella sua immaginazione cominciarono a riversarsi dal sacco tutti i rotoli su cui aveva visto la scritta seducente: 1000 ducati. I rotoli si aprivano, l'oro scintillava, poi si riavvolgevano, e lui sedeva, gli occhi immobili e insensati fissi nel vuoto, incapace di distaccarsi da quella vista, come un bambino che sta seduto di fronte a un dolce e, inghiottendo la saliva, vede che altri se lo mangiano. Finalmente alla porta echeggiò un colpo che lo costrinse a tornare sgradevolmente in sè. Entrò il padrone di casa con il commissario del quartiere, la cui comparsa, com'è noto, è per la piccola gente ancora più spiacevole di quanto sia per i ricchi la faccia d'un questuante. Il padrone dell'appartamentino in cui abitava È artkò v era un essere del genere di tutti i proprietari di case situate nella quindicesima linea dell'Isola Vasiliè vskij, o nel Quartiere Peterburgskij o nella parte più remota del Quartiere Kolò mna, un essere come in Russia ce ne sono in quantità e il cui carattere è tanto difficile da definire quanto il colore d'una giacca troppo usata. Nella sua giovinezza era stato un urlante capitano, poi aveva svolto anche funzioni civili, era un maestro nel fustigare, un uomo accorto, e un elegantone, e in definitiva uno stupido; ma in vecchiaia tutte queste particolarità si erano fuse in una opaca indeterminatezza. Era vedovo, ormai in pensione, aveva perso ogni pretesa d'eleganza, non si vantava, non si dava arie, gli piaceva semplicemente bere il tè chiacchierando d'ogni sciocchezza; passeggiava per la stanza, rimetteva a posto il mozzicone della candela di sego; accuratamente, allo scadere d'ogni mese, si faceva vedere dai suoi inquilini per riscuotere l'affitto, usciva in strada con la chiave in mano per guardare il tetto della sua casa; aveva cacciato varie volte il portiere dal suo covo, dove si nascondeva per dormire: insomma, era un tipo di pensionato a cui, dopo tutta una vita sregolata e gli scossoni delle carrozze di posta, restavano solamente abitudini meschine.

           «Degnatevi voi stesso di vedere, Varù ch Kuzmì è, » disse il padrone rivolgendosi al commissario del quartiere e allargando le braccia, «non mi paga l'alloggio, non paga. »

           «Che posso farci, se non ho soldi? Aspettate e pagherò. »

           «Io, carissimo, non posso aspettare, » disse il padrone furioso, facendo un gesto con la chiave che teneva in mano, «da me ci vive il colonnello Potogò nkin, ci vive già da sette anni; Anna Petrò vna Buchmistè rova affitta pure la rimessa e la stalla, due stallaggi, ha tre persone di servizio: ecco che inquilini ho io. Io, per dirvela sinceramente, non ho una stanza dove non si paghi l'affitto. Degnatevi di pagare immediatamente oppure d'andarvene a spasso. »

           «Già, dato che così è stabilito, vedete di pagare, » disse il commissario del quartiere, scuotendo leggermente la testa e mettendo un dito su un bottone della sua uniforme.

           «E con cosa pago? È una parola! Attualmente non ho neppure un centesimo. »

           «In tal caso, potreste soddisfare Ivà n Petroviè con i prodotti della vostra professione, » disse il commissario, «forse lui accetta di prendere dei quadri. »

           «No, bà tjuš ka, per i quadri tante grazie. Fossero almeno dei quadri con un contenuto virtuoso, da poter appendere alle pareti, magari un generale con una decorazione o un ritratto del principe Kutuzò v, ma lui si mette a disegnare un contadino, un contadino in camiciotto, il servitore che gli mescola i colori! Doveva disegnare proprio il ritratto di quel maiale! Ma io gli torco il collo, perchè m'ha strappato tutti i chiodi dai chiavistelli, farabutto! Ecco, guardate che soggetti: disegna la stanza! Almeno avesse scelto la camera bene in ordine, rassettata, ma ecco come l'ha disegnata: con tutte le cianfrusaglie e la sporcizia che c'è intorno. Ecco, guardate come mi ha insudiciato tutta la stanza; degnatevi voi stesso di constatare. Ma da me vivono inquilini già da sette anni, colonnelli, la Buchmistè rova Anna Petrò vna... No, ve lo dico io, non c'è inquilino peggiore d'un pittore: vive come un porco, davvero come un pagano. »

           Il povero pittore stava ad ascoltare tutto questo con rassegnazione. Nel frattempo il commissario del quartiere si era messo a esaminare i quadri e i disegni e mostrava d'avere un'anima più ricettiva di quella del padrone, persino non insensibile all'arte.

           «Eh, » disse, puntando il dito su una tela dov'era raffigurata una donna nuda, «un soggetto, direi... giocoso. E perchè qui è così scuro, sotto il naso? Si rimpinzava di tabacco forse? »

           «È un'ombra, » rispose severamente È artkò v senza rivolgergli lo sguardo.

           «Be', si poteva mettere in qualche altro posto, perchè sotto il naso è un posto troppo in vista, » disse il commissario, «e questo ritratto di chi è? » proseguì, avvicinandosi al ritratto del vecchio, «questo, poi, è proprio spaventoso. Chissà se è stato davvero così terribile! Accidenti, sembra proprio che guardi. Eh, che razza di Capitan Tempesta! A chi l'avete fatto? »

           «Ah, questo, a un... » disse È artkò v, ma non terminò la frase: si udì uno scricchiolio.

           Evidentemente il commissario a causa delle sue rudi mani poliziesche aveva afferrato con troppa forza la cornice del ritratto; le assicelle laterali si ruppero, una di esse cadde sul pavimento e, insieme ad essa, cadde con un pesante tintinnio un rotolo di carta blu. A È artkò v balzò subito agli occhi la scritta: 1000 ducati. Come un pazzo si precipitò a raccattare il rotolo, l'afferrò e lo strinse febbrilmente nella mano che si abbassò per il peso.

           «A quanto pare, sono soldi che hanno fatto quel tintinnio, » disse il commissario del quartiere che aveva udito il rumore di qualcosa caduto sul pavimento, ma non aveva fatto in tempo a vedere di che si trattasse per la rapidità con cui È artkò v s'era precipitato a raccattare.

           «E a voi che importa sapere cosa sono? »

           «Importa per il fatto che adesso voi dovete pagare il padrone per l'alloggio; che avete soldi, ma non volete pagare, ecco com'è. »

           «D'accordo, pagherò oggi. »

           «Bene. E perchè non avete voluto pagarlo prima, causando fastidio al padrone e mettendo in allarme anche la polizia? »

           «Perchè non volevo toccare questi soldi; questa sera gli pagherò tutto e me ne andrò dall'alloggio domani stesso, perchè non voglio restare presso un simile padrone. »

           «Orsù, Ivà n Ivà noviè, lui vi pagherà , » disse il commissario rivolgendosi al padrone. «Ma se stasera stessa non doveste essere soddisfatto come si deve, allora, signor pittore, ci scuserete... »

           Detto questo, si mise il suo tricorno e uscì nel vestibolo; dietro di lui uscì il padrone con la testa bassa e, almeno sembrava, con l'aria alquanto meditabonda.

           «Grazie a Dio, che il diavolo se li porti! » disse È artkò v non appena udì chiudersi la porta dell'anticamera.

           Diede un'occhiata in anticamera, spedì via Nikì ta per qualche faccenda in modo da essere completamente solo, chiuse alle sue spalle la porta, e, ritornato nella sua stanza, con il cuore in tumulto si accinse a svolgere il rotolo.

           Era pieno di ducati, tutti nuovi dal primo all'ultimo, brillanti come il fuoco. Quasi impazzito, egli si sedette davanti al mucchietto d'oro, chiedendosi ancora se tutto non fosse un sogno. Nell'involto ce n'erano esattamente mille; e avevano lo stesso aspetto di come li aveva sognati. Per alcuni minuti li contò, li esaminò, e non riusciva ancora a tornare in sè. Nella sua immaginazione riemersero a un tratto tutte le storie di tesori, di scrigni con cassettini segreti, lasciati dagli avi per i loro nipoti in miseria, nella ferma convinzione della loro futura situazione fallimentare. Pensava così: forse anche adesso qualche nonnino aveva avuto l'idea di lasciare a suo nipote un regalo nascondendolo nella cornice d'un ritratto di famiglia. Pieno di romantico delirio, si mise persino a pensare se lì non ci fosse qualche misterioso nesso con il suo destino, se l'esistenza del ritratto non si legasse con la sua esistenza, e lo stesso acquisto di esso non fosse già una sorta di predeterminazione. Si accinse a esaminare con curiosità la cornice del ritratto. In un fianco di essa era stato intagliato un incavo, nascosto da un'assicella in modo così abile e invisibile che se la mano robusta del commissario del quartiere non avesse provocato la rottura, i ducati se ne sarebbero rimasti tranquilli in quel posto fino alla fine dei secoli. Esaminando il ritratto egli si stupì di nuovo per la perfezione dell'opera, per la straordinaria fattura degli occhi: essi non gli sembravano ormai più terribili, eppure ogni volta che li guardava gli restava nell'anima, senza che lo volesse, una sensazione spiacevole.

           «Bene, » disse a se stesso, «chiunque tu fossi, nonnino, io ti metterò sotto vetro e ti farò una cornice d'oro. »

           A questo punto la sua mano si appoggiò sul mucchio d'oro che gli stava dinanzi e a questo contatto il cuore gli battè con forza.

           «Che cosa farne? » pensò, fissandovi sopra gli occhi. «Adesso sono tranquillo almeno per tre anni; posso chiudermi in una stanza, lavorare. Ce n'è per i colori, per mangiare, per il tè, per il mantenimento, per l'alloggio; nessuno ora verrà più a disturbarmi e a seccarmi: mi comprerò un ottimo manichino, ordinerò un busto di gesso, modellerò dei piedi, mi metterò qui una Venere, mi comprerò le riproduzioni dei principali quadri. E se lavorerò tre anni per me stesso, senz'aver fretta, non per vendere, supererò tutti e potrò diventare un grande artista. »

           Così parlava secondo quanto gli suggeriva la ragione; ma dentro di lui echeggiava un'altra voce più forte e più chiara. E quando diede ancora una volta un'occhiata all'oro, ecco che in lui cominciarono a far sentire la loro voce i suoi ventidue anni e la sua giovinezza. Adesso era in suo potere tutto ciò a cui sinora aveva guardato con occhi pieni d'invidia, che aveva ammirato da lontano, inghiottendo la saliva. Oh, come gli battè il cuore non appena pensò a questo! Indossare un frac alla moda, mangiare a volontà dopo lunghi digiuni, prendere in affitto un appartamento di lusso, andare subito a teatro, in pasticceria... e tutto il resto; e così, afferrato il denaro, eccolo già in strada. Prima di tutto andò da un sarto, si rivestì da capo a piedi, e, come un bambino, non si stancava di ammirarsi; comprò dei profumi, delle pomate; senza contrattare prese in affitto il primo sontuoso appartamento che gli capitò sulla Prospettiva Nevskij, con specchi e vetri intatti; in un negozio comprò con disinvoltura un costoso occhialino, in un altro, sempre con gran disinvoltura, un mucchio di cravatte d'ogni sorta, più di quante gliene occorressero; da un barbiere si fece fare i riccioli, per due volte fece il giro della città in carrozza senza alcun motivo, si rimpinzò di dolciumi in una pasticceria e poi andò in un ristorante francese del quale fino allora aveva sentito parlare in modo non meno vago che dell'impero cinese. Qui pranzò dandosi delle arie, gettando sguardi sdegnosi verso gli altri e aggiustandosi di continuo i riccioli davanti allo specchio. Bevve una bottiglia di champagne; anche di questo, fino allora, ne sapeva solo per sentito dire. Il vino gli ronzava un po' nella testa e allora uscì in strada, vivace, arzillo; secondo il detto russo: un vero diavolaccio.

           Prese a camminare sul marciapiede come un galletto, puntando su tutti il suo occhialino. Sul ponte scorse il suo professore e sgattaiolò baldanzosamente davanti a lui come se non l'avesse notato affatto, tanto che il professore, allibito, rimase per un bel pezzo a guardarlo con la faccia a punto interrogativo. Tutti gli oggetti e quanto possedeva: cavalletto, tela, quadri furono trasportati quella sera stessa nell'appartamento sontuoso. Dispose quanto aveva di meglio nei punti in vista, gettò in un angolo le cose peggiori e si mise a passeggiare per le stupende stanze sbirciandosi continuamente nello specchio. Nella sua anima nacque il desiderio invincibile di afferrare subito la gloria per la coda e di mostrarsi al mondo. Già gli pareva di sentir gridare:

           «È artkò v! È artkò v! Avete visto il quadro di È artkò v? Che pennello veloce ha quel È artkò v! Che genio quel È artkò v! »

           Camminava per la sua stanza in uno stato d'esaltazione, si sentiva trasportare chissà dove. Subito, il giorno seguente, presa una decina di ducati, si diresse dal direttore di un giornale di larga diffusione chiedendo una disinteressata collaborazione; fu accolto cordialmente dal giornalista che subito lo chiamò «riveritissimo», gli strinse tutt'e due le mani, gli domandò dettagliatamente nome, patronimico, indirizzo; e il giorno dopo apparve sul giornale, subito dopo la notizia di certe candele di sego di nuova invenzione, un articolo dal seguente titolo:

 

           LE STRAORDINARIE DOTI DI È ARTLÒ V

 

           Ci affrettiamo a far cosa gradita agli abitanti istruiti della capitale informandoli d'una scoperta che, possiamo dire, è meravigliosa sotto tutti i riguardi. Tutti sanno che da noi esistono meravigliose fisionomie e meravigliosi volti, ma finora non c'era il mezzo di riportarli sulla tela al fine di trasmetterli alla posterità; adesso questa lacuna è stata colmata: s'è trovato un artista che possiede quanto necessario. Adesso una bella donna può essere sicura d'essere riprodotta in tutta la grazia della propria venustà, aerea, leggera, incantevole, leggiadra, simile alle farfalle che volteggiano fra i fiori di primavera. Un riverito padre di famiglia si vedrà circondato dai suoi cari. Un mercante, un guerriero, un cittadino, un uomo di stato: ciascuno con nuovo zelo continuerà ad esser vivo nella sua opera. Affrettatevi, affrettatevi, accorrete dal passeggio, sia che siate in strada per andare da un amico, o da una cugina, o in un negozio alla moda, affrettatevi, dovunque vi troviate. Lo stupendo studio dell'artista (Prospettiva Nevskij, numero tale) è tutto tappezzato di ritratti usciti dal suo pennello degno dei Van Dyck e dei Tiziano. Non si sa di che cosa più stupirsi, se della fedeltà e della somiglianza agli originali o della straordinaria freschezza del pennello. Lode a te, artista. Tu hai estratto il biglietto vincente della lotteria. Vivat, Andrè j Petrò vic (il giornalista, come si vede, amava la familiarità )! Copri di gloria te stesso e noi! Noi sapremo apprezzarti. L'affluenza generale e, insieme con questo, il denaro - benché certuni della nostra confraternita giornalistica parlino male di esso - saranno la tua ricompensa!

               

           L'artista lesse quest'articolo con segreto piacere; la sua faccia era raggiante. Dunque, di lui si parlava sulla stampa: questa era una novità e lesse e rilesse parecchie volte quelle righe. Il paragone con Van Dick e con Tiziano lo lusingò. La frase «Vivat, Andrè j Petrò viè! » gli piacque anch'essa moltissimo; sulla stampa lo chiamavano per nome e patronimico: un onore che finora gli era completamente sconosciuto.

           Cominciò a camminare a passi rapidi per la stanza, scompigliandosi i capelli, sedendosi ora su una seggiola, poi balzando su e sedendosi sul divano, immaginando continuamente come avrebbe ricevuto i visitatori e le visitatrici; si avvicinava a una tela e vi tracciava un'ardita pennellata, cercando di conferire un movimento aggraziato alla mano.

           E giorno dopo suonò il campanello della sua porta; egli corse ad aprire; entrò una signora accompagnata da un lacchè con un cappotto di pelliccia e, insieme con la signora, una giovane fanciulla diciottenne, sua figlia.

           «Voi siete monsieur È artkò v? » disse la signora.

           L'artista s'inchinò.

           «Di voi scrivono moltissimo; i vostri ritratti, si dice, sono la perfezione stessa. » Detto questo, la signora portò l'occhialino al naso e corse a esaminare rapidamente le pareti sulle quali però non c'era nulla. «Ma dove sono i vostri ritratti? »

           «Li hanno portati via, » disse l'artista confondendosi un poco, «ho traslocato appena adesso in quest'appartamento, così sono ancora in viaggio... non sono ancora arrivati. »

           «Eravate in Italia? » disse la signora puntando l'occhialino su di lui dato che non aveva altro da esaminare.

           «No, non ci sono stato, ma volevo andarci... insomma, per il momento ho rimandato... Ecco una poltrona, sarete stanca... »

           «Vi ringrazio, sono rimasta a lungo seduta in carrozza. Ah, ecco finalmente vedo un vostro lavoro! » disse la signora correndo verso la parete opposta e puntando l'occhialino sui suoi studi, programmi, prospettive e ritratti che stavano sul pavimento: «C'est charmant, Lise, Lise, venez ici: un interno nel gusto di Té niers, vedi: disordine, disordine, un tavolo, su di esso un busto, una mano, una tavolozza, ecco la polvere, vedi com'è disegnata la polvere! C'est charmant. Ed ecco su quell'altra tela una donna che si lava la faccia, quelle jolie figure! Ah, un contadinello! Lise, Lise, un contadinello in camicia russa! Guarda: un contadinello! Durique voi non fate soltanto ritratti? »

           «Oh, queste sono sciocchezze... Così, per gioco... Sono studi... »

           «Dite, che opinione avete dei ritrattisti d'oggi? Non è vero che oggi non ne esistono più come Tiziano? Non c'è quella forza nel colore, non c'è nulla... che peccato che io non sappia esprimervi in russo quel che penso. » La signora era un appassionata di pittura e aveva fatto il giro di tutte le gallerie dell'Italia con il suo occhialino. «E tuttavia monsieur Nol... ah, come dipinge! Che pennello straordinario! Io trovo che c'è ' persino più o espressione nei suoi visi che in quelli di Tiziano. Voi non conoscete monsieur Nol? »

           «Chi è questo Nol? » domandò l'artista.

           «Monsieur Nol. Ah, che ingegno! Ha dipinto il suo ritratto quando aveva dodici anni. Bisogna che voi veniate assolutamente a casa nostra. Lise. gli mostrerai il tuo album. Sapete, siamo venute perchè voi cominciate immediatamente il suo ritratto. »

           «Certo, posso cominciare subito. »

           E, in un istante, egli avvicinò il cavalletto con una tela già pronta, prese in mano la tavolozza, fissò lo sguardo nel volto pallido della figlia. Se fosse stato un conoscitore della natura umana, egli vi avrebbe letto a prima vista il nascere d'una passione infantile per i balli, la noia per la lunghezza del tempo prima di pranzo e dopo il pranzo, il desiderio di correre alla passeggiata con un abito nuovo, le tracce pesanti di un'applicazione alle varie arti che la lasciava del tutto fredda, ma era suggerita dalla madre per elevare l'anima e i sentimenti. Invece, in quel tenero visetto l'artista vide soltanto la trasparenza di porcellana dell'incarnato, un lieve affascinante languore, il sottile collo luminoso e l'aristocratica sottigliezza della vita. E già in anticipo si preparava a trionfare, a mostrare come fosse delicato e brillante il suo pennello, che finora aveva avuto a che fare solo con i lineamenti duri di rozzi modelli, con i severi antichi e con le copie dei maestri classici. Già s'immaginava nel pensiero come gli sarebbe riuscito quel volto delicato.

           «Sapete, » disse la signora con un'espressione del volto quasi commovente, «vorrei... adesso lei ha quest'abito; ma lo confesso, vorrei che adesso non indossasse questo che conosciamo troppo bene; vorrei che fosse vestita in modo semplice e sedesse all'ombra degli alberi, sullo sfondo dei campi, che ci fosse un gregge in lontananza, oppure un bosco... che non avesse l'aria di stare andando da qualche parte come a un ballo o a una serata brillante. I nostri balli, lo riconosco, uccidono in tal modo l'anima, in tal modo mortificano ogni residuo di sentimento... di semplicità, ci vorrebbe più semplicità. » (Ahimè! sulle facce della madre e della figlia stava scritto che s'erano talmente consumate nei balli da diventare tutt'e due quasi come di cera. )

           È artkò v si mise all'opera, fece sedere la signorina, stabilì mentalmente cosa dovesse fare; mosse nell'aria il pennello fissando nella sua mente i punti; socchiuse un poco un occhio, indietreggiò, guardò da lontano e nello spazio di un'ora incominciò e terminò il primo abbozzo. Soddisfatto, si mise a dipingere; il lavoro lo ispirava. Già aveva dimenticato tutto, aveva dimenticato persino di trovarsi in presenza di dame aristocratiche, aveva persino cominciato a esibire ogni tanto certi modi da pittore, pronunciando ad alta voce vari suoni, talvolta canterellando, come accadde a un artista immerso con tutta l'anima nel suo lavoro. Senza nessuna cerimonia, solo con un movimento del pennello indicava alla sua modella come dovesse sollevare il capo: alla fine la fanciulla cominciò ad agitarsi e a dare segni di stanchezza.

           «Basta per la prima volta, basta, » disse la signora.

           «Ancora un poco, » disse l'artista dimentico di tutto.

           «No, basta! Lise, tre ore! » disse la signora estraendo un piccolo orologio appeso con una catenella d'oro alla cintura, e aggiunse con un gridolino: «Ah, com'è tardi! »

           «Solo un momentino ancora, » disse È artkò v con la voce ingenua e supplichevole d'un bambino.

           Ma la signora a quanto pare non era affatto disposta a compiacere le sue esigenze artistiche, e promise invece di rimanere più a lungo un'altra volta.

           «Però è seccante, » pensò fra sè È artkò v, «m'ero appena sciolta la mano. »

           E si ricordò che nessuno lo interrompeva, nè lo fermava quando lavorava nel suo studio all'Isola Vasiliè vskij. Nikì ta di solito se ne stava seduto senza muoversi sempre nello stesso posto, lo si poteva dipingere quanto si voleva, dato che lui si addormentava addirittura nella posizione che gli era stata ordinata. Scontento, posò il suo pennello e la tavolozza sulla sedia e si fermò torvo davanti alla tela.

           Un complimento detto dalla dama di mondo lo destò dal suo torpore. Si precipitò svelto verso la porta per accompagnarle; sulle scale fu invitato ad andare a pranzo da loro la settimana successiva, e ritornò allegro nella sua stanza. L'aristocratica signora l'aveva completamente affascinato. Sino a quel momento egli aveva guardato le persone di quel genere come qualcosa d'inaccessibile, nate solamente per correre in belle carrozze con lacchè in livrea e un cocchiere azzimato, gettando sguardi indifferenti su chi arrancava a piedi con un modesto paltoncino. Ed ecco che, tutt'a un tratto, una di queste persone era entrata nella sua stanza; egli ne faceva il ritratto, era invitato a pranzo in una casa aristocratica. Una contentezza insolita si impadronì di lui; era completamente inebriato e per questo si premiò con un sontuoso pranzo e con uno spettacolo serale; poi, di nuovo, senza alcun bisogno, andò in giro in carrozza per la città.

           Nelle giornate successive trascurò del tutto il consueto lavoro. Non fece altro che prepararsi e aspettare il momento in cui avrebbe sentito suonare il campanello. Finalmente l'aristocratica dama e la sua pallida figlia arrivarono. Egli le fece accomodare, si avvicinò alla tela ormai con disinvoltura e con una certa pretesa di maniere mondane, e si mise a dipingere. La giornata piena di sole e di vivida luce gli furono di grande aiuto. Nel suo originale vedeva molte cose che, una volta colte e rese sulla-tela, avrebbero potuto conferire un alto pregio al ritratto: vedeva che ne sarebbe uscito qualcosa di speciale se avesse eseguito tutto con la perfezione con cui in quel momento gli si presentava il modello.

           Il cuore cominciò a battergli forte quando sentì che stava esprimendo qualcosa che gli altri non avevano ancora notato. Il lavoro lo prese interamente, egli si immerse tutto nel pennello, dimenticandosi di nuovo dell'aristocratica origine della sua modella. Con il fiato che gli si mozzava vedeva come gli venivano bene i lineamenti delicati e il corpo quasi diafano della fanciulla diciassettenne. Coglieva ogni sfumatura, un giallo leggero, un turchino appena visibile sotto gli occhi e già si preparava a dipingere persino un piccolo foruncoletto spuntato sulla fronte, quando a un tratto udì sopra di sè la voce della madre:

           «Ah, questo perchè? Questo non è necessario, » disse la signora. «E poi... ecco, in certi punti... c'è un po' troppo giallo, e qui, ecco, non mi piacciono queste macchioline scure. »

           L'artista si mise a spiegare che proprio quelle macchioline e quel giallo rendevano l'effetto, davano un tono naturale e leggero al viso. Ma gli fu risposto che non davano nessun tono e che non avevano nulla a che vedere con l'effetto, e che quelle erano semplicemente sue impressioni.

           «Permettete che almeno qui, solo in questo punto, ritocchi leggermente con un po' di giallo, » disse ingenuamente l'artista.

           Ma non gli fu permesso nemmeno questo. Dissero che Lise quel giorno era soltanto un poco indisposta e che non aveva nessun giallore e il suo viso colpiva specialmente per la freschezza del colorito. Con tristezza egli cominciò a cancellare ciò che il suo pennello aveva fatto emergere dalla tela. Scomparvero molti tratti quasi inavvertibili e, insieme con essi, in parte scomparve anche la somiglianza. Senza alcuna partecipazione egli si mise a dare al ritratto quel colorito generale che si dà a memoria e fa apparire i visi colti dal vero simili a quelli ideati a freddo che si vedono nelle esercitazioni degli allievi. Ma la signora era soddisfatta che l'offensivo colorito di prima fosse stato eliminato. Manifestò solo meraviglia che il lavoro durasse tanto e aggiunse d'aver sentito dire che lui in due sedute poteva finire un ritratto. L'artista non seppe che cosa rispondere. Le signore si alzarono e si accinsero a uscire. Egli posò il pennello, le accompagnò alla porta, poi si fermò a lungo immobile e torvo davanti al ritratto. Lo guardava ottusamente e nella sua testa rivedeva intanto quei lievi tratti femminili, quelle sfumature e quei toni aerei che il suo pennello aveva colti, e poi spietatamente cancellati. Tutto pieno di essi, mise il ritratto in disparte e cercò fra le sue cose una piccola testa di Psiche abbandonata, che una volta, molto tempo prima, aveva abbozzato sulla tela. Era una testa dipinta abilmente, ma del tutto ideale, fredda, fatta soltanto di lineamenti generici, una cosa priva di vita. Poichè non aveva nulla da fare, si mise a ritoccarla, trasferendovi tutto ciò che aveva notato nel volto della sua aristocratica modella. I tratti, le sfumature, i toni che egli aveva colto si deponevano ora qui nella forma pura in cui essi appaiono quando l'artista, dopo aver guardato a sufficienza la natura, se ne distacca e crea qualcosa pari ad essa. La Psiche cominciò ad acquistar vita e l'idea appena trapelata a poco a poco prese corpo. Senza che lui lo volesse, il tipo di volto d'una fanciulla della buona società si trasmise alla testa di Psiche, che grazie a ciò acquistò quella particolare espressione, tutta sua, che distingue una vera opera d'arte. Era come se il pittore avesse fuso varie parti nell'insieme presentatogli dall'originale, integrando alla perfezione ogni particolare nella sua opera. Per alcuni giorni non si occupò che d'essa. L'arrivo delle signore lo colse intento a questo lavoro. Non fece in tempo a togliere dal cavalletto il quadro. Entrambe levarono un gioioso grido di stupore e batterono le mani.

           «Lise! Lise! Ah, che somiglianza! Superbe, superbe! Che bell'idea avete avuto di abbigliarla in costume greco. Ah, che sorpresa! »

           L'artista non sapeva come spiegare alle signore il loro piacevole equivoco. Vergognoso, con la testa bassa, disse sommessamente:

           «È una Psiche. »

           «In veste di Psiche? C'est charmant! » disse la madre con un sorriso, dopo di che sorrise pure la figlia. «Non è vero, Lise, che a te più di tutto s'addice d'essere dipinta in veste di Psiche? Quelle idé e dé licieuse! Ma che lavoro! È un Correggio. Lo confesso, avevo letto e sentito di voi, ma non pensavo che aveste un simile talento. No, dovete assolutamente fare il ritratto anche a me. »

           È chiaro che anche la signora voleva apparire in veste di Psiche.

           «Cosa devo fare? » pensò l'artista, «se lo vogliono, che la Psiche passi pure per ciò che vogliono, » e ad alta voce disse: «Cercate di posare ancora un poco; farò qualche ritocco. »

           «Ah, ho paura che voi... è tanto somigliante così! »

           Ma l'artista capì che i timori riguardavano il giallo e la tranquillizzò, dicendo che intendeva solo dare più brillantezza ed espressione agli occhi. In realtà, però, provava vergogna e voleva conferire al ritratto almeno un po' più di somiglianza con l'originale per non essere considerato uno spudorato. In effetti i lineamenti della pallida fanciulla cominciarono infine ad uscire più distinti dalla testa di Psiche.

           «Basta! » disse la madre, che cominciava ad aver paura che la somiglianza risultasse alla fine troppo accentuata.

           L'artista fu ricompensato in ogni modo: sorrisi, denari, complimenti, sincere strette di mano, inviti a pranzo; insomma, ricevette mille attestati lusinghieri. Il ritratto fece scalpore in città. La signora lo mostrò alle sue amiche; tutte si stupirono dell'arte con cui il pittore aveva saputo conservare la somiglianza e nello stesso tempo aggiungere bellezza all'originale. Quest'ultima cosa, s'intende, fu osservata non senza una leggera sfumatura d'invidia sul viso. E l'artista si trovò a un tratto sommerso dalle richieste. Sembrava che tutta la città volesse farsi fare il ritratto da lui. Alla porta il campanello trillava di continuo. Da una parte ciò poteva essere un bene, in quanto la varietà e la moltitudine delle fisionomie gli offriva grandi possibilità di far pratica. Ma, disgraziatamente, si trattava sempre di persone con le quali era difficile lavorare in pace: gente frettolosa, occupata, o appartenente all'alta società, ossia più affaccendata di chiunque altro, e perciò estremamente impaziente. Tutti chiedevano solo che il lavoro fosse fatto bene e presto. L'artista vide che rifinire era assolutamente impossibile, che tutto si doveva compensare con l'abilità e l'audace rapidità del pennello. Afferrare soltanto l'insieme, l'espressione generale, e non approfondire i dettagli minuti: insomma, seguire la natura nei suoi particolari era assolutamente impossibile. Si deve inoltre aggiungere che quasi tutti coloro che si facevano fare il ritratto avevano anche altre pretese. Le signore esigevano che nei loro ritratti fossero messi in evidenza l'anima e il carattere, che il rimanente magari non vi apparisse affatto, che tutti gli angoli venissero arrotondati, tutti i difetti attenuati e persino, se possibile, ignorati. Insomma, che il loro volto apparisse almeno guardabile, se non tale da far innamorare. Di conseguenza, sedendosi per posare, esse assumevano talvolta delle espressioni che gettavano nello stupore l'artista: una si sforzava di atteggiare il viso a malinconia, un'altra prendeva un'aria sognante, un'altra ancora voleva rimpicciolire la bocca e la stringeva talmente che alla fine essa diventava un puntino grande come una capocchia di spillo. E, nonostante tutto questo, esigevano da lui somiglianza e spontanea naturalezza. E gli uomini non erano affatto meglio delle signore. Uno esigeva che lo si raffigurasse con un atteggiamento forte, energico del capo; un altro con gli occhi ispirati rivolti in alto; un colonnello della guardia voleva assolutamente che nel suo sguardo si vedesse Marte; un alto dignitario civile si preoccupò che sul suo viso ci fossero una grande dirittura e nobiltà e che la sua mano poggiasse sopra un libro dov'era scritto a grandi lettere: «Fu sempre per la verità ». In un primo tempo simili esigenze facevano sudare l'artista: queste richieste ponevano dei problemi su cui si doveva pensare, riflettere, e gli si concedeva invece così poco tempo. Ma alla fine capì meglio la situazione e non si affaticò più tanto. Bastavano due o tre parole per fargli comprendere come una persona volesse venir raffigurata. C'era chi voleva Marte, e lui gli stampava Marte in faccia; chi puntava a Byron, e lui gli dava un atteggiamento byroniano. Se le signore volevano essere una Korina, un'Ondina, un'Aspasia, lui acconsentiva di buon grado a tutto e, da parte sua, aggiungeva per ognuno una buona dose di avvenenza, cosa che, com'è noto, non guasta mai e talvolta fa perdonare all'artista anche il difetto di somiglianza. Ben presto cominciò egli stesso a meravigliarsi della stupefacente rapidità e dell'ardire del proprio pennello. I clienti erano entusiasti e lo proclamavano un genio.

           È artkò v diventò un pittore alla moda sotto tutti gli aspeti. Cominciò a frequentare i pranzi, ad accompagnare le signore nelle gallerie e persino a passeggio, a vestirsi da dandy e ad affermare apertamente che un artista deve far parte del bel mondo, deve tener alto il proprio titolo, mentre di solito i pittori si vestono come calzolai, non sanno comportarsi ammodo, non hanno stile e sono privi d'ogni educazione. A casa sua e nello studio egli aveva introdotto grande ordine e pulizia, assunse due magnifici servitori, si circondò di eleganti allievi; si cambiava d'abito varie volte al giorno, si faceva i riccioli, cercava di ricevere sempre meglio i suoi visitatori, di abbellire in ogni modo il proprio aspetto per produrre un'impressione gradevole sulle signore; insomma, ben presto non si sarebbe assolutamente più riconosciuto in lui il modesto artista che una volta lavorava inosservato nella sua stamberga dell'Isola Vasiliè vskij. Sugli artisti e l'arte adesso si esprimeva con asprezza: affermava che agli artisti del passato si attribuiva in fin dei conti troppo valore, che tutti loro fino a Raffaello non dipingevano figure ma aringhe; che era solo una fantasia degli osservatori l'idea che in esse si avvertisse la presenza della santità; che lo stesso Raffaello non aveva poi dipinto tutto bene e che molte delle sue opere dovevano la loro gloria soltanto alla leggenda; che Michelangelo era un borioso che non pensava ad altro che a farsi bello della sua cultura anatomica, ma era del tutto privo di grazia; e che il vero fulgore, la forza del pennello e dei colori si trovano soltanto adesso, nel nostro secolo. Qui, naturalmente, quasi, senza apparire, la cosa arrivava a toccarlo da vicino.

           «No, io non capisco, » egli diceva, «l'ostinazione di alcuni a faticare e sgobbare davanti a un'opera. Chi studia per mesi e mesi un quadro, per me non è un artista ma un lavoratore. Non posso credere che abbia dell'ingegno. Il genio crea audacemente, velocemente. Ecco, guardate me, » diceva di solito rivolgendosi ai visitatori, «questo ritratto l'ho dipinto in due giorni, questa piccola testa in un giorno, questo qui in qualche ora, quest'altro in un'ora o poco più. No, io... io, lo confesso, non considero arte ciò che viene modellato linea per linea; è mestiere, non arte. »

           Così parlava ai suoi visitatori, e i visitatori si stupivano della forza e dell'ardire del suo pennello, e persino lanciavano esclamazioni quando venivano a sapere della rapidità con cui egli creava, e si dicevano l'un l'altro: «È un genio, un vero genio! Guardate soltanto come parla, come gli brillano gli occhi! Il y a quelque chose d'extraordinaire dans toute sa figure! »

           L'artista era lusingato di sentire voci del genere sul suo conto. Quando sulle riviste venivano pubblicate lodi su di lui, ne gioiva come un bambino, sebbene quelle lodi se le fosse comprate col suo denaro. Poi diffondeva la pubblicazione dappertutto e, senza dare l'impressione di farlo apposta, la mostrava agli amici e ai conoscenti e in ciò provava la più sciocca e ingenua soddisfazione. La sua gloria cresceva, i lavori e le commissioni aumentavano. Già avevano cominciato ad annoiarlo sempre quegli stessi ritratti e visi le cui posizioni ed atteggiamenti ormai conosceva a memoria. Ormai li dipingeva svogliatamente, limitandosi ad abbozzare alla meno peggio la testa e lasciando che gli allievi facessero il resto. Prima, bene o male, cercava di mettere il capo in qualche nuova posizione, di ottenere con un tratto un effetto originale. Ora questo gli era venuto a noia. La sua mente si era stancata di inventare e di riflettere. Non ne aveva più la forza nè il tempo: la vita dissipata e la società in cui recitava la sua parte d'uomo di mondo lo allontanavano dal lavoro e dalla meditazione. La sua pennellata cominciò a diventar fredda e smorta, ed egli insensibilmente si chiuse in forme monotone, convenzionali, logore. I visi uniformi, freddi, perennemente sistemati e per così dire abbottonati, dei funzionari, dei militari e dei civili non offrivano molta libertà al pennello: esso dimenticò i sontuosi drappeggi, i gesti e le passioni violente. Di composizioni, di tensione drammatica, d'impegno elevato non era neppure il caso di parlare. Davanti a lui non posavano altro che uniformi, corsetti, o frac, di fronte al quali un artista prova sempre una sensazione di freddo e ogni immaginazione si dilegua. Nelle sue opere non si vedevano più neppure i pregi più comuni; e tuttavia continuavano a godere di celebrità, sebbene i veri conoscitori e gli artisti, guardando i suoi ultimi lavori, si limitassero a stringersi nelle spalle. Qualcuno che conosceva È artkò v da prima, non riusciva a capire come fosse potuto scomparire in lui quel talento i cui segni apparivano chiari agli inizi, e si domandava perchè si fosse già spento l'ingegno in un uomo che aveva appena raggiunto il pieno sviluppo delle proprie forze.

           Ma l'artista inebriato non sentiva queste voci. Era ormai alle soglie del tempo in cui gli anni e l'intelletto diventano posati, cominciava a ingrassare visibilmente. Sui giornali e sulle riviste leggeva aggettivi come: il nostro riverito Andrè j Petrò viè, l'emerito nostro Andrè j Petrò viè. Presero a proporgli incarichi onorifici, a invitarlo a presiedere agli esami, a far parte di comitati. E lui cominciava già, come sempre accade negli anni rispettabili, a schierarsi con tutto il suo peso dalla parte di Raffaello e degli antichi pittori, non perchè si fosse pienamente convinto del loro alto valore, ma perchè gli servivano per opporsi agli artisti giovani. Già cominciava, come accade a tutti coloro che entrano in quest'età, ad accusare senza eccezione di sorta i giovani di immoralità e di cattivo indirizzo spirituale. Già cominciava a credere che tutto al mondo avvenisse in modo semplice, che non ci fosse nulla di superiore all'ispirazione e che bastasse sottoporre tutto alla regola severa dell'accuratezza e dell'uniformità. Insomma la sua esistenza sfiorava il tempo in cui tutto ciò che è slancio si rattrappisce nell'uomo, quando il potente archetto risuona più debolmente nell'anima e non diffonde la sua musica penetrante intorno al cuore: quando il contatto della bellezza non trasforma più vergini forze in fuoco e in fiamme, ma tutti i sentimenti, che hanno ormai finito di bruciare, diventano più accessibili al suono dell'oro, prestano un orecchio più attento alla sua seducente musica, e a poco a poco, insensibilmente, se ne lasciano addormentare. La gloria non dà piacere a chi l'ha rubata, non meritata; essa produce un costante fremito solamente in chi ne è degno. Perciò ogni slancio del pittore si volse all'oro. L'oro divenne la sua passione, il suo ideale, il suo terrore, piacere, scopo. Nei suoi buali si ammucchiavano i mazzi di banconote e, come tutti coloro che ricevono in sorte questo terribile dono, egli diventò monotono, inaccessibile a tutto ciò che non riguardasse l'oro, uno spilorcio senza ragione, un fanatico collezionista; era ormai pronto a trasformarsi in uno di quei curiosi esseri, così numerosi nel nostro insensibile mondo e a cui guarda con spavento l'uomo dotato di vita e di cuore, simili ad ambulanti tombe di pietra con un cadavere al posto del cuore. Ma un avvenimento sconvolse con violenza e risvegliò tutta la sua sostanza vitale.

           Trovò un giorno sul suo tavolo un biglietto in cui l'Accademia delle Arti lo pregava, in quanto suo degno membro, di recarsi a dare il suo giudizio su una nuova opera mandata dall'Italia da un artista russo che era andato laggiù per perfezionarsi. Quest'artista era uno dei suoi compagni d'un tempo, che sin dall'adolescenza nutriva in sè la passione per l'arte, e con spirito ardente, con tutta la sua anima vi si era consacrato, si era allontanato dagli amici, dai parenti, dalle piccole abitudini, e si era precipitato là dove, sullo sfondo di cieli stupendi, matura il maestoso vivaio delle arti, in quella portentosa Roma il cui nome fa battere con forza il cuore d'ogni artista. Come un eremita si era immerso nel lavoro, con una dedizione che nulla poteva distrarre. Non gli importava che criticassero il suo carattere, la sua insofferenza nel trattare con la gente, il suo disdegno per convenzioni mondane, il disdoro che causava al titolo di artista con la sua trascuratezza, con il suo abbigliamento misero. Non gl'importava che i suoi colleghi cercassero o no la sua compagnia. Disprezzava tutto, dava tutto all'arte. Visitava tutte le gallerie, sostava per ore davanti alle opere dei grandi maestri, cercando di cogliere il segreto del loro pennello portentoso. Non portava nulla a termine senza confrontare più volte la sua opera con quella dei grandi maestri e senza leggere nelle loro creazioni una muta ma eloquente risposta per se stesso. Non prendeva parte alle conversazioni rumorose e alle discussioni; non era nè per i puristi, nè contro i puristi. A tutti in modo equanime dava quanto spettava, da tutti prendeva ciò che c'era di bello; alla fine aveva eletto a sommo modello e a suo maestro solo il divino Raffaello. Aveva fatto come un poeta che dopo aver letto molte opere d'ogni genere, piene di tutto il fascino e di tutte le bellezze possibili, scelga in ultimo come libro da capezzale solamente l'Iliade d'Omero, perchè scopre che in essa c'è già tutto e che non esiste nulla che non sia già riflesso in una così profonda e grande perfezione. In tal modo il nostro pittore aveva tratto da Raffaello un'idea sublime della creazione, la possente bellezza del pensiero, l'alto fascino d'un tocco divino.

           Entrando nella sala, È artkò v trovò raccolta davanti al quadro una grande folla di visitatori. Dappertutto regnava un profondo silenzio, come di rado accade quando in un posto c'è tanta gente. Egli si affrettò ad assumere l'aria ispirata del conoscitore e si avvicinò al quadro; ma, Dio mio, che cosa vide!

           L'opera dell'artista stava davanti a lui pura, mirabile come una sposa. Divina, innocente e semplice com'è il genio, essa si librava su ogni cosa. Pareva persino che quelle figure celestiali, stupite da tanti sguardi rivolti su di loro, abbassassero pudicamente le stupende ciglia. I conoscitori contemplavano con un senso d'involontario stupore quella nuova e mai veduta creazione pittorica. Tutto sembrava qui fuso: lo studio di Raffaello, che si rivelava nell'alta nobiltà degli atteggiamenti, l'insegnamento del Correggio che alitava nella minuziosa perfezione della pennellata. Ma più imperiosamente di tutto s'imponeva la forza creativa racchiusa nell'anima stessa dell'artista. Il minimo oggetto era stato da lui penetrato; di ogni cosa egli aveva colto la norma e la legge intima. Ovunque era stata raggiunta quella fluida rotondità delle linee che è racchiusa nella natura e che soltanto l'occhio dell'artista creatore sa vedere, mentre l'imitatore ne ottiene soltanto angolosità. Si vedeva che, l'artista aveva dapprima chiuso nella sua anima le impressioni attinte al mondo esterno e di lì, poi, dalla sorgente dell'anima, le aveva liberate come un'armoniosa, trionfale canzone. Ed appariva chiaro anche ai non iniziati quale incommensurabile abisso esista fra la creazione e la semplice copia dalla natura. È impossibile descrivere l'insolito silenzio che tutti mantenevano, come legati da un patto involontario, mentre tenevano gli occhi fissi sul quadro: non un fruscio, non un rumore, mentre il quadro a ogni istante sembrava elevarsi sempre più, sempre più luminosamente e più meravigliosamente staccarsi da tutto per trasformarsi infine in una visione balenante, frutto d'un'idea ispirata all'artista dal cielo, cui tutta l'esistenza d'un uomo serve solo da preparazione. Involontarie lacrime gonfiavano gli occhi dei visitatori che circondavano il quadro. Pareva che tutti i gusti, tutte le temerarie e sbagliate deviazioni del gusto si fossero fuse in una specie di muto inno a quell'opera divina.

           È artkò v stava davanti al quadro, immobile, con la bocca aperta; quando infine a poco a poco visitatori e conoscitori cominciarono a far rumore e a discutere sui pregi dell'opera, e si rivolsero a lui pregandolo di palesare il suo parere, avrebbe voluto assumere un'aria indifferente, normale, avrebbe voluto pronunciare l'abituale abbietto giudizio degli artisti ormai mummificati, del genere: «Sì, certo, non si può negare l'ingegno dell'artista; c'è qualcosa, si vede che voleva esprimere qualcosa, tuttavia, per quanto riguarda l'essenziale... » E aggiungere poi, naturalmente, qualcuna di quelle lodi che non hanno mai giovato ad alcun artista. Avrebbe voluto far questo, ma la frase gli morì sulle labbra; per tutta risposta proruppe in lacrime e singhiozzi e fuggì come impazzito dalla sala.

           Rimase poi per qualche tempo, nel suo studio lussuoso, immobile e insensibile a tutto. L'intero suo essere, l'intera sua vita erano state risvegliate in un istante, come se la giovinezza gli fosse stata restituita di nuovo. Tutt'a un tratto la benda cadde dai suoi occhi. Dio! Distruggere così spietatamente gli anni migliori della giovinezza; annientare, spegnere la scintilla del fuoco che forse gli covava nel petto, che forse si sarebbe sviluppata in grandezza e in bellezza, e far sì che anche lui ispirasse lacrime di stupore e di riconoscenza! Distruggere tutto questo, distruggere senza pietà! Parve che in quell'istante, di colpo, rivivessero nella sua anima quelle tensioni e quegli slanci che un tempo anch'egli conosceva. Afferrò il pennello e si avvicinò alla tela. Il sudore dello sforzo gli coprì la fronte, egli si trasformò tutto in un solo desiderio e s'infiammò d'un solo pensiero: raffigurare un angelo caduto. Quest'idea era la più consona allo stato in cui si trovava il suo spirito. Ma, ahimè! Le figure, le pose, i gruppi, i pensieri stessi si deponevano sulla tela in modo forzato e incoerente. Troppo a lungo il suo pennello e la sua immaginazione erano rimasti chiusi in un'unica dimensione, e ora il suo impotente impulso a superare i confini e le catene che egli stesso s'era dato si manifestava come un'aberrazione e un errore. Egli aveva sdegnato il lungo e faticoso tirocinio dell'acquisizione graduale, le leggi prime e basilari della futura grandezza. Lo prese il dispetto. Ordinò di portar fuori dallo studio tutte le sue opere precedenti, tutti i quadri alla moda e senza vita, tutti i ritrati di ussari, di signore e di consiglieri di stato. Si chiuse, solo, nella sua stanza, ordinò di non far entrare nessuno e s'immerse tutto nel lavoro. Come un giovinetto paziente, come un allievo, si accinse al suo lavoro. Ma com'era spietatamente mediocre tutto quello che usciva dal suo pennello! A ogni passo era frenato dall'ignoranza degli elementi più rudimentali; un artificio semplice, insignificante, bloccava tutto lo slancio e si ergeva come una soglia invalicabile per l'immaginazione. Il pennello involontariamente seguiva i modelli imparati a memoria, le mani si atteggiavano sempre nella stessa maniera, la testa non sapeva prendere una posizione che non fosse convenzionale, persino le pieghe dell'abito apparivano fissate dalla consuetudine e non riuscivano a drappeggiarsi secondo un atteggiamento nuovo del corpo. E il pittore lo sentiva, lo sentiva e lo vedeva egli stesso!

           «Ma avevo veramente del talento? » si disse infine. «Non mi sarò ingannato? »

           E, pronunciate queste parole, si avvicinò alle sue prime opere, a cui un tempo aveva lavorato in modo pulito, disinteressato, laggiù, nella povera stamberga dell'Isola Vasiliè vskij, lontano dalla gente, dalla ricchezza e da ogni vanità. Si avvicinò ora ad esse e si mise a esaminarle attentamente, mentre le guardava, cominciò a riandare col pensiero alla sua misera vita d'un tempo. «Sì, » disse con disperazione, «avevo talento. Dappertutto, su tutto se ne vedono i segni e le tracce... »

           Si fermò e, a un tratto, sussultò in tutto il corpo: i suoi occhi s'erano incrociati con altri occhi che lo fissavano immobili. Era il non comune ritratto che aveva comprato allo Š è ukì n Dvor. Durante tutto quel tempo era rimasto nascosto, occultato dagli altri quadri, e lui se n'era completamente dimenticato. Adesso che erano stati portati via tutti i ritratti e i quadri alla moda che prima riempivano lo studio, come di proposito esso era riemerso alla luce insieme alle sue prime opere di gioventù. Quando il pittore rammentò la strana storia, quando ripensò che in un certo modo quel ritratto era stato la causa della sua trasformazione, che il tesoro così prodigiosamente ricevuto aveva generato in lui tutti quegli impulsi vani che poi avevano ucciso il suo talento, per poco la sua mente non fu sopraffatta dalla follia. Subito diede l'ordine di portar via l'odioso ritratto. Ma questo non bastò a placare la sua agitazione: tutti i suoi sensi e tutto il suo essere erano completamente sconvolti ed egli provò quell'orribile supplizio che, in casi eccezionali, si presenta talvolta nella natura quando un talento debole si sforza di esprimersi in una dimensione che lo oltrepassa, e non riesce; quel supplizio che in un giovane può generare qualcosa di grande ma in chi ha superato la frontiera dei sogni si trasforma in sterile sete; quel supplizio terribile che rende l'uomo capace di spaventosi misfatti. Di lui s'impadronì una tremenda invidia, un'invidia che rasentava la follia. Il fiele gli affluiva al viso quando vedeva un'opera che recava l'impronta del genio. Digrignava i denti e la divorava con lo sguardo del serpente. Nella sua anima nacque il più infernale proposito che mai un uomo abbia nutrito, ed egli si mise a realizzarlo con folle energia. Cominciò a raccogliere i migliori prodotti dell'arte. Dopo aver acquistato un quadro a caro prezzo, lo portava con cautela nella sua stanza e qui si gettava su di esso con la rabbia d'una tigre, lo strappava, lo lacerava, lo faceva a pezzi e lo calpestava, accompagnando questo con risa di piacere. Slegò i suoi sacchi d'oro, aprì i suoi forzieri. Mai alcun mostro d'ignoranza distrusse tante opere stupende quante ne distrusse quel furibondo vendicatore. Alle aste dov'egli si mostrava, tutti abbandonavano subito la speranza di poter acquistare un'opera d'arte. Pareva che il cielo irato avesse di proposito inviato sulla terra quello spaventoso flagello per distruggere ogni bellezza. Questa spaventosa passione conferì una tinta terribile al suo viso, perennemente bilioso. Il vituperio e la negazione del mondo si manifestavano già nei suoi lineamenti. Pareva che in lui si fosse impersonificato il terribile demone che Pù š kin ha voluto raffigurare idealmente. Le sue labbra non proferivano null'altro che parole velenose e un'eterna negazione di tutto. Appariva sulla strada simile a un'arpia; anche i suoi amici, vedendolo di lontano, scantonavano e cercavano di evitarne l'incontro, perchè, dicevano, questo era sufficiente ad avvelenar loro l'intera giornata.

           Per fortuna del mondo e dell'arte, un'esistenza così tesa e forsennata, non poteva durare a lungo: la dimensione delle passioni era troppo grande e contorta per le sue deboli energie. Gli accessi di furore e di follia cominciarono a manifestarsi più spesso, e tutto ciò, infine, sfociò nella più spaventosa delle malattie. Una febbre crudele, che s'accompagnò a una forma rapida di tubercolosi, s'impadronì di lui in modo così feroce che in tre giorni del pittore rimase solamente l'ombra. A ciò si aggiunsero i sintomi di una pazzia senza speranza. Talvolta non riuscivano a reggerlo neanche diverse persone. Cominciò ad avere una visione: vedeva gli occhi vivi, pur dimenticati da tempo, dell'inconsueto ritratto, e allora la sua furia era terribile. Tutte le persone che attorniavano il suo letto gli sembravano spaventosi ritratti. Esso si sdoppiava, si quadruplicava ai suoi occhi; tutte le pareti gli sembravano coperte di ritratti che fissavano su di lui i loro occhi vivi e immobili. Ritratti orribili lo guardavano dal soffitto, dal pavimento; la camera si dilatava e si estendeva all'infinito per meglio contenere quegli occhi immobili. Il dottore che lo curava, e che già aveva sentito raccontare qualcosa della sua strana storia, cercò con ogni mezzo di trovare un rapporto segreto fra le visioni che gli apparivano e gli avvenimenti della sua esistenza, ma senza riuscire a nulla. Il malato non comprendeva e non sentiva altro che i propri tormenti ed emetteva solamente orrendi gemiti e frasi incoerenti. Finalmente la sua vita si spezzò nell'ultimo e ormai muto accesso di sofferenza. Il suo cadavere era spaventoso. Delle sue enormi ricchezze non si trovò più nulla; ma i frammenti delle opere d'arte distrutte, il cui prezzo era di parecchi milioni, fecero capire quale spaventoso uso egli ne avesse fatto.

 



  

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