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Com’è bello sognare!



 

 

Come suole farsi nelle famiglie con un certo benestare, anch’io un giorno pensai che possedere una campagna dove andare nel mio tempo libero poteva comportare dei cambiamenti piacevoli nel mio stile di vita. Fino allora mi ero dedicato maggiormente al mio lavoro per la scuola, dove insegnavo, e impiegavo alcune ore pomeridiane nella ricerca e preparazione delle lezioni del giorno seguente. Faceva parte del mio lavoro e lo facevo con entusiasmo. Sentivo però il bisogno di dover fare anche qualcosa di diverso, per me stesso, qualcosa che mi desse un motivo per trascorrere più tempo fuori di casa. Maturò così lentamente l’idea che avrei dovuto, anche soltanto nel mio giorno libero ogni settimana, allontanarmi un po’ dai libri e misurarmi in una realtà diversa per capire meglio me stesso alla luce di nuove esperienze. Pensavo che conoscere gente nuova potesse schiudermi altre possibilità e altri ambienti.

Alcuni dei miei amici avevano cominciato a frequentare sedi di partiti politici, altri si dedicavano ad attività sindacali oppure si mettevano a disposizione di candidati politici importanti per averne dei vantaggi futuri.

 

Quei pochi mesi, durante i quali anch’io frequentai una sede di partito, furono sufficienti per capire che io non avevo la stoffa necessaria per la carriera politica. Per progredire in quell’ambiente occorrevano ambizione e servilismo. Non occorreva sapere, ma solo sapersi muovere nei meandri del sottobosco dei partiti politici per conoscere le persone giuste da corteggiare. Cosa che non sapevo fare e non era nella mia indole di farlo. Abituato com’ero allo studio e a fare sacrifici, avevo sempre risolto i miei problemi confidando solo sulle mie possibilità. Comunque mi sentivo molto a disagio a stare insieme con persone che non si facevano scrupolo di niente pur di raggiungere il loro scopo. No. Non ero fatto per la politica intesa in quel senso e preferivo riflettere sugli esempi di vita dei miei nonni e dei miei genitori.

Cominciavo già a pensare alla campagna dei nonni, dove avevo trascorso i giorni più belli della mia vita. I miei ricordi più belli erano rimasti lì. Quegli anni, quando trascorrevo lunghe giornate in campagna erano ancora ricordi vivi nella mia mente. Correvo spensierato di qua e di là per i campi e mi soffermavo su ogni cosa che destava la mia curiosità. Seguivo mio nonno quando mungeva le mucche nella stalla e s’infastidiva quando esse, nel muovere la coda per scacciarsi di dosso le mosche, gliela portavano in faccia. Gli stavo dietro quando conduceva le mucche giù per la trazzera per lasciarle al pascolo nei prati, coperti di erba buona, che stavano in basso adiacenti al vallone. Gli ulivi alla cui ombra fantasticavo, il gelso bianco vicino alla casa, le maestose piante di carrubo, le more succose sui rovi del vallone, i campi con le bionde spighe di frumento ondeggianti al vento, i filari di fichidindia con i frutti dalla polpa gialla o rossa, il profumo delle erbe aromatiche, la frescura dell’aria mattutina, tutti questi ricordi e altri ancora mi portavano a concludere che sentivo per la campagna una naturale inclinazione e che avevo nostalgia di ritornarci.

 

Avere una campagna significava per me ricominciare, a distanza di tanti anni dalla mia fanciullezza, ad avvicinarmi alla natura per risvegliare in me sensazioni e sentimenti che covavano sotto la cenere. Quando in classe spiegavo qualcosa, andavo sempre alla lavagna, dove chiarivo i miei esempi con disegni che, guarda caso, erano anche campi, alberi, erba, fiori, fiumi, laghi, ruscelli, muri, case e quant’altro il quadro della natura ci presenta.

 

Fui guidato più dal cuore che dalla mente, nonchè dalla mia fiducia di poter tradurre queste mie naturali inclinazioni nella realtà, quando maturai la mia decisione di comprare uno stacco di terra. Com’è consueta abitudine, anch’io cominciai a pianificare che cosa avrei voluto fare e dedicavo lunghe ore a pensare, disegnare, cancellare e ridisegnare come avrebbe potuto essere l’aspetto della casa, del viale d’accesso, del frutteto, dell’orto, della zona riservata ai pini, del parcheggio, delle aiuole, e via dicendo. In breve tempo mi affezionai talmente a questa seconda occupazione che volli comprare alcuni libri sulla coltivazione degli alberi da frutta e munirmi degli attrezzi agricoli necessari a svolgere i primi lavori. Dedicavo il mio giorno libero da scuola interamente alla campagna e mi accorsi presto che non avevo più un giorno di riposo giacchè quando capitava qualche giorno di vacanze lo trascorrevo sempre in campagna.

 

Per meglio sistemare il terreno, che presentava dislivelli e asperità rocciose, ricorsi a una persona che in due giorni di lavoro col caterpillar ne modificò l’aspetto. Rimase sul terreno un vasto miscuglio di pietre, terra sparsa qua e là senza ordine e spezzoni emergenti di radici di piante selvatiche. Quando sopraggiunse il primo inverno quelle pietre bagnate, fredde e scivolose al tatto, erano diventate più pesanti. Tutto era pesante alla vista, triste e incolore. C’era veramente da confondersi di fronte a come il suolo appariva al mio sguardo. Mi aspettavano lunghi e pesanti mesi di lavoro, almeno tre volte tanto quanto ce n’erano da fare quando il suolo conservava ancora il suo aspetto selvaggio.

 

Era prima un ettaro di terra arida e selvaggia la cui vegetazione consisteva di arbusti spinosi, cespugli con fiori gialli e piante selvatiche vive o rinsecchite. Dappertutto spine, pietre, piante selvatiche e aromatiche. Tutti gli aromi della terra erano là. C’era il finocchio selvatico, l’origano, la salvia, il rosmarino, la cedronella, il basilico. Dalle fessure di rocce emergenti erano cresciuti arbusti legnosi e rinsecchiti. Zolle di terra spaccate dal calore del sole erano diventate ricettacoli di migliaia di formiche operose che le avevano ridotte in polvere. Anfratti e cavità erano diventati rifugi per rettili e roditori. Su tutto batteva lo scirocco dell’Africa.

 

Quando mi avvicinavo ad anfratti o percorrevo sentieri tortuosi, che arbusti alti e spinosi nascondevano alla vista, c’era sempre qualche serpente che si allontanava o qualche lepre che scattava via talmente veloce che avevo appena il tempo di vederla mentre saltava un muro a secco o prima che sparisse fra la folta vegetazione. Ciò che mi affascinava della campagna era la sua posizione collinare e ventilata sui monti Iblei da cui si godeva un paesaggio meraviglioso. La valle sottostante si estendeva a perdita d’occhio e fin dove il mio sguardo poteva giungere era un susseguirsi di boschi di ulivi, campi coperti di erba secca e gialla, zone rocciose cosparse qua e là di cespugli, strade sterrate che portavano a conventi, chiese e casolari. Sparse qua e là casette con i tetti rossi e muri bianchi costruite probabilmente da altri che, come me, avevano cercato evasione nell’ambiente sano e riposante della campagna.

 

Fintanto che rimanevo ad ammirare l’estensione e la bellezza del paesaggio che mi stava di fronte mi sentivo contento e gratificato. Forse provavo anche un pò di orgoglio per la scelta del luogo.

Quando però distoglievo lo sguardo dal paesaggio, la scena che rivedevo ai miei piedi, da me stesso creata con l’intervento del caterpillar, non aveva niente più di poetico, niente del quadro naturale che era prima. Le cose che avevo visto prima nella mia fantasia e poi disegnato diventavano gradatamente bisogni da soddisfare, bisogni che creavano altri bisogni e problemi complicati da risolvere. Quanti imprevisti si susseguirono in gran parte motivati dalla mia scarsa esperienza!

 

Lo stato del suolo, per esempio. Scoprire la presenza di roccia quasi emergente dalla terra obbligava a soluzioni di ripiego che comportavano maggiori oneri e tempi di quanto previsto. C’erano da fare tantissime cose: delimitare la superficie del terreno con un muro di cinta, che tipo di materiale utilizzare, risolvere il problema dell’acqua e della luce elettrica, pensare alle pratiche burocratiche prima di potere edificare, quanto si poteva edificare per legge, come pianificare tempi e costi di quanto volevo realizzare, che cosa realizzare prima, quanto costa questo e quanto quest’altro, e così via proseguendo col pensiero in un intrico di priorità, scelte, costi, ripensamenti, dubbi e incertezze. Era anche difficile trovare un operaio che venisse a lavorare a giornata. Se e quando lo trovavo, dovevo prenderlo con le pinze e passare su tutto senza badare a particolari per evitare che s’irritasse e non ritornasse l’indomani.

 

Seduto a terra con le spalle appoggiate a un muro a secco, nel tardo pomeriggio di una lunga giornata di lavoro, sfinito dalla fatica ripensavo a quanto stavo facendo. La campagna, dove prima libero godevo della sua bellezza, era ora come un campo circondato da filo spinato. Mi sentivo rinchiuso e condannato ai lavori forzati e chi mi ci aveva condannato e stava a guardia su di me ero io stesso. Alla primitiva sensazione di godimento davanti alla natura selvaggia era subentrata negli anni la consapevolezza che ero divenuto schiavo della mia volontà di usare la natura per scopi estranei.

 

Non avevo più le cose che mi circondavano quando muovevo là i miei primi passi. Non c’era più niente dove io potessi fermare il mio sguardo per riceverne letizia. C’era solo il pensiero del lavoro che mi aspettava, di un progetto estraneo alla bellezza della natura, che era stata il motivo per cui avevo voluto la campagna. Quando vedevo la mia campagna come natura, ne ero felice. Ora che la vedo come proprietà e ne sento le conseguenze nella schiena penso amaramente che sarebbe stato meglio se fosse rimasta com’era prima. Ho violentato la terra, ho distrutto la natura, ho tradito le mie inclinazioni. Dove sono i miei ricordi? Che cosa ho fatto delle piante selvatiche? Dove sono andati lepri, serpenti e roditori?

 

Com’è che il quadro della campagna, che prima immaginavo era così bello, tranquillo e riposante, è ora diventato tutto l’opposto? All’origine di tutto questo c’è un conflitto fra la fantasia e la volontà. La fantasia vede la bellezza della campagna e trasferisce nelle cose che sogniamo la bellezza della nostra anima. La volontà vede la campagna in relazione ai nostri progetti, a ciò che possiamo ottenerne, ai vantaggi economici, al valore.

 

Se mi si chiedesse “E che cosa hai fatto tu della tua campagna? ”, allora risponderei: “Non ho quello che sognavo, ho quello che non sapevo di volere. ” I sogni sono belli fintanto che restano sogni. La fantasia è cosa assai diversa dalla realtà e se mai tentiamo di ancorare i nostri sogni alla realtà, allora ci accorgiamo che le nostre primarie emozioni devono lasciare posto a una logica basata e strutturata da convenzioni sociali. Vivremo comunque sempre questo conflitto tra sogno e realtà ma saremo felici se ritroveremo ancora dentro di noi la parte migliore di noi stessi, il bambino di allora.

 

 



  

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